Per giocare bene a tennis bisogna essere stupidi Open di Andre Agassi

Open largeIl primo a dirmelo è stato un amico che faceva il maestro di tennis quando avevo vent’anni. Per giocare bene a tennis non bisogna essere troppo intelligenti. E’ stata una specie di rivelazione a cui ho continuato a pensare. Ma come, essere intelligenti non è sempre un vantaggio? La sua spiegazione era convincente eppure non riuscivo a capacitarmi che l’intelligenza potesse essere un ostacolo. Invece è proprio così. Sentite che ne dice un campione come Andre Agassi in Open:
“Pensare è il peccato capitale. Pensare, così la vede mio padre, è la causa di tutti i mali, perché pensare è il contrario di fare. Quando papà mi scopre a pensare, a sognare a occhi aperti, sul campo da tennis, reagisce come se mi avesse sorpreso a rubare dal suo portafoglio. Spesso mi chiedo come si faccia a smettere di pensare. Mi domando se mio padre mi grida di smettere di pensare perché sa che sono un pensatore per natura. O sono stati tutti i suoi strilli a fare di me un pensatore?” 

Veramente il padre di Agassi voleva fare di lui un campione di tennis. Ci aveva già provato con suo fratello e sua sorella senza successo e quindi con il piccolo Andre divenne implacabile.
A sette anni lo costringe a stare ore e ore sul campo da tennis, inventa per lui una macchina che gli sputa addosso palle a un ritmo vertiginoso e che ha reso particolarmente spaventosa di proposito (il drago), ha alzato la rete di 15 centimetri rispetto all’altezza regolamentare per rendergli più difficile superarla e passa tutto il tempo a urlare e a incitarlo. Persino la scuola viene sacrificata al tennis. Con questo risultato:

pg2_g_aagassi1_576“Odio il tennis, lo odio con tutto il cuore, eppure continuo a giocare, continuo a palleggiare tutta la mattina, tutto il pomeriggio, perché non ho scelta. Per quanto voglia fermarmi non ci riesco. Continuo a implorarmi di smettere e contino a giocare, e questo divario, questo conflitto tra ciò che voglio e ciò che effettivamente faccio mi appare l’essenza della mia vita…”

Il tennista statunitense Andre Agassi ha scritto la sua straordinaria autobiografia, Open (pubblicata da Einaudi), che è diventata un best seller internazionale, avvalendosi dell’aiuto dello scrittore, premio Pulitzer, J.R.Moehringer. Agassi aveva una bella storia da raccontare e J.R.Moehringer la capacità di scriverla. Ne è venuto fuori un racconto forte, incalzante, che ti tiene attaccato alle pagine. La scrittura è semplice, tutta al servizio della storia, niente guizzi di stile, ma non se ne sente la mancanza.
Torturato fin da quando era piccolissimo da un padre dispotico e ossessivo che gli impedisce di vivere una vita normale, il piccolo Andre non può giocare con i fratelli o gli altri bambini. Il padre lo obbliga a giocare nel campo da tennis che lui stesso ha costruito nel giardino della loro casa, circondata dal deserto, alla periferia di Las Vegas.
palle-da-tennis. Open, autobiografia di Agassi“Il tennis è uno sport maledettamente solitario” scrive Agassi: “Di tutti gli sport praticati da uomini e donne, il tennis è il più simile all’isolamento carcerario, il che porta inevitabilmente a parlare da soli”.

Open non è un libro per tennisti o per appassionati di tennis e questo spiega il suo straordinario successo. E’ un libro emozionante, che fa piangere, in cui il protagonista, condannato al tennis come ai lavori forzati, riesce ogni volta a risalire proprio quando sta per affondare.
Vediamo come sotto una lente d’ingrandimento il difficile rapporto con la competizione, lo stress di reggere una tensione costante e soprattutto scopriamo, insieme ad Agassi, quanto vincere o perdere, sia soprattutto una questione mentale.
Oltre all’intelligenza c’è un altro nemico che Agassi deve affrontare ed è il perfezionismo. Altro paradosso. Lo scoprirà a metà del libro, a 24 anni, quando il suo nuovo coach Brad Gilbert gli farà capire che il suo problema è che cerca di essere perfetto ad ogni tiro. Questo è un inutile spreco, non ce n’è bisogno e anzi è controproducente. Inoltre non è possibile e quindi così può solo irritarsi e perdere la fiducia in se stesso.

