Sceneggiatrice e poetessa siciliana, Amy Pollicino ha cominciato a scrivere poesie e racconti da adolescente e da allora non ha mai smesso. Quasi morta. Il segreto della felicità è il suo primo romanzo. L’intervista parte da un incontro fondamentale, avvenuto quando aveva 17 anni, quello con Alberto Moravia.
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Perché sei andata via dalla Sicilia?
Per un innamoramento pazzo. Finito il terzo liceo sono andata via da Messina, per amore.
E com’è andato questo amore?
C’è stato, è stato meraviglioso ma anche breve. Nell’arco di pochi mesi mi sono ritrovata da sola ma a quel punto lo stretto era stato attraversato. Io vivevo davanti al mare, dove c’erano i traghetti. Ne ho visti miliardi partire e a un certo punto ci sono saltata sopra e me ne sono andata.
Cosa facevi a Roma?
Degli amici editori mi hanno dato asilo e lavoro. E’ stato così che ho conosciuto Moravia. Un incontro professionale che poi è diventato un’amicizia tra me che ero adolescente e lui che era già un grande vecchio. Io avevo 17 anni e lui era ultra settantenne.
Come vi siete conosciuti?
Da redattrice, l’ho chiamato e gli ho chiesto se voleva rilasciare una sua dichiarazione su un certo tema di cui mi stavo occupando. Lui ha sentito questa ragazzina che si chiamava come una favola, “Pollicino”, con una vocina e gli è venuta voglia di vedermi. Allora mi ha detto: “Vieni a casa mia che ne parliamo” e mi ha invitato a Lungotevere della Vittoria, dove adesso c’è il suo museo, Casa Moravia. Ma quando sono andata lì, abbiamo parlato d’altro e da quella volta abbiamo cominciato a frequentarci. Io avevo già una determinazione fortissima nei confronti della scrittura ed era di questo che parlavamo sempre.
Lui è stato il mio mentore perché per mettermi alla prova mi diceva: “Scrivi di quello che conosci”, quindi io scrivevo e gli davo le cose. Lui poi mi diceva che ne pensava. Visto che aveva un grande rapporto col cinema, era tra l’altro il critico cinematografico dell’Espresso, io potevo chiedergli di tutto e non solo del processo creativo. Lui mi mandava al cinema, poi mi faceva fare le recensioni e mi diceva come andavano. Era come seguire un corso personale di scrittura.
Che fortuna!
Ci sedevamo sul divano, lui mi offriva la pera Williams, che era un liquore molto Ottocento, il liquore del pomeriggio, e poi chiacchieravamo. Mi faceva miliardi di domande e alla fine ero io l’intervistata. Gli scrittori sono curiosi e io incarnavo qualcosa che lo divertiva. Ero un’adolescente parecchio ribelle. Di lui avevo soggezione ma ero anche sfacciata e gli dicevo: “Devo scrivere, devo scrivere”. Però lo percepivo come un signore borghese. Non corrispondeva all’artista come io me lo figuravo. Era un signore anziano con cui si parlava del più e del meno, ma se ci ripenso è stata una cosa straordinaria, anche perché io a Roma non conoscevo nessuno. Lui mi spediva al cinema, o al teatro, e io tornavo con il mio pezzo scritto.
Ma almeno lo avevi letto?
Sì, certo, io sono sempre stata una lettrice onnivora, però amavo Elio Vittorini, amavo Pavese, Sciascia. Amavo tutti i siciliani: Verga, De Roberto. Per me Moravia era uno scrittore borghese, comunque un grande scrittore. Da Moravia scaturirono tutta una serie di conoscenze nell’ambiente letterario.
Feci amicizia con Renzo Paris che allora insegnava all’università. Conobbi Amelia Rosselli e Enzo Siciliano mi propose di pubblicare delle poesie su Nuovi Argomenti. Ma io avevo un rifiuto per tutto quello che poteva sembrare far parte di una corporazione, far parte di un circolo. Perciò non accettai. Anni dopo però, delle mie poesie inviate a Sandro Veronesi a mia insaputa, finì che vennero pubblicate su Nuovi Argomenti. Poi nel 2007 è uscita una mia raccolta di poesie pubblicate da Aliberti, che s’intitola Ma il mio posto qual è e che ha avuto un certo successo.
