Mr. Stevens è un uomo con una missione: la perfezione. Kazuo Ishiguro, il suo creatore, ha saputo infondere nel suo personaggio la stessa cura quasi maniacale per la propria professione che, si direbbe, possieda anche lui. Non sarebbe altrimenti possibile spiegare una tale adesione al soggetto del suo più celebre romanzo, Quel che resta del giorno.
Il romanzo si sviluppa come un diario di viaggio. A scrivere in prima persona è appunto Mr. Stevens, un maggiordomo inglese che ha toccato il culmine professionale negli anni ’30, evocati attraverso il ricordo dei momenti più memorabili del suo servizio presso Lord Darlington di Darlington Hall. Mr. Stevens appare a tal punto compreso nel suo ruolo che sembra appartenere al luogo in cui lavora e che praticamente non ha mai lasciato.
Eppure da Darlington Hall si mette in viaggio verso la Cornovaglia, doverosamente ammirata nelle sue note dei sei giorni di viaggio, per la sua prima vacanza in tanti anni di lavoro. Scopo del viaggio è incontrare l’ex governante di Darlington Hall, Miss Kenton, ora Mrs. Benn. Sono passati vent’anni da quando la donna ha lasciato il lavoro per sposarsi e trasferirsi col marito in Cornovaglia. Occasionalmente i due si sono scambiati delle lettere e ora che Darlington Hall è stata acquistata da un americano e che il personale è stato significativamente ridotto, Mr. Stevens spera di poter convincere Mrs. Benn a tornare al lavoro, concludendo il suo matrimonio infelice e burrascoso.
Ma a dispetto di quanto più volte ribadito nel corso del suo diario – e la ripetizione è significativa – le motivazioni di Mr. Stevens non sono di natura puramente professionale. Nei suoi ricordi emerge una componente sentimentale che spicca per la propria assenza. Mr. Stevens è sì un uomo con una missione, cui ha votato la propria intera esistenza. Ma è comunque un uomo con desideri che evita proprio perché li ritiene incompatibili con la sua missione. O almeno questa è la scusa che si dà per soffocare qualsiasi emozione. Sotto la patina formale, quasi ampollosa, in cui Ishiguro fa esprimere il suo protagonista, emerge il bisogno un sentimento contro cui l’uomo combatte, quello per Miss Kenton, per l’appunto.
Mr. Stevens è l’essenza stessa del perfetto maggiordomo ma la sua perfezione richiede sacrificio e Mr. Stevens sacrifica per essa la propria individualità ed i propri sentimenti: così mentre suo padre sta morendo, lui è stoicamente al suo posto in sala da pranzo. E quando Miss Kenton piange, lui non si fa mai toccare, né commuovere dal sentimento di lei, ma riporta sistematicamente e dolorosamente, la conversazione su un piano professionale. Un amore potenzialmente ricambiato viene annientato con la stessa meticolosità con cui si pulisce l’argenteria di casa e la sua riprovazione scende implacabile sulla cameriera e il valletto che scappano per sposarsi.
L’”autoaddestramento” e la disciplina, la dedizione richiesta dalla “responsabilità professionale” non sono in fondo diversi da quelli, ammirevoli e tragici, previsti dalla rigida morale del lavoro giapponese. Non deve quindi stupire se il giapponese Ishiguro, che ha vissuto a Londra dall’età di cinque anni, abbia saputo creare un personaggio così mimeticamente credibile da incarnare esemplarmente alcune delle più interessanti qualità inglesi.
Ma Quel che resta del giorno va oltre, facendo emergere temi più profondi e universali: a cominciare da quello del trascorrere inesorabile del tempo, cui allude la stessa forma narrativa, costellata di flashback. Guardare al passato con nostalgia, come fa Mr. Stevens, fa emergere per contro il senso di inevitabile decadenza che avvolge il presente e vela il futuro di nubi.
La malinconia e l’amarezza che accompagnano i ricordi sono abilmente e delicatamente mitigate da Ishiguro, grazie alla solida praticità che caratterizza il suo Mr. Stevens, uomo così totalmente privo di ironia da diventare talvolta divertente. E nonostante l’ammirevole proposito finale di migliorare, con lo sguardo sempre rivolto alla propria missione, e di “trarre il meglio da quel che rimane della mia giornata”, il lettore saluta il libro con il sospetto di aver imparato a conoscere nelle sue pagine un uomo incapace di cambiare realmente.
