Dico subito che l’ho interrotto a pagina 336 perché non ne potevo più.
Mi rendo conto che non è simpatico dire una cosa del genere di un Premio Nobel, ma questo romanzo morboso e lunghissimo è immobile proprio come il museo di cui parla. Immaginate un libro che racconti di oggetti quotidiani insignificanti, che li descriva e ci spieghi le circostanze, anche quelle ordinarie, in cui il protagonista feticista li ha presi per collezionarli.
Il museo dell’innocenza narra la storia di un uomo di trent’anni che ha tutto quello che si possa desiderare: è ricco, bello e colto e sta per sposarsi con una donna bellissima, ricca e colta anche lei. Si inizia con il loro sfarzoso fidanzamento, sullo sfondo di una Istanbul affascinante, nell’anno 1975.
Il trentenne va a comprare una borsa in regalo alla sua fidanzata e nella boutique incontra una lontana parente diciottenne e bellissima. Ha pure partecipato a un concorso di bellezza. La ragazza fa la commessa e intanto studia. Con una scusa lui l’attira in una sua casa che viene usata come una specie di deposito e lì i due fanno l’amore e diventano amanti.
Si vedono quasi quotidianamente e fanno un ottimo sesso. Lui però non ha il coraggio di cambiare la sua vita e mandare a monte il fidanzamento per l’amore di una commessa, perciò porta avanti le due relazioni parallelamente. Ma dopo il fidanzamento ufficiale, la ragazza sparisce e lui, che contava di tenersela come amante, dà i numeri. Cade in uno stato depressivo in cui gli pare che niente più nella sua vita abbia senso. Comincia a bere e non combina niente di buono.
«L’unica cosa che rende questo dolore sopportabile è possedere un oggetto, retaggio di quell’attimo prezioso. Gli oggetti che sopravvivono a quei momenti felici conservano i ricordi, i colori, l’odore e l’impressione di quegli attimi con maggiore fedeltà di quanto facciano le persone che ci procurarono quella felicità».
Il museo dell’innocenza
Dunque colleziona oggetti e li accumula nella casa in cui s’incontrava con l’amante. La sua fidanzata, che è molto innamorata di lui, fa di tutto per aiutarlo. Regge al fatto che lui non riesce più a fare l’amore con lei e per stargli dietro diventa mezza alcolizzata. Regge persino all’urto della confessione, quando lui le dice della relazione con la commessa aspirante miss. Ma non c’è niente da fare, lui si crogiola nel suo stato e nel suo immobilismo, senza mai decidere niente, finché lei non ne può più e lo lascia.
In tutto questo tempo, lui continua a cercare la sua amata in fuga e quando lei finalmente riappare e lo invita a casa, oltre ai suoi genitori c’è anche suo marito. Ha sposato un tipo grassottello che aspira a diventare regista. Allora lui comincia a frequentare la loro casa, illudendoli che vuole produrre un film di cui il marito sia il regista e lei l’attrice, mentre il suo piano segreto è riconquistarla, fare in modo che lasci il marito e si metta con lui.
Perciò va a cena a casa loro tutte le sere. Per otto anni. Ma non succede niente: lui si limita a descrivere il suo stato d’animo, il più delle volte irritato e umiliato, ma anche felice se per caso lei gli ha detto una frase gentile. Il protagonista descrive il suo delirio e ci preannuncia che durerà otto anni. Che succederà dopo questi otto anni?
Non lo so perché dopo un po’ di queste seratine in cui cenano a casa mentre guardano la tv, oppure al ristorante, e l’unica cosa che succede sono gli stati d’animo del protagonista che spreca la sua vita in questo modo insulso, l’ho abbandonato anch’io come la sua fidanzata.
Amore e ossessione
Questo sarebbe l’amore? Questa sarebbe la sofferenza amorosa, come vorrebbe farci credere il protagonista?
No, non ci credo. Questo stato morboso in cui lui è spettatore della vita degli altri non c’entra con l’amore. Dov’è il confine tra un amore romantico e malinconico e un atteggiamento ossessivo che si avvita sempre più su se stesso?
Non si riesce a provare simpatia per questo protagonista viziato e mezzo alcolizzato che ha tutto e vuole solo quello che non può avere, probabilmente proprio perché non può averlo.
Il romanzo parte bene ma poi si ferma
Visto che leggere è il modo migliore per viaggiare, dovendo passare un week-end a Istanbul avevo cominciato Il museo dell’innocenza per prepararmi alla città. Mi sono imbarcata nel libro prima ancora di partire e forse Istanbul è la cosa che vi è meglio rappresentata. Devo ammettere che il romanzo parte bene, ma nella parte centrale diventa di una noia mortale.
