Come i punti cardinali che ci indicano la direzione ed orientano i nostri viaggi. Come il cardine, punto nodale che regge le strutture portanti, negli edifici e nella vita.
D’improvviso mi sono trovata a riflettere, come talvolta capita senza una chiara ragione, sulla mancanza di etica che sembra pervadere molti ambiti della nostra società.
L’etica è una categoria che mano a mano abbiamo reso flessibile e negoziabile.
C’è stato però un tempo in cui qualificava l’umanità e non esisteva eroe che potesse esimersi dall’essere virtuoso. La virtù degli antichi greci, l’aretè, era il cardine sul quale poggiava la grandezza di qualsiasi essere umano, il cardine dell’onore suo e della sua stirpe.
Questo pensiero mi si è imposto in modo prepotente, mentre giravo pigramente fra gli scaffali della mia libreria di fiducia e il mio sguardo ha impattato con un libriccino intitolato: Le virtù cardinali.
Pubblicato da Laterza nel 2017, si tratta di un saggio filosofico che, pur mantenendo intatta la profondità dei temi, è scritto in maniera molto agevole. Gli autori sono quattro fra i più quotati filosofi italiani: Remo Bodei, professore emerito di Filosofia all’Università di Pisa; Giulio Giorello, professore di Filosofia della Scienza all’Università di Milano; Michela Marzano, professoressa di Filosofia Morale e Politica all’Università Paris Descartes e Salvatore Veca, professore di Filosofia Politica allo IUSS di Pavia.
Le quattro virtù cardinali
Questi quattro autori trattano, rispettivamente, di prudenza, temperanza, fortezza e giustizia, le quattro virtù cardinali.
Perciò stavolta vorrei ritornare alla mia primigenia natura di filosofa e raccomandarvi questa buona lettura, utile in anni caratterizzati da incertezze, intolleranza, paura e ingiustizia. Il ritorno ai classici, la riflessione critica sulla nostra natura e sull’etica antica, può costituire un ancoraggio per ri-orientare il nostro agire, sia individuale che collettivo.
Benvenuta quindi la conoscenza della prudenza, virtù deliberativa per eccellenza che ci conduce alla decisione attraverso il discernimento tra bene e e male; della temperanza che ci consente di vivere in società civili in cui una regola non si impone contro quelle altrui. La fortezza, che è il coraggio per affrontare la paura senza scivolare nella scelleratezza; mentre la giustizia che fa sì che i diritti non siano imprigionati dai confini di società sterili ed indisponibili al progresso.
Prudenza
Per millenni, ci spiega Remo Bodei, essa ha rappresentato la più alta forma di saggezza pratica, l’abilità di prendere la miglior decisione possibile in una data circostanza. La prudenza era, per gli antichi Greci, il più potente antidoto alla precipitazione nell’agire, al fanatismo e all’arbitrio. Oggi invece tendiamo a confonderla con la cautela, o con l’eccesso di moderazione. Il filosofo medievale Tommaso D’Aquino la definì “Auriga virtutum”, perché la prudenza guida, dirige e connette con le altre virtù cardinali.
La radice della trattazione riferita alla virtù della prudenza è il VI libro dell’Etica Nicomachea di Aristotele che la pone in contrasto con la scienza: quest’ultima ha a che fare con ciò che non può mutare, mentre la prudenza attiene alla capacità di valutare in base a norme flessibili che devono però sempre essere improntate al bene sia soggettivo che della comunità.
Nelle odierne democrazie la prudenza ridiventa una virtù necessaria, una forma di compensazione per quella promessa democratica mancata che è l’educazione del cittadino che, invece di esser lungimirante e diretto al bene comune, appare sempre più indignato, passivo e ripiegato su se stesso.
Temperanza
Questa virtù che ci descrive Giulio Giorello, di primo acchito quasi intimidisce. Chi di noi non è, almeno ogni tanto, intemperante? Eppure la temperanza è quella che fonda il vivere civile, intesa come tutela del senso civico, del rispetto della libertà propria ed altrui.