James Ivory, altro straniero (è americano) capace di indagare mirabilmente lo spirito inglese, nel 1993 ha tratto da questo romanzo uno dei suoi film più riusciti e coinvolgenti. Questo grazie anche alle straordinarie prove d’attore dei due protagonisti, Anthony Hopkins e Emma Thompson. La sceneggiatura, firmata dalla sceneggiatrice di sempre di Ivory, Ruth Prawer Jhabvala, riprende fedelmente il libro, modificandone solo l’ordine temporale per ragioni di fluidità narrativa. La regia, trattenuta ed elegante, ricrea lo spirito del romanzo e cuce il film attorno ad Hopkins e allo stile irreprensibile di Mr. Stevens, mentre dosa con sapienza pubblico e privato.
Le grandi vicende storiche degli anni ’30 e ’40, viste attraverso Lord Darlington e la sua improvvida fascinazione per il nazismo delle camice nere inglesi, si alternano così alla soffocata storia d’amore tra Mr. Stevens e Miss Kenton. Ivory ritrae spesso il maggiordomo mentre guarda fuori da una finestra, chiudendo così in questa immagine, iconica, l’intero racconto.
Rivedendolo, mi sono resa conto di quanto Downton Abbey sia debitrice nel confronti di questo film, a partire dal giornale stirato in una delle prime scene della serie. E quando il vecchio padre di Anthony Hopkins sale a fatica le scale in Quel che resta del giorno, sembra proprio Bates appena arrivato a Downton. Di sicuro Julian Fellowes lo ha “rubato” da lì. Si sarà detto: “Voglio qualcuno per cui si provi questa stessa pena mentre sale le scale, ma che non sia vecchio”, così è nato lo zoppo Bates.
Quando la casa si attiva con tutta la servitù perfettamente accordata e coordinata come per un concerto in cui ognuno abbia il suo posto e la sua partitura. Anche questo è stato preso dal film. E che dire dell’amore sconfinato che Mr Stivens-Opskins nutre per il castello in cui vive e che ama più di un essere umano? Anche questo tema lo troviamo straodinariamente sviluppato nella serie, dov’è centrale la devozione tributata alla proprietà di Dontown Abbey.
Ma, la scrittura è l’arte di rubare. La letteratura è una lunga serie di prestiti che diventano furti solo quando non funzionano, altrimenti sono, non solo legittimi, ma auspicabili. Quello che differisce tra il film e la serie è il tono: malinconico e in minore nel film, più gioioso e vitale nella serie.
“Mi capita spesso di pensare che terribile errore è stata la mia vita”: confessa Miss Kenton alla fine del film ed è ancora una volta un modo per dichiarare il suo amore al maggiordomo. Lui come al solito minimizza e non raccoglie quel momento di verità: “Sono certo che capiti a tutti di tanto in tanto”. E’ straziante, noi sentiamo che lui la ama ed è quello che ha sentito anche lei per tanto tempo. Ma i due sono come treni che corrono paralleli su binari che non s’incontrano mai. E non s’incontreranno neanche di sera, in quella che per molti è la parte migliore della giornata, neanche in quel che resta del giorno…
klkl
Questo articolo è stato scritto da Marzia Flamini e Tiziana Zita
kjkj
Analisi illuminante ,che evidenzia con molta sensibilità tutti gli aspetti più significativi
del racconto e della psicologia dei personaggi, specialmente del malinconico protagonista che,tutto sommato,si rivela, ai suoi stessi occhi ,un inetto a vivere.Dopo la lettura di questo commento mi viene voglia di rivedere il film;sono certa che coglierei molte sfumature sfuggite alla prima visione.
Non condivido l’analisi di Zita Flamini che vede sostanzialmente nel romanzo la storia di un fallimento. Non definirei Mr Stevens un inetto a vivere, ma un uomo di grande serietà interiore che, come ciascuno di noi, impara lentamente a vivere e lo impara sul far della sera (pascolianamente). Ai fini della conquista della dignità del “grande” maggiordomo, sentita come traguardo e condanna (i due aspetti inscindibili del destino di ciascuno), Stevens persegue accanitamente la professionalità ad un tempo trionfo e trincea. Perché è attaccato dalla vita da ogni parte, dalla Storia e dalla storia, dalla collettività e da Miss Kenton. Egli si difende aggrappandosi al suo piccolo scoglio, compiendo ciò che sente il suo destino. Il concetto di dignità apre il romanzo e resta come un’insegna, un emblema presente durante l’intero svolgersi della vicenda. Sotto il suo segno il protagonista evolve fino a dismettere quasi la reticenza che contraddistingue il suo diario, a smarcarsi dalla paura di guardare in faccia la realtà, fino ad imparare l’ironia. A questo punto finalmente può esercitare la sua libertà di scelta e sceglie, da libero, quella medesima realtà che l’ha tenuto prigioniero.