Altri incontri importanti per quanto riguarda la scrittura?
Quello con Age, il mio maestro di sceneggiatura, un grandissimo maestro. Ho frequentato la sua scuola per due anni, quattro ore ogni pomeriggio. Lì è nata la mia passione per le storie. Poi ho lavorato con Bellocchio. Mi ero laureata con una tesi su di lui. Siamo negli anni Novanta, io intanto avevo cominciato a lavorare in Rai, dove ho avuto l’opportunità di presentare delle sue sceneggiature alla cui realizzazione ho poi collaborato.
Altro grande incontro è stato quello con Amelia Rosselli che ho conosciuto frequentando un suo lungo seminario di poesia, organizzato dalla Casa delle Donne per darle qualcosa da vivere, perché lei era poverissima. Abitava in una stanzetta a via del Corallo, da dove poi si è lanciata dalla finestra. E’ stato uno degli incontri più pazzeschi della mia vita perché quella donna aveva una intensità tangibile… entravi nella stanza e avvertivi la sua forte presenza.
Lei ci ha fatto leggere i suoi autori preferiti che erano Faulkner e Dino Campana. Amava la letteratura che ha un elemento musicale. Era una grande pianista che poi scelse la poesia. Ha avuto una vita molto infelice. Il padre era stato ucciso dai fascisti e il poeta Rocco Scotellaro di cui s’innamorò, morì d’infarto a trent’anni. Inoltre aveva dei grossi disturbi mentali, soffriva moltissimo e d’altro canto aveva un’intensità straordinaria. Se Age mi ha insegnato l’amore per la narrativa, lei mi ha insegnato l’amore per la lingua. Sono stati due incontri veramente fortunati.
All’inizio del tuo romanzo troviamo la protagonista che fa parte del gruppo di scrittura di una soap opera, cosa realmente accaduta nella tua vita. Come sei arrivata a scrivere soap opera?
La soap opera è CentoVetrine, anche se nel libro non viene esplicitato. Ci sono arrivata perché sono stata tra quelli che hanno importato Un posto al sole in Italia. Io e Michele Zatta siamo stati chiamati a studiare il format australiano Vicini di casa e a valutare se si poteva ambientare in Italia.
Così con il produttore Roberto Sessa, l’australiano Wayne Doyle e Gino Ventriglia abbiamo fatto il primo traghettamento del format ed è nato Un posto al sole. All’inizio lavoravo come story editor Rai, poi ci ho lavorato come sceneggiatrice, cosa che faccio tuttora. CentoVetrine è arrivato dopo. Era un lavoro industriale, quotidiano, ed è là che noi ci siamo incontrate per la prima volta, dove tu eri il produttore responsabile e io avevo molta soggezione di te.
Addirittura! Questo poi me lo racconti in privato, ora raccontaci del tuo romanzo Quasi morta. Il segreto della felicità.
Una donna è a un punto cruciale della sua vita, un punto in cui tutto cambia, in cui tutto quello su cui contava improvvisamente non c’è più. Tutto inzia quando perde il lavoro e suo figlio va via di casa.
Lavorare in una soap opera è un’esperienza che può quasi sostituire quella famigliare perché è un lavoro collettivo e, nonostante i conflitti, ti obbliga a stare insieme per tantissime ore. Perdere quel lavoro significa per lei perdere la quotidianità e la vita che stava conducendo. Contemporaneamente il figlio va via di casa. E’ un ragazzo brillante, vivace, che tende a una sua autonomia, ma non fino al punto di andarsene: questo lei non lo aveva previsto. Lo ha avuto che era una bambina e non si ricorda neanche di aver avuto una vita prima di questo figlio. Quindi tutto il suo mondo affettivo improvvisamente scompare.
Le relazioni d’amore ci sono ma sono molto libere perché lei ha sempre pensato che le persone dovessero essere lasciate libere. Si è separata dal padre del bambino ormai da molti anni e ha una sua vita amorosa attiva che però è ondivaga e non può essere una contro parte di quello che sta perdendo. Questo personaggio in profonda crisi si mette a scrivere un romanzo che diventa la sua possibilità di accettare il cambiamento e di determinarlo. Lì comincia un’altra storia e quindi il romanzo ha due piani narrativi che si alternano.
Il romanzo e il romanzo nel romanzo.