Pensiamo a John Milton: nessuno Stato potrà mai rendere i suoi cittadini virtuosi per decreto. La temperanza agognata dal celebre poeta inglese è quella basata non sui veti, ma sul valore decisivo della nostra coscienza individuale.
Le comunità dovrebbero svilupparsi aumentando progressivamente la capacità di regolarsi autonomamente senza pretendere che la regola propria venga imposta a scapito delle altre. Ben sappiamo che questo sia più facile a dirsi che a farsi eppure Oscar Wilde ci rammenta che:
Il progresso altro non è che la realizzazione dell’utopia.
Ciascuno di noi deve sentirsi chiamato alla temperanza, ossia a non cedere ai fanatismi e agli estremismi. La bruta violenza non ha mai risolto né i conflitti pratici, né le dispute intellettuali. Ed è questa la grande lezione che ci ha lasciato in eredità l’Inghilterra seicentesca.
Fortezza
Vien dietro a me, e lascia dir le genti:
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima, per soffiar di venti
Michela Marzano sceglie questi noti passi del canto V del Purgatorio di Dante per aprire la sua riflessione sulla fortezza, altrimenti detta coraggio.
Attualmente la sensazione diffusa è che il coraggio si stia sbriciolando sotto i colpi della paura. Il coraggio è proprio la capacità di fronteggiare la paura nella consapevolezza dei rischi che ci attendono. Anche qui ci soccorre Aristotele: il coraggio è il giusto mezzo (mesothès) fra codardia e temerarietà. Il coraggioso è cosciente del pericolo e ne ha paura, ma si mette in gioco ugualmente.
La paura va nominata e riconosciuta, diversamente non saremmo in grado di attraversarla e vincerla.
Hannah Arendt ci dice che il coraggio è necessario ogni giorno: per votare in Parlamento, per punire un alunno irresponsabile, per educare un figlio. E la conditio sine qua non del coraggio è il pensare con la propria testa .
Una persona che smette di pensare in modo autonomo per seguire un leader o un’idea in modo acritico, è una persona non più in grado di riconoscere il male, né di immedesimarsi empaticamente nel prossimo.
L’altra condizione imprescindibile del coraggio è l’accettazione di sé, è far pace con i nostri limiti e con le nostre imperfezioni.
Giustizia
Anche Salvatore Veca cita Aristotele quando ci dice che il giusto mezzo dell’iniquità è l’equità, ossia l’abilità di evitare che persone si avvantaggino rispetto ad altre, appropriandosi di più di quanto è loro dovuto o negando ad altri quel che gli spetta. Hobbes adotta il vocabolario aristotelico nel definire la giustizia come il:
volere costante di dare a ciascuno il proprio.
Dobbiamo aspettare gli anni Settanta del 900 per giungere a riflessioni molto analitiche sulla giustizia come la “giustizia sociale” di Rawls che fa leva sui principi di sistema di libertà e di sistema distributivo: una giustizia distributiva equa deve tener conto delle disuguaglianze immeritate e creare un sistema dove siano compensate.
In alternativa, negli anni Novanta, il premio Nobel per l’Economia Amartya Sen propone la teoria della “scelta sociale”: la sfida della giustizia globale per noi contemporanei, benché difficilissima, è INELUDIBILE, perché in un pianeta dove la maggior parte dei poteri (quello finanziario, politico ed economico) hanno ormai effetti che attraversano confini e frontiere dei vari stati e di tutti i continenti, non è più pensabile che i diritti e i criteri di giustizia restino inchiodati alle pareti della propria comunità politica chiusa.
Milena Corradini complimenti per la chiarezza con cui ha riassunto il libro di Bodei-Giorello-Marzano-Veca!
La ringrazio!
E’ un libro che ho sentito molto “mio”, per cui, come sempre accade quando si elaborano i contenuti, e’ stato facile raccontarlo.