L’ergastolo è una pena di morte in cui il boia è il tempo.
Il tempo è la pena di chi è in carcere. Fuori c’è tanto spazio e poco tempo, dentro, tanto tempo e poco spazio. Le celle di tre per due contengono almeno il doppio delle persone per cui sono state previste. La mancanza di spazio è la pena del carcere.
Il modo in cui Bonvissuto guarda il carcere, dal di dentro, non ha niente di romantico, o retorico. Il carcere è un luogo orribile. Punto. Non è il luogo dove fai esperienza di vita. E’ un posto squallido, dove tutti stanno male, dove tutti sono depressi perché puzza, fa freddo, non c’è il minimo spazio vitale, il cortile esterno è piccolo e circondato da alte mura, tanto che sembra di stare in una buca.
Lì dentro non si può fare niente tranne aspettare e intanto guardare il soffitto. Non si può neanche leggere perché in biblioteca c’è un libro solo a cui mancano delle pagine. E non bisogna mai guardare nessuno negli occhi. “La galera è veramente la cosa più brutta che ti può capitare da vivo, è il punto più basso di un’esistenza. Un buco nero”.
Se stai male fisicamente non chiamano un medico, a meno che uno non stia per morire. Il suicidio è una consuetudine. La finestra della cella non si può chiudere e se piove entra l’acqua. La si raccoglie con dei piccoli contenitori ma se piove tanto sono guai. I panni non si asciugano mai perché non si possono stendere: non si possono avere corde in cella. Perciò vengono stesi di nascosto, di notte, alla luna, “ma la luna non scalda come il sole”.
Il cibo è molto scarso.
Tutti mentono in carcere, anche perché nessuno sa esattamente che succede: ai carcerati non vengono date notizie, le cose accadono nel momento in cui accadono senza essere preannunciate. Allora “i carcerati mentono ai loro familiari” e “anche i familiari mentono ai detenuti a proposito di quello che succede fuori. Così non si fa altro che scambiarsi bugie”.
“Normalmente si cammina per andare da qualche parte”, in carcere invece “I passi diventano lenti e vuoti” e si cammina senza motivo, senza andare da nessuna parte.
Lì si vive nel passato perché il futuro non è previsto e il presente è sbriciolato in giorni.
I tre racconti che compongo Dentro sono un viaggio a ritroso, dal carcere al primo giorno di scuola del liceo, fino a “Il giorno in cui mio padre mi ha insegnato ad andare in bicicletta”. Fondamentale, anche se defilata, è la figura del padre. Quello che soprattutto colpisce nei suoi racconti è la scrittura, forte e piena di frasi da sottolineare.
Laureato in filosofia estetica, Sandro Bonvissuto lavora da anni come cameriere in un’osteria romana (La sagra del vino).
Dentro, il suo romanzo di esordio è del 2012, poi nel 2013 ha partecipato all’antologia Scena padre, sempre pubblicata da Einaudi, a cui hanno partecipato solo scrittori padri.
Magro, un volto spigoloso con due grandi occhi gentili, l’ho incontrato nel programma di Rai Italia Community, dove ha raccontato che quando scrive non si taglia i capelli finché il romanzo non è finito. In questo momento li ha lunghi.
Ecco cosa risponde Bonvissuto alla domanda: che rapporto c’è tra la letteratura e la vita?
«Scrivere e vivere – dice in una pagina di Dentro – sono i due estremi della stessa corda. Due risposte differenti ma ugualmente buone alla stessa domanda. E perciò devi scegliere di usarne solo una per volta, non le puoi usare insieme. Però puoi usarne una per amministrare l’altra e muoverti nel trascorso scomposto e lacerato».