Queste due parti sono molto diverse perché una è più introspettiva e poi c’è il romanzo che lei scrive che ha un plot con un mistero da scoprire. La protagonista è una donna che svolge un lavoro nei sotterranei della stazione Termini, una bellissima giovane che si chiama Nina. A un certo punto della storia si palesa un bambino che non parla e che Nina prende con sé. Posso anche dirti che in questo secondo romanzo, il cui titolo è Il segreto della felicità, c’è un’ispirazione al mito di Amore e Psiche.
Come hai fatto a pubblicarlo?
La storia della pubblicazione è stata un po’ travagliata perché prima c’era un altro editore con cui ho lavorato per un anno e mezzo, ma a un certo punto non ci si intendeva più e quindi mi sono rivolta a un editore di Treviso che si chiama Edizioni Anordest. Sono molto riconoscente verso questo editore con cui pure abbiamo lavorato molto.
Quali sono i tuoi autori preferiti?
E’ ovvio che cambiano nel tempo, ma un mio grandissimo amore è Kafka e ho letto tutto quello che ha scritto, anche le lettere. La sua scrittura è in una zona al limite tra realtà, inconscio, sogno, fantasia. E’ un mondo che è reale e non è reale per questo mi piace. Amo molto anche Chandler, ho amato Fitzgerald, Salinger, amo gli scrittori in cui c’è una ricerca linguistica leggera, che raccontano il dramma con leggerezza, vedi Il Grande Gatsby o il Giovane Holden. Poi mi piace Chekov che rientra in questa leggerezza densa. La sceneggiatura mi ha fatto molto amare il giallo noir che prima non leggevo perché mi faceva paura. Mi piace molto Fred Vargas e adoro Simenon, ma proprio quello del commissario Maigret.
Delle serie che mi dici?
Le insegno in un master di scrittura creativa alla Luiss. Quindi “devo” vederne parecchie ore al giorno. Ma quella è una droga e tu lo sai.
Lo ammetto.
Ho visto una meravigliosa serie distopica che ha vinto il Roma Fiction Fest, The Man in the High Castle, tratta da un romanzo di Philip Dick. E’ come se la II Guerra Mondiale fosse stata vinta dai tedeschi e dai giapponesi che hanno occupato l’America. Siamo negli anni Sessanta. Quando la serie è stata presentata erano tutti concordi nel dire che mentre il cinema è residuale la tv è universale. Il grande racconto si è spostato alla televisione che probabilmente svolge anche la funzione del grande romanzo popolare. Quando si guardano queste serie meravigliose non c’è tanta distanza da un bel romanzo.
Se dovessi sceglierne alcune da consigliare?
Adesso mi piace moltissimo The Leftovers che è parente di Lost, una serie che ho adorato. E’ stata fatta da uno dei due autori di Lost, Damon Lindelof. Si tratta del rapporto con chi scompare, non con chi muore, ma con chi scompare. Quest’anno è la serie che in assoluto mi è piaciuta di più. Mi piace molto anche The Knick, la serie di Soderbergh ambientata ai primi del Novecento in un ospedale di New York, dove c’è un medico, Clive Owen, che è tossico, ma geniale. A me piace il racconto della contemporaneità e quindi anche del suo dolore. Qualcuno mi diceva nel mio lavoro televisivo: “Non dobbiamo essere ansiogeni”. Io invece penso che dobbiamo essere profondi e dare strumenti di conoscenza. Non si devono fare cose finte per scantonare l’ansia.
Che poi non creano nessuna identificazione e quindi nessun interesse. Sappiamo che la commedia se non è basata su un dramma, un dolore vero, non fa ridere. Romanzi, serie e poi?
E poi adoro l’audiolibro. Questa estate mi sono sentita tutto Viaggio al termine della notte. Mi sento tutti i podcast di Ad alta voce, la trasmissione che ripropone i romanzi alla radio. Sono sei, sette anni, che li sento tutti. Quindi i romanzi li leggo e poi li risento.
E’ bello sentire un romanzo mentre fai qualcos’altro.
No, in genere io li ascolto di notte, al buio, nella concentrazione più totale. Ma certo, mi capita anche mentre cucino. Anche quando sei in macchina in fila e intanto senti Guerra e pace, non stai perdendo tempo.