Pamuk ha avuto il premio Nobel per la letteratura nel 2006 e questo romanzo, che è del 2008, non lo aveva ancora scritto. Immagino che non sia il suo migliore.
Ieri in una libreria, parlavo con una coppia di appassionati lettori tedeschi. Ci raccontavamo i nostri romanzi preferiti. Lei mi ha indicato due libri di Marquez (altro Nobel per la letteratura), dicendomi che erano i suoi due migliori. Parlava con cognizione di causa perché ha letto tutti i suoi libri. Si tratta di Cent’anni di solitudine e di L’amore ai tempi del colera: altra storia d’amore che dura tutta la vita, ma che ha tutt’altra ricchezza.
Non voglio dire che se Pamuk avesse scritto prima Il museo dell’innocenza non gli avrebbero dato il Nobel, ma che anche i grandi scrittori non scrivono solo capolavori (a parte rare eccezioni). Perciò mi chiedo: non sarà che i geni della letteratura hanno a disposizione solo un paio di romanzi straordinari, mentre sul resto si può soprassedere?
Io ho letto Istanbul. Sono riuscita ad arrivare fino in fondo… quando, finalmente, ho chiuso il libro, mi sono ripromessa di non leggere mai più niente di questo scrittore. Quanto mi sono annoiata!
Stavolta sono d’accordo con te signora Borgia!
Ma c’è sempre il fattore imprescindibile del gusto. Ad esempio ho letto anche commenti di gente entusiasta di questo romanzo, intendo Il museo dell’innocenza. Va a capì!
Io personalmente lo trovò uno dei libri migliori mai letti. L’ho terminato circa un mese fa e ancora mi sento totalmente travolta dalla passione di Kemal e Fusun. Mi sono immersa nella lettura così tanto che i personaggi, l’ambiente, gli oggetti… Tutto mi sembra palpabile, quasi come se riuscissi ad afferrarlo semplicemente chiudendo gli occhi. È un romanzo che rapisce e ti resta dentro, che ti mostra con chiarezza la situazione di un uomo che vive in balia di una società sempre attenta e molto critica. La situazione di un uomo che per amore di una donna decide di mettere da parte le convenzioni sociali fino ad essere totalmente emarginato dall’alta società. Ma in fondo cosa rappresenta Kemal? Semplicemente quel lato di ciascuno di noi che brama ardentemente ciò che sa di “non poter avere”. L’unica differenza è che spesso noi rinunciamo ad inseguire ciò che tanto desideriamo, ci arrandiamo, il contrario di come si comporta Kemal che invece persevera, anche dopo la morte dell’amata. Forse bisgnerebbe in parte prendere esempio da lui perché nonostante tutto il tormento e gli struggenti periodi a cui l’assenza di Fusun lo condanna, Kemal non rimpiange nulla e anzi nell’ultima riga del libro afferma che i lettori di questo romanzo devono sapere che lui ha avuto una vita felice.
Ho letto questo libro, quando è uscito in Italia, l’ho trovato noioso, ma sono riuscita a finirlo, come Istanbul del resto. però devo ammattere che i romanzi di Pamuk, nel tempo sedimentano e lasciano qualcosa di profondo e indefinibile che altri libri assolutamente non hanno. Ho trovato splendido “Il mio nome è rosso”, anche se alcune parti le avrei saltate volentieri. a volte i libri sono faticosi ma vale lo stesso la pena di leggerli, altre volte sono scorrevoli ma poi pensiamo che avrenmmo potuto benissimo farne a meno.
D’accordissimo Maria Luisa che per certi bei libri bisogna faticare. Ad esempio io ho letto con molta fatica Memoriale del convento di Saramago (altro premio Nobel) quando sono andata in Portogallo e lo ritengo un libro meraviglioso. Ma ho faticato fino in fondo.
Che non mi arrendo facilmente lo dimostra il fatto che sono arrivata a pagina 336!
Però credo che sia controproducente insistere con un libro che non ci piace per niente. Mi appello ai diritti del lettore di Pennac, tra cui c’è quello di non finire un libro.
In passato finivo religiosamente ogni libro, anche quelli insopportabili. Ora per fortuna li abbandono, ma mai troppo presto.
Certo che è questione di gusto e di sensibilità…la poetica di Pamuk, a me, fa del male. Ho imparato a evitare tutto qaunto mi produce fastidio, compresi gli esseri umani.
Titti/L.B.