Agassi Brooke ShieldsAndre Agassi con Brooke Shields

Condizione sine qua non per diventare un campione è una squadra. Agassi, grazie al suo intuito, ha saputo circondarsi di persone eccezionali – allenatori, coach, maneger – senza i quali non avrebbe potuto farcela perché essere un campione è un’impresa collettiva.
E poi c’è una storia d’amore come tutti vorremmo avere. Prima la relazione e il matrimonio con l’attrice Brooke Shields e poi Stefanie Graf che diventerà la sua seconda moglie e la madre dei suoi figli. Steffi, a sua volta campionessa di tennis, è la donna che rappresenta da sempre l’ideale di Agassi.

Steffi Graf

Ma torniamo alla questione iniziale. E’ vero che per giocare bene a tennis bisogna essere stupidi? Agassi lo impara a sue spese nelle competizioni internazionali:
“Mi supplico di non pensare a quello che può succedere. Non pensare, Andre. Spegni il cervello”.
Oppure si trova a invidiare il suo più ostico avversario, Pete Sampras, per la sua ottusità e per la sua “straordinaria mancanza di ispirazione”. Per lui invece “milioni di palle” corrispondono a “milioni di decisioni” e già in questo c’è qualcosa che non va perché pensare ti rallenta. Per vincere devi essere puro istinto, una specie di automa, proprio come il drago sputapalle contro cui si allenava da bambino.

Agassi bacia. Open autobiografiaIl tennis non tollera troppi grilli per la testa e l’intelligenza sono grilli.
D’accordo, ma Agassi che per 21 anni è stato un numero uno, andando ben oltre quello che un campione può fare, sembra essere proprio la dimostrazione del contrario. E’ grazie alla sua straordinaria intelligenza che è riuscito a vedere i difetti dei suoi avversari e a giocare sfruttandoli a suo vantaggio: il suo gioco era frutto di una mente raffinatissima e allenata. Tra una palla e l’altra lui si è fatto mille domande su se stesso e il senso della vita, mentre stava nel pieno della tensione tra vincere e perdere. Il segreto del suo successo non è forse in quelle milioni di palle che erano altrettante decisioni? Quelle palle sono state davvero rallentate dal pensiero o potenziate dall’intelligenza che le muoveva? Che ne dici di questo Andre? Voi che ne dite? La questione è da meditare.

 

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Tiziana Zita

Tiziana Zita

Se prendessi tutte le parole che ho scritto e le mettessi in fila l'una dopo l'altra, avrei fatto il giro del mondo.

6 commenti

  1. Uno come me, che ama il tennis, e che ha un po’ il “culto”
    dell’intelligenza, potrà mai accettare l’affermazione ” per
    giocare bene a tennis bisogna essere stupidi”? Direi proprio
    di no.
    E allora, provo ad analizzare la questione.
    Mi scuso per la lunghezza.

    Tutti noi, nella vita quotidiana, ci accorgiamo personalmente
    che certi gesti, quelli più frequenti, ripetitivi, diventano pian
    piano gesti automatici. E’ un’esperienza comune.
    Gli automatismi, a volte, possono anche essere svantaggiosi:
    fare le cose senza pensare, senza uno sforzo di concentrazione,
    a volte può essere rischioso, perché può capitare di fare errori
    irreparabili, o anche tragici (mi viene in mente la storia del
    padre che dimenticò il figlio piccolo nell’auto per molte ore,
    causandone la morte).
    Di norma, però, non è così. Le attività fatte in modo automatico
    sono spesso più veloci, più precise, e più economiche (dal punto
    di vista del dispendio cognitivo, ma anche del dispendio
    emotivo).
    Anche nell’ambito delle neuroscienze cognitive, da molti anni
    si parla di “conoscenza incarnata”, o di “embodiment”.
    Termini suggestivi, che ormai in certi contesti sono perfino
    abusati, modaioli.
    All’origine c’è il processo (spontaneo) di automatizzazione dei
    gesti semplici; però, attraverso un analogo processo, si
    possono automatizzare anche gesti via via più complessi, e si
    possono automatizzare anche comportamenti che includono
    attività cognitive: scelte decisionali, inferenze logiche, o
    addirittura inferenze con componenti euristiche, probabilistiche.
    Un’esperienza che molti avranno fatto (anche se non è per nulla
    “salutare”) è quella dei video game.
    Ecco perché si parla proprio di *conoscenza* “incarnata”.
    E, mediamente, tanto più numerosi e complessi sono i
    comportamenti che un soggetto può automatizzare, tanto
    migliori saranno le prestazioni che quel soggetto può fare, su
    test ripetuti (come nello sport).
    Su episodi singoli, sporadici, è meglio “pensare”, e stare attenti
    (per non dimenticare i bambini nelle auto …), ma, su test ripetuti,
    l’automatismo alla lunga è molto vantaggioso.
    Il processo di automatizzazione è spontaneo. Non credo che lo
    si possa favorire con qualche strategia particolare, che non sia
    il semplice allenamento, la ripetizione ossessiva del gesto,
    magari variando – opportunamente – determinate condizioni di
    esecuzione. E questo era, più o meno, il credo della scuola tennis
    di Bollettieri. Giocare, giocare, giocare.

