Il grande Gatsby firmato da Baz Luhrmann ci dà tutto quello che ci saremmo aspettati da un suo film ambientato nei Roaring Twenties. Ma ci regala anche qualcosa di più: la prova che tecnologia ed effetti speciali al servizio di una visione d’artista doppia, di scrittore e regista, possono creare qualcosa di davvero originale e coinvolgente. Certo è inutile nascondere che Luhrmann è un regista con uno stile così radicale che, o lo si ama, o lo si odia. Ma in un panorama cinematografico spesso piatto e seriale, dove i marchi contano più dei contenuti e dove il mainstream produce poche opere di valore, il regista australiano è una voce che risulta miracolosamente fresca e originale. E con il suo sguardo allucinato ma appassionato e l’ossessione per le storie d’amore tormentate, prima o poi doveva incontrarsi con Francis Scott Fitzgerald.
Leggendo il romanzo di Fitzgerald, una delle cose che colpisce di più è l’affresco umano e d’ambiente che riesce a ritrarre con pochi tocchi sapienti. L’uso che fa della lingua è lussuoso e diretto, vivificato dalle stesse contraddizioni di cui era piena la sua epoca. Ed è così ipnotico, che alla fine la trama appare quasi una scusa per dipingere un’atmosfera unica e fatalmente avviata verso la fine, nel momento stesso del suo massimo fulgore.
Luhrmann aveva a disposizione tutti i mezzi per affogare in questa visione scintillante e ingannevole, vittima di quella colorata arma a doppio taglio che è la sua regia. Ma schiva il pericolo scegliendo un approccio fedelmente letterale alla brillante scrittura di Fitzgerald e soprattutto allo spirito dei tempi. La ruvida e sfrenata modernità degli anni ’20 rivive nella colonna sonora che offre, come sempre, un ulteriore livello di lettura dei film di Luhrmann, mescolando jazz e hip hop, Gershwin e Beyoncé.
Così come i tanto chiacchierati abiti disegnati da Prada per gli invitati alle mitiche feste di Gatsby non sono altro che una lettura moderna dei canoni d’epoca. Luhrmann costruisce su misura per i suoi straordinari interpreti, un film che ricalca il modello adattandolo all’oggi. Nulla è solo immagine eppure il valore visivo di ogni scena è indubbio. Per ogni scintillante festa c’è il contrappeso inquietante e malinconico del suo essere un ricordo, una sola delle due facce di ogni medaglia, che Luhrmann abilmente comprende nel suo affresco (guarda il trailer).
Alla fine, proprio come nel romanzo, nessuno è innocente ma alcuni sono più colpevoli di altri. Gatsby, il mistificatore, appare così il più vero di tutti perché nella corruzione generale è l’unico ad avere qualcosa di incorruttibile, il suo amore per Daisy e il sogno di una vita assieme a lei. Le speculazioni bancarie attraversate dalla voce narrante Nick Carraway, la questione razziale piena di ipocrisie e contraddizioni, la noia del denaro che costringe ad alzare sempre il tiro fino alla distruzione, i compromessi e il chiudere gli occhi pur di poter bere l’ultima coppa di champagne… tutto ha il sapore amaro del presente e al tempo stesso risuona delle parole di Fitzgerald.
E motore di tutto è l’amore, anzi, l’ossessione di Gatsby per Daisy. E l’attento sguardo di Nick su quell’amore e sul mondo in cui, per il breve e lunghissimo tempo di una stagione, si trova immerso.
Il film tocca e coinvolge progressivamente, dando il giusto rilievo ai non detti. E mantenendo quella punta di distacco che deriva dalla sua narrazione per interposta persona, quel Nick Carraway che è uno specchio di Fitzgerald così come lo è, in fondo, lo stesso Gatsby.
DiCaprio rende al personaggio la sua purezza e caparbietà infantile, mescolata al cinismo da arrampicatore sociale, aggiungendo un’altra interpretazione magistrale al suo curriculum. La Daisy di Carey Mulligan è minuta e luminosa, splendente e fragile, e crudele in questa sua fragilità. Una lettura forse indulgente ma che rende più comprensibile l’amore di Gatsby. La scelta di Tobey Maguire per il ruolo di Nick era forse più scontata, considerata la sua capacità impareggiabile di spalancare gli occhi e osservare senza giudicare, secondo il mantra che Nick ha appreso dal padre.
La fatale attrazione dei personaggi l’uno verso l’altro è resa attraverso regia e fotografia, ma anche sfruttando con grande maturità le possibilità offerte dalla tecnologia. Daisy appare all’improvviso da dietro il tronco di un albero come una qualche fata rivestita di cristalli, sottolineando il fascino immaginifico che esercita su Gatsby.
E così Gatsby tende la mano verso l’ipnotica e fantasmagorica luce verde del pontile della villa di Daisy e il ricordo del suo incontro con lei è una visione dorata fra nubi e stelle. Sono piccole forzature visive, rivestite di grande pregnanza. Così come lo sdoppiamento di Nick che si sente al tempo stesso dentro le cose e al di fuori, in strada, a guardare dentro una finestra illuminata, che tante volte accade nel corso del film. E lo sguardo sostituisce sullo schermo quei suoni di cui Fitzgerald parla nel romanzo, come la voce da sirena di Daisy su cui ritorna più volte.
Non si può rimanere fedeli a un romanzo nel trasporlo sul grande schermo, se non scegliendo di essergli infedeli per quanto riguarda le caratteristiche del diverso mezzo espressivo. La regia di Luhrmann si presta particolarmente a questo gioco. Prettamente visiva e movimentata com’è, capace di focalizzarsi sui sentimenti, veri e toccanti, dà al tempo stesso vita e significato ad ogni oggetto, per quanto piccolo.
Guardate l’anello di Gatsby: c’è una margherita (daisy, in inglese) sopra. E ci dice più di tante parole sull’ossessione di Gatsby, sulla sua “perfetta e irresistibile fantasia”. E se, come canta la voce di Jack White nella scena più drammatica del film, Love is Blindness, allora è una fortuna che l’amore, evidente, di Luhrmann per questo straordinario capolavoro della letteratura di tutti i tempi non sia stato cieco ma, al contrario, abbia avuto una visione così ampia e profonda, in 3D e non.
Una recensione completa ed a tutto tondo, per un film coraggioso ( data la possente ombra di Robert Redford) e di non facile lettura. Una recensione che mi ha fatto pensare ad alcuni aspetti del film che non avevo colto e che mi trova d’accordo, salvo che per una cosa e mezzo.
La prima è sull’apprezzamento di Carey Mulligan, che non mi sembra rendere
appieno lo spessore finto-fragile della figura di Daisy, la mezza – meno rilevante – è la lunghezza del film, che credo avrebbe beneficiato di una ventina di minuti di meno