Aiuto! 😉
Anch’io li abbandono. Ad esempio trovo insopportabile queste cento sfumature di grigio…. ma siamo ad altri livelli.
Consiglio a tutti il libro di Fois “Il tempo di mezzo” bellissimo e pure scorrevole.
Veramente le sfumature di grigio sono 50, ma se calcoli che ce ne sono anche 50 di nero e 50 di rosso, il totale fa 150 🙂
Io non l’ho letto ma su Cronache Letterarie c’è un’interessante recensione di Alessandra Silveri.
In ogni caso le 150 sfumature occupano, da mesi, i primi tre posti dei libri più venduti in Italia.
Grazie ML del consiglio del libro di Fois. E’ uno dei finalisti al Campiello.
Anch’io come Luisa ho letto “Il mio nome è rosso” e l’ho trovato tanto affascinante quanto denso. La scrittura di Pamuk all’epoca mi aveva fatto pensare ai motivi decorativi arabi, bellissimi e avviluppati su loro stessi fino all’ossessione. A giudicare dalla tua recensione, direi che in questo libro a dominare è soprattutto il secondo aspetto…Peccato!
Ma le recensioni negative servono anche a svicolare da sonore cantonate e a risparmiare l’abbandono a mezza strada di un libro quando francamente supera l’umana capacità di sopportazione, quindi grazie!
Sì Marzia, da quanto mi dite tu e Maria Luisa, ma anche tanti altri, mi pare di capire che il romanzo più interessante sia Il mio nome è rosso, che tra l’altro è anche un giallo, ambientato nel 1500, che comincia con la voce di un artista assassiato, con la testa rotta, che giace in fondo a un pozzo…
Questo signora Borgia potrebbe piacere anche a te!
Tiziana, a quando gli articoli sul premio Campiello?
Proprio questa notte ho iniziato Istanbul. Sono a pagina 42. Mi avete demoralizzato … 🙂
Istanbul è l’unico libro di Pamuk che sono riuscita a finire e, devo dire, che l’ho trovato intenso e affascinante. Quella che emerge è chiaramente la Istanbul dello scrittore molto legata anche alle vicende della sua storia personale. Ma Pamuk riesce abilmente a trasmetterci quel senso di malinconia proprio di una città che assiste alla fine di un passato glorioso (quello ottomano) per diventare sempre più occidentale. Per quanto riguarda ” Il museo dell’innocenza”confesso che fatico a superare pagina cento e concordo con chi mi ha preceduta: mi sto annoiando! La fatica non è per me un deterrente se il libro riesce a darmi qualcosa in più. Perfettamente d’accordo con la coppia tedesca: G. G. Marquez…. che leggerezza di scrittura , che tenerezza ed ironia ne ” L’ amore ai tempi del colera” per esempio….!
A proposito di libri abbandonati: anche io, come penso quasi tutti, con l’avanzare dell’età ho ridotto la mia soglia di tollerabilità e appena mi accorgo che un libro non mi dà niente o mi sta annoiando, lo mollo. Non ci crederete, ma quest’estate ho mollato perfino underworld di lillo (su per giù a metà).
De Lillo, ovviamente.
Meno male Stefano!
Così mi sento in buona compagnia ad aver mollato a metà Pamuk.
Veramente Underworld è ancora più lungo, ma io non l’ho (ancora ?) letto.
Non ti fare scoraggiare da noi se Istanbul ti piace 😉
Hai visto che bella foto ho fatto alla Moschea Blu?
La parte piu’ interessante del libro di Pamuk e’ senza dubbio la cadillac rosa in copertina 🙂
Mi pare di capire che ti è proprio piaciuto!
Sì, Underworld come dimensioni è il doppio di Istanbul. Ma non è il numero di pagine il problema per me: ho letto Infinite Jest e La Recherche. Molto banalmente la lettura è associata al piacere e se un libro diventa faticoso io non ho più la voglia di portarlo a termine come facevo una volta. Non mi faccio davvero nessun problema a abbandonarlo. Vedremo questa notte come prosegue questo Pamuk (io ne leggo rigorosamente 40 pagine per volta).
Credo che questo valga per tutti. Quando un libro ti piace non vorresti finirlo mai.
Io comunque Istanbul non l’ho letto.