Alla fine dunque Mr Stevens esce dalla trincea, forse perché sente di aver vinto la sua guerra o forse perché sente che lui stesso e quelli come lui (cioè “noi”) non hanno tra le proprie mani una vera e propria guerra da combattere e vincere: altri (o Altri) hanno le redini del mondo, a noi è dato soltanto porre il nostro destino nelle mani di quelli senza che nessuno sappia dirci se il nostro piccolo contributo è andato effettivamente a favore di qualcosa di vero e di degno, come abbiamo pur tentato di distinguere e scegliere. Mr Stevens ha tuttavia vinto almeno la battaglia con la propria tirannica determinazione ad agganciare quel qualcosa di vero e di degno a cui ha sacrificato ogni suo sogno e che si è viceversa rivelato così sfuggente. E così egli approda alla leggerezza dell’anima, forse unica vera saggezza. Quel che resta del giorno non sarà impiegato a rimeditare il passato, ma a raggiungere un nuovo traguardo: imparare a scherzare.
Il valore che si scopre in questo e negli altri romanzi di Ishiguro, come un antico oggetto prezioso, cercato spesso invano nel recente panorama letterario, è l’armonia di una narrazione che al suo termine chiude il cerchio iniziato con la prima pagina, coincidente con la parabola esistenziale che ogni romanzo contiene. Ed è proprio questo a far chiudere il libro con un senso di sollievo e consolazione: nulla è stato invano, tanto per la forma quanto per il contenuto, armonicamente coincidenti come nell’autentica opera d’arte. Una concezione didascalica della vita come percorso verso una méta, non mera collazione di sensazioni ed episodi. Per questo Ishiguro può essere annoverato tra gli scrittori “educativi”: i suoi romanzi possono essere definiti “di formazione”, benché modernissimi nel rappresentare le ambiguità e gli inganni dell’io.
Cara Daniela,
non credo che Mr. Stevens sia un inetto a vivere, ma certamente quella che emerge dal romanzo è la figura di un uomo che pur di seguire la propria vocazione ha chirurgicamente eliminato dalla propria esistenza tutta una serie di aspetti che solitamente la rendono completa. Non si concede mai una debolezza, e in quelle rare volte in cui l’impulso ha la meglio sul controllo di sè si premura sempre di trovare una valida giustificazione logica per quanto di logico ha invece ben poco. Anche l’ironia, quella “leggerezza dell’anima” cui secondo te approda, a mio avviso non gli appartiene: decide addirittura di dedicarsi deliberatamente ad essa come si era negli anni dedicato ad ampliare il proprio sapere attraverso la biblioteca del suo padrone. Ishiguro ha una ricchezza e profondità di scrittura capaci di rendere tutte le complessità della vita umana, ma se la vita di Mr. Stevens senz’altro non è affatto un fallimento, non è neppure un percorso formativo in senso stretto, in quanto non si ha un sostanziale cambiamento del protagonista quanto una suo riconoscere l’inevitabile. A mio parere “Quel che resta del giorno” è uno splendido romanzo sull’ineluttabilità del destino quando si sceglie di arrendersi ad esso, senza mai esporsi veramente nè abbracciare il cambiamento. C’è nobiltà in questa scelta, come ne abbonda nel protagonista de “Il deserto dei tartari”, specialmente quando guidata da una ferma morale. Ma c’è anche una fuga da quella naturale evoluzione che segna il maturare dell’essere umano. Ishiguro è abilissimo nel lasciar al lettore la libertà di interpretare certe decisioni o affermazioni dei suoi personaggi, senza mai risultare didascalico, ma al tempo stesso coinvolgendo emotivamente. Eppure, secondo me, in materia di (auto)”inganni dell’Io” Mr. Stevens appare maestro tanto quanto nell’arte del ricevere…
Tuttavia, il bello dei romanzi, come di ogni altra opera d’arte, è che ognuno li legge con il preziosissimo filtro del proprio vissuto e delle proprie convinzioni, e il confrontare entrambi con quelli degli altri è sempre fruttuoso e stimolante!
Grazie per i vostri commenti, ne aspettiamo sempre altri!
non ho letto il libro,ho visto il film.
Le parole di Daniela,sono le mie.
Mr. STEVENS,sa vivere..altroché..ha capito tutto!
Mentre tutto intorno cambia,crolla,e si rammarica…lui non cerca d’esser uomo insoddisfatto e dolorante…bensì fa la scelta più alta,direi una scelta “nirvanica”….rinuncià al sé,si disfa dell’io ingombrante vanitoso e narcisista.
Quest’uomo non è persona,bensì è un metodo…e come tale è in pieno equilibrio,perfetto,infallibile..è in piena virtù……vive alla massima espressione!
Alla “umanità” che bussa alla porta del suo io..STEVENS pare rispondere … “non c’è nessuno”. E’ una figura assimilibile a quella di un asceta..al vertice della verità.
P.S: Daniela,adoro il tuo scritto.