    Per stare sul campo un numero di ore spropositato ci vuole
    certamente una grande dedizione, spirito di sacrificio, resistenza
    fisica, ma quello che aiuta è soprattutto la passione. Il piacere di
    colpire la palla. Che, a mio avviso, Agassi aveva. E che avevano
    tutti i “rivoluzionari” e giovanissimi prodotti della scuola di
    Bollettieri: Arias, Krickstein, Courier, Chang.
    Senza la passione, senza il divertimento, quel tipo di pratica
    sportiva forse non è del tutto impossibile, ma quasi.
    Forse sbaglierò, ma quando leggo una frase tipo
    “Odio il tennis, lo odio con tutto il cuore, eppure continuo a giocare, continuo a palleggiare tutta la mattina, tutto il pomeriggio, perché non ho scelta. Per quanto voglia fermarmi non ci riesco”
    mi chiedo: perché Agassi non riusciva a fermarsi? E l’unica risposta
    che mi do, è la seguente: *perché si divertiva*.
    In quel momento, si divertiva. La ricostruzione tormentata a
    posteriori è, appunto, a posteriori.
    Agassi si divertiva, stava sul campo migliaia di ore, automatizzava
    movimenti sempre più veloci e complessi, tecnicamente
    stupefacenti, trasgressivi, sbagliati, per la sua epoca, e diventava il
    giocatore da fondo campo più straordinario di tutti i tempi (sempre
    in rapporto al proprio periodo).

    Dove sta la stupidità? Dove sta l’intelligenza? Da nessuna parte.
    La stupidità e l’intelligenza non sono concetti utili per comprendere
    la vicenda tecnica di André Agassi, le sue vittorie e le sue sconfitte.
    I concetti utili sono: passione, ripetizione, automatizzazione,
    innovazione della tecnica e della tattica. E poi, forse, momenti di
    nausea, di umana fragilità, di problemi personali extratennistici, che
    possono aver determinato alti e bassi nel rendimento.

    La filosofia del “non pensare” (perché pensare è il contrario di fare)
    … qualunque cosa voglia dire, è stata molto presente nella cultura
    italiana del secondo novecento. Era possibile ritrovarla nei salotti
    buoni, come anche, nelle versioni “volgari”, nei discorsi degli
    imbonitori della new age, e dintorni.
    Ma, a mio avviso, non aiuta molto a capire il tennis.
    Magari, siccome può essere un espediente suggestivo, ha trovato
    spazio in letteratura.

    Suggestiva è anche la frase: Continuo a implorarmi di smettere e
    continuo a giocare, e questo divario, questo conflitto tra ciò che voglio
    e ciò che effettivamente faccio mi appare l’essenza della mia vita …
    La frase è suggestiva, ed azzeccata, ma ha ben pco a che fare con il
    tennis.
    Credo che molti di noi, se non forse tutti, vivono la frustrazione che
    viene dal conflitto tra ciò che si vorrebbe fare e ciò che effettivamente
    si fa. Un conflitto che permea la vota di molti … ma che forse non è
    proprio l’essenza.
    Almeno spero.
    E soprattutto, non credo che per il buon Agassi, uomo di successo,
    sia così.
    Giuliano

    • Caro Giuliano, scusa il ritardo nella risposta ma ti avevo scritto subito un bel commento, solo che al momento di inviarlo è sparito.
      Non so se hai letto l’autobiografia di Agassi, ma lui non sembra così contento come dici. Certo c’era una forte ambivalenza come lui stesso denuncia, ma credo che avrebbe preferito di gran lunga poter giocare con gli altri bambini piuttosto che essere costretto per tutta la giornata sul campo da tennis.
      Non so cosa dicono i new age ma mi sembrano alquanto contemplativi piuttosto che attivi (e se stavano nei salotti parlavano piuttosto che agire 😉 Io sono d’accordo con Nietzsche quando dice che la comprensione interrompe l’azione, o con McLuhan quando dice che il gesto taglia la parola. Insomma la riflessione ti ferma a riflettere e in questo non c’è niente di male…

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