Ok, buona notte e buone 40 pagine 🙂
Due giorni fa ho finito di leggere “Il museo dell’innocenza”. E’ stato un pò come scalare l’Everest, certe parti sono state davvero pesanti e lente, molto lente. Ma non ho avuto, neppure per un attimo, la tentazione di abbandonarlo. Più leggevo più mi sentivo coinvolta e affascinata dalla storia e dall’atmosfera malinconica del libro. Il fatto che non succeda quasi nulla nel corso delle pagine, che situazioni, stati d’animo e pensieri del protagonista si ripetano all’infinito, mi sembra il modo scelto da Pamuk per rendere un’ ossessione amorosa che resiste, immobile e congelata, per quasi 10 anni. La poesia di questo romanzo, che rimanda alla tristezza malinconica di Istanbul, città bellissima, affascinante e magica, mi è entrata dentro, mi ha soggiogato, e adesso non voglio staccarmene. Non voglio abbandonare Pamuk e il suo mondo. Ho iniziato subito a leggere “Il mio nome è rosso”. E già sono completamente presa!
Un ultima cosa riguardo a “Il museo dell’innocenza”. Leggendolo ho trovato delle riflessioni sulla percezione del tempo, sul senso della vita, sulla felicità che mi hanno davvero arricchito e aperto di più la mente…il legame tra il modo di sentire e concepire il tempo e l’essere felici.. Mi sono innamorata di questo scrittore!!
Cara Luisa, avendo questo premio Nobel suscitato in me reazioni opposte: alla fine del libro ho pensato che non avrei voluto incontrarlo neanche casualmente, mi chiedo se la sua noiosa poetica non ti abbia plagiato…
Cara Luisa, se ti sei innamorata di Pamuk, secondo me potresti andare per otto anni a cena a casa sua… 😉
Scherzi a parte, potresti visitare il suo “Museo dell’innocenza” che esiste realmente a Istanbul: è stato aperto ad aprile di quest’anno.
Il tuo commento mi fa venire voglia di leggere il libro e avrei voluto trovarci quello che ci hai trovato tu.
Care Tiziana e Titti, perchè non andiamo insieme a visitare questo museo? potremmo fare un bel weekend lungo a Istambul..D’inverno, con il freddo e la neve, deve essere ancora più bella…
D’accordo Luisa, io l’ho vista in pieno agosto, perciò la vedrò volentieri con la neve, quanto al museo… poi vediamo
evvai! allora organizziamo!
Gentile Tiziana, la sua recensione mi è piaciuta! Ho finito di leggere “Il museo dell’innocenza” proprio l’altro ieri, e l’ho divorato (per quanto possibile) nella spasmodica attesa che succedesse qualcosa di veramente interessante e sentimentalmente condivisibile. Ho davvero faticato, l’ho trovato il più delle volte irritante, sarei voluta andare a cercare quell’idiota del protagonista e prenderlo a calci nel sedere per smuoverlo dal suo odioso torpore, dalla sua situazione imbarazzante e degradante. Per quanto si possa ammirare la perseveranza di un innamorato così, credo che i suoi comportamenti sfiorino la patologia. Ma proprio per questo, cara Tiziana, la invito caldamente a finire il libro, poichè il nostro indolente Kemal, dopo quasi 9 anni, avrà quello che si merita, e in un certo senso tante eterne pagine di flash back si potranno spiegare meglio. E c’è una chicca negli ultimi capitoli, in cui cambia il narratore! Lo finisca, che in fondo ne vale la pena!
Buona lettura a tutti!
G
Ho letto tutti i vostri commenti su Pamuk e sul Museo dell’Innocenza. Concordo pienamente con Luisa e mi ha fatto molto piacere ritrovare nelle sue parole buona parte delle meravigliose emozioni che ha suscitato in me il romanzo.
Mi sono avvicinata a Pamuk nel 2010, leggendo “Istanbul” prima di tornare in quella città che avevo visto per la prima volta nel 1988. E’ stata per me una scoperta senza precedenti che mi ha incoraggiato a continuare con “Il mio nome è Rosso” (il secondo mio preferito nella lista delle sue opere che a tutt’oggi conosco quasi per intero), “Altri colori”, una deliziosa e affascinante raccolta di saggi, articoli, commenti letterari, episodi autobiografici, ritratti di Istanbul che ho letteralmente divorato e mi ha aiutato a capire molto di più il sentire di questo autore che giudico un narratore colto e raffinato. E poi sono approdata a “Il Museo dell’innocenza”, incuriosita soprattutto dal fatto che romanzo e museo sono stati ideati e realizzati in perfetta simbiosi nell’arco di oltre un decennio. Il mio interesse per i piccoli musei e l’idea che un giorno sarei potuta entrare in un luogo fisico frutto di una pura finzione – la storia d’amore di Kemal e Fusun -, il fascino di tale sovrapposizione, la curiosità per tutti quegli oggetti che sarebbe stato possibile ritrovare uno dopo l’altro in un percorso espositivo come nel racconto, tutto questo credo mi abbia fatto inizialmente superare i passaggi più lenti del romanzo. Ma la mia pazienza è stata ampiamente ripagata. Dopo la prima lettura del 2010, praticamente non ho più abbandonato questo libro, l’ho ripreso più volte, riuscendo a riconoscere le mille sfumature della descrizione che Pamuk ci regala di un uomo e della sua trasformazione interiore, della sua ossessione, della sua storia struggente dentro il ritratto della società di Istanbul negli anni ’70-’80. E nel romanzo non c’è solo l’amore, ma ci sono la città, il senso del tempo, la felicità, la memoria contenuta negli oggetti ed altro ancora.