Scusate il maggiordomo non ha assenza di sentimenti ma una inspiegabile follia
La figura di Stevens è assimilabile a quella del giovane Giuseppe di Thomas Mann, tutto votato alla castità (“cinto di mirto”) per dedicarsi esclusivamente a Dio tramite il servizio al massimo dignitario del Faraone e a sua moglie Mutenemet (di cui rifiuterà le avances subendone la vendetta per non tradire Dio). Trovo questo modo di vivere artificioso, subordinato ai dettami di una sovrastruttura culturale che nega la possibilità di vivere con completezza e rispetto sia dei propri istinti sia delle leggi morali . Infatti il film, peraltro stupendo, mi angoscia e provoca in me un sentimento di pena per quell’uomo che non riesce a uscire dalla sua gabbia, né per amore né per indignazione verso le ingiustizie e le disumanità che vede svolgersi sotto i suoi occhi (e che capisce perfettamente, il che è un’aggravante). La mentalità di Stevens è quella che ritroviamo alla radice di tutti i fondamentalismi, che anestetizzano l’orrore per le atrocità reali in nome dell’idea. Del resto, non è un’atrocità quella per cui Stevens continua impeccabilmente il servizio mentre il padre muore? Non sarebbe stato umano avvertire il padrone del grave caso familiare? e invece, più realista del re, preferisce tacere, per non venire meno al suo rigore e non turbare la sua idea di perfezione.
Amerigo io sono assolutamente d’accordo con te.
In particolare quando dici che la mentalità di Stevens è quella che ritroviamo alla radice di tutti i fondamentalismi. Si potrebbe credere che la sua abnegazione sia meritoria e magari generosa, ma non è così. Il suo comportamento nei confronti del padre è disumano e basta. In tutte le società il lutto viene rispettato e certo avrebbe dovuto avvertire il padrone, ma sembra che Stevens non voglia uscire dalla sua routine per nessuno motivo…
Al centro di questo romanzo io vedo una storia d’amore, un amore impronunciabile, ma che esiste e resiste nonostante non sia alimentato da nulla, non da parole affettuose, non da ragionamenti, non da promesse, non da speranze. Un Amore che sconvolge il mondo interiore dei protagonisti, mentre quello esteriore rimane impassibile e rigido, e fa si che mai essi rivelino il loro sentimento reciproco; Mr. Stevens non ammette questo sentimento neanche a se stesso per evitare di esserne corrotto, ed in questo si può dire che per certi aspetti ha una forza non comune; la povera Miss Kenton invece io la trovo veramente forte, ha la forza di continuare ad amare pur sapendo che non sarà mai riamata e ha la capacità di vedere nel cuore dell’altro e di trarne nutrimento per il suo amore che rimarrà intatto fino alla fine del romanzo. E’ bello a mio avviso pensare che esiste questo tipo di amore.
Vidi il film all’epoca, quando uscì,ne ammirai le prove esemplari di Hopkins e della Thompson. Non ho letto il romanzo ma mi ripropongo di farlo. Circa ciò che nel film viene raccontato, mi viene in mente un parallelismo tra tale film ed un film di Claude Sautet “Un coeur en hiver”. In entrambe le storie i due protagonisti si negano la possibilità dell’amore. Nel film di Sautet , l’unica differenza è data dal fatto che il “lui” gioca inizialmente con la coprotagonista ( due magnifici attori, Emmanuelle Bèart e Daniel Auteuil), facendole pensare di volerla sedurre, ma poi si rivelerà essere solo una crudeltà.Ecco il parallelismo è dato dal fatto che i due uomini si neghino la possibilità di avere dei sentimenti e coltivarli. Hanno innalzata una barriera. Forse per il protagonista di Sautet nella sequenza finale c’è la possibilità di un qualche capovolgimento futuro poiché si tratta di un finale aperto a più ipotesi da parte dello spettatore.
Sì, Michela, è vero, i due uomini sembrano entrambi afflitti da anoressia sentimentale. Nel caso di ‘Un cuore in inverno’ è ancora più palese il desiderio che l’uomo prova per la violinista, ma che non può esprimere e di cui deve rimanere inconsapevole. Perciò la sua non è tanto una ‘crudeltà’, una seduzione messa in atto e poi tradita, ma probabilmente all’inizio era più spontaneo e ha ceduto all’attrazione per la donna, senza però mai riconoscerla, neanche con se stesso.
Complimenti! La recensione è così bella e curata che ho deciso di linkarla nel mio post su questo libro.
Io lo avrei preso a sberle Stevens per il suo essere imperturbabile, avrei voluto scuoterlo…
E’ un libro davvero bello e profondo, quasi filosofico senza la pesantezza dei libri filosofici!
Grazie Federica ! Anche la tua idea di scrivere a Ishiguro è simpatica ?
Per onor di cronaca questa recensione è stata scritta a quattro mani da Marzia Flamini e me.