Ho letto “Dentro”, e questa recensione è riuscita ad evocare l’atmosfera di quelle pagine. Sono stata catturata dalla forza della scrittura, dal modo di farti entrare “dentro” la storia. All’inizio ho sottolineato le frasi più toccanti, quelle che non vorresti dimenticare, e usare alla prima occasione. Poi ho smesso…avrei dovuto sottolineare tutto il libro. E’ stato difficile abituarsi ad un altro autore…
Giovanna
Grazie Giovanna 😉
Molto toccante questa recensione: per l’interesse che riesce a creare sul libro di racconti. Per il suo autore, in bilico tra il vivere e lo scrivere. Per l’argomento che tocca. Il carcere. Luogo dove tanti nostri fratelli vivono abbandonati a se stessi. O forse si dovrebbe dire, muoiono abbandonati a se stessi. Mi ha colpito la presenza di quel solo libro dalle pagine strappate. Mi ha fatto venire voglia di girare tutte le carceri del paese. E di stilare le liste dei libri cui hanno accesso i detenuti. E poi compensare con donazioni i vuoti. Leggere testi etici e ben scritti, educa alla vita. Il libro può essere veicolo di pensiero, volo della mente, approfondimento, riflessione. Può farti ritrovare il rispetto di te stesso. Un buon libro, non è soltanto un buon libro. E’ molto di più. Un grande grazie sempre a te, che con le tue recensioni sai toccare le corde del mio cuore.
Ciao Antonella 🙂
Volevo dirti che quell’unico libro con le pagine strappate è il Don Chisciotte, uno dei più bei libri mai scritti. Io l’ho letto tanti anni fa e ora sta svanendo. Sarebbe tempo di rileggerlo…
Grazie del chiarimento. Sì, è vero. Rileggerlo oggi sarebbe interessante. Una lettura ex novo, filtrata attraverso le diverse esperienze che ci hanno cambiati e ci hanno dato un diverso sguardo su noi stessi, sul mondo e sui grandi romanzi del passato. Da ragazza non capivo il senso delle riletture. Oggi sì. E’ come ricordare ciò che eri e constatare come tu sia cambiata; e stupirti di accantonare oggi quei passaggi che ieri ti avevano fatto palpitare, e sentirne vibrare altri, su cui allora non ti eri neanche soffermata. La grande letteratura come tutte le arti, è un mezzo di riflessione su se stessi. Interessante lo scambio con Ivan. Fa pensare. Mettersi anche dall’altra parte, quella delle vittime. Anche se credo che ognuno, vittima e carnefice, sia vittima a suo modo… Grazie. Spero che l’emozione che mi ha comunicato il tuo articolo mi spinga a un atto concreto: più libri nelle carceri…
“La galera è veramente la cosa più brutta che ti può capitare da vivo, è il punto più basso di un’esistenza. Un buco nero”.
No, non è “la cosa più brutta che ti può capitare da vivo”.
La cosa più brutta è quella di essere assassinato da qualcuno che, semmai venisse condannato all’ergastolo, si lamenterebbe della sua condizione di vittima, non della tua.
Tu saresti morto, chiuso in un contenitore buio, senza finestre e senza speranza.
Hai ragione Ivan. Sono assolutamente d’accordo con te.
Ma, il protagonista del romanzo dubito che abbia ucciso qualcuno e non deve aver commesso un crimine grave, visto che dopo un po’ esce.
La sua più che altro è una descrizione di cosa succede “dentro”. Che “l’ergastolo è una pena di morte in cui il boia è il tempo” è una constatazione e non una lamentela.
D’altro canto se uno dovrà uscire e tornare alla vita normale in mezzo agli altri uomini, ma anche se dovrà restare lì per sempre, è meglio che faccia qualcosa, qualunque cosa, piuttosto che guardare il soffitto. Insomma la questione è complessa, ma il carcere non dovrebbe avere solo un valore punitivo, ma anche rieducativo. Non credi?
Grazie Tiziana,
non volevo assolutamente essere polemico verso l’autore e, soprattutto, non ho ancora letto il libro (che non mancherò di leggere).
La mia è stata solo la risposta ad un’emozione suscitata dalla lettura della tua recensione, che ho letto con interesse (non mi sarei emozionato altrimenti).
Sono d’accordo sullo scopo del carcere e in particolar modo sull’inciviltà, per usare un eufemismo, con cui sono trattati molti, troppi carcerati, qualunque reato abbiano commesso, anche il più efferato, ma troppo spesso non vengono ricordate le vittime di queste persone.
Va bene la riabilitazione nelle carceri, ma anche i familiari delle vittime hanno bisogno di essere riabilitati.
In ogni caso, resta sempre una questione molto complessa, dove il desiderio di giustizia e di pietà si intrecciano a formare una corda che alcune volte ci aiuta ad elevarci, altre ci imprigiona.