Negli ultimi due anni ho atteso con ansia di poter visitare il museo; ho letto nel frattempo il catalogo “L’innocenza degli oggetti”, tradotto in italiano dalla Einaudi nel novembre scorso (una bella scoperta anch’esso: non è il solito catalogo, ma una sorta di racconto fatto in prima persona dall’autore). Infine, lo scorso 29 dicembre, ho realizzato il mio desiderio e vi dico che vale davvero la pena. Avrei tantissimo da dire su questo argomento, ma non posso dilungarmi oltre. Però ho scritto due articoli su altrettanti blog che forse possono interessare chi segue la vicenda del Museo dell’Innocenza (www.scoprireistanbul.org e http://www.istanbulavrupa.wordpress.com).
Grazie dell’attenzione
Anna
El aburrirse no es signo que el libro es malo. Mas probablemente es nuestra incapacidad de empatia . G.Ondertoller, estoy de acuerdo con usted. La diferencia es que a mi, me gustaron todas las obras de Pamuk. Y abandoné , por aburrimiento, la obra mas famosa de Proust.
G.Marques es genial:-)
Pero mis preferidos son Tolstoi y Dostoievskij
Sì Horacio, il fatto che il libro non mi sia piaciuto non vuol dire che sia brutto e questa discussione, così ricca di opinioni, lo dimostra. Il bello non è una qualità oggettiva delle cose, ma siamo noi ad attribuirlo. A me invece Proust mi piace, ma ammetto che non è stata una passeggiata leggerlo, più che altro iniziarlo. Be’ meno male che siamo d’accordo su Marquez!
Credo che non terminare il libro ti abbia impedito di cogliere il senso del romanzo. E’ buffo che tu stia qui a interrogarti sull’amore e sulla scelta di Kemal come se fosse una persona reale e la sua storia ti fosse stata raccontata dal parrucchiere. Il libro di Pamuk parla del rapporto fra il cuore e le cose, dell’indescrivibile materialità del ricordo. E’ un rovesciamento dell’amor cortese e metafisico, è una riflessione sulla cultura materiale come ritratto dell’umano.
Questa del parrucchiere mi pare un colpo basso.
Se la letteratura non racconta la vita, pur con tutte le sue innumerevoli metafore, non mi pare interessante. Credo che questo oggi sia uno dei principali problemi della letteratura, in particolare di quella italiana che non racconta niente del mondo in cui viviamo. Ti segnalo una bella stroncatura che parla proprio di questo: eccola!
sono arrivato al 93% dell’e-book con il Museo dell’innocenza, che dire prima di terminare ho avuto un afflusso di adrenalina nel leggere del viaggio e fidanzamento che ripaga della lentezza di quegli otto anni. L’avesse fatta più breve non avremmo capito quant’è lungo otto anni.
Comunque il personaggio (non posso dire dell’autore) ha del patologico nel suo modo di “non vivere” o “vivere nevrotico”.
Certo una bella immagine di Istanbul, anche se non ne conosco i nomi dei quartieri pur avendola visitata due volte. Soprattutto un idea dei contrasti di una società con i suoi colpi di stato di cui uno subito dopo il mio rientro in Italia.
Prima di leggere questo però ho letto “le quaranta porte” di Elif Shafak, meraviglioso, l’ho letto lentamente perché non volevo finisse mai, non mi interessava conoscere il finale o la sceneggiatura ma assaporare le singole scene, i singoli momenti, lo consiglio a tutti.
Per ora di scrittori romanzi “turchi” ne ho letto solo questi anche se ne ho scaricati altri, mi era stato consigliato anche Yasar Kemal.
Qualcuno mi sa dire come ha trovato il confronto fra questi tre: Pamuk, Shafak e Kemal?
Grazie