I mediatori culturali hanno le ore contate. Al loro posto algoritmi e influencer. Intervista a Frédéric Martel
Nel suo libro Smart, inchiesta sulle reti, Frédéric Martel dice che non è vero che internet porta all’omologazione e alla globalizzazione. Dice che i mediatori culturali tradizionali, i critici, stanno scomparendo e che saranno sostituiti da algoritmi e influencer. Dice che gli scrittori devono essere pagati ad ogni apparizione pubblica. La sua indagine fra le pieghe della rete l’ha fatta, andando fisicamente sul campo. Eccolo intervistato da Loredana Lipperini a Libri Come.
“Quando ci si interessa a internet, si pensa che si possa visitare da casa propria col proprio computer. In realtà io ho deciso di fare il contrario. Sono andato sul posto per vedere come funzionavano le cose. Ho lavorato per due, tre anni sul campo, ho intervistato migliaia di persone, in più di cinquanta paesi”.
Se sentiamo parlare i boss della Silicon Valley, dicono che stiamo entrando in una grande conversazione globale perché su internet le frontiere svaniscono, le lingue sono meno importanti – è sottinteso che l’inglese è la lingua dominante – e le culture si uniformizzano. Ma nell’inchiesta sul campo che io ho fatto, non sono arrivato per niente a queste conclusioni. In realtà quello che vedo è che le frontiere rimangono, che internet è estremamente frammentato e che è proprio questa frammentazione, più che la globalizzazione, che lo definisce.
Ovviamente ci sono dei contenuti globali, ma rappresentano soltanto una piccola parte dei contenuti che consumiamo. I contenuti viaggiano male su internet perché le frontiere comunque rimangono. In inglese ci sono due parole per dire frontiera. La prima è border che è una frontiera fisica. Questo tipo di frontiera su internet non esiste. E poi c’è un altro termine che è frontier e questa è una frontiera simbolica come nel mito della frontiera nel West americano, o la nuova frontiera di Kennedy quando sono andati sulla luna. Questa frontiera simbolica su internet c’è, innanzitutto a causa della lingua, poi della comunità di appartenenza, del territorio in cui si vive e della propria sfera culturale. Quindi non esiste una conversazione globale ma una frammentazione e questo si vede solo se si va fisicamente in loco, non si vede dal computer di casa.
Lipperini
Mi veniva in mente quello che diceva Christian Salmon parlando dello storytelling come qualcosa usato nel marketing, nella politica, nel lavoro, nel management, in grado di esercitare un controllo. Da questo punto di vista “le internet”, essendo frammentate come lei sostiene, potrebbero essere un’efficace contro narrazione per sfuggire dal controllo esercitato dal narratore globale?
Martel
Internet modifica profondamente il mondo nel quale viviamo. Entriamo nel secolo digitale come dico in Smart: questo apre moltissime opportunità e nello stesso tempo presenta nuove minacce. Secondo me Christian Salmon compie un errore d’analisi per quanto riguarda lo storytelling. Innanzitutto perché non conosce la storia degli Stati Uniti e ci spiega che lo storytelling è nato con la campagna di Obama. In verità questa è una modalità espressiva degli afroamericani del XVIII secolo e non necessariamente è qualcosa di negativo.
Raccontare una storia è quello che fanno le nonne, o le mamme con i loro figli e se non ci fosse lo storytelling non ci sarebbe la letteratura. D’altro canto non è lo storytelling ad aver creato la comunicazione politica. Anche Roosevelt lo usava, come Kennedy, o Johnson, quindi non è affatto un fenomeno recente. Penso che questo sia un profondo errore di analisi, un’analisi di estrema sinistra, che è un’analisi contro il potere, imbevuta di Gilles Deleuze e di pensatori importanti ma che ben poco sanno di politica. Internet cambia moltissimo la comunicazione, i media e la politica, ma non lo fa necessariamente in modo negativo. Internet, in sé, non è né buono, né cattivo. Dipende dall’uso che se ne fa.
Lipperini
Io non vorrei fare una domanda troppo di estrema sinistra, però quando parliamo della frammentazione “delle internet” mi sembra un po’ difficile non considerare che internet al singolare appartiene alle grandi concentrazioni, ai grandi monopoli. Stiamo parlando di Google, di Facebook. E’ chiaro che tante narrazioni, notizie e pensieri vengono veicolati all’interno di Facebook, ma resta il fatto che non si è titolari di quello che si scrive e che questo servizio, per noi apparentemente gratuito, va a incrementare la grande ricchezza di pochi. Allora c’è anche un fattore capitalista nella rete che perdura nonostante il cambiamento culturale?
Martel
Io non credo proprio. Internet è il cuore stesso dell’integralità dei saperi, della comunicazione dell’insieme dei media e anche dell’insieme delle attività, dagli hotel ai taxi, a Uber, alle aziende. Dunque è dominante nella totalità della nostra vita. Però c’è una parte molto importante di internet che è senza scopo di lucro e un’altra parte molto importante che è pubblica: le amministrazioni, i musei, le scuole. Tutto questo è internet. Non è soltanto Google e Facebook, è molte altre cose. Uno dei siti più noti al mondo è Wikipedia che è senza scopo di lucro. Ci sono sicuramente dei problemi di concentrazione, ci sono anche problemi di abuso di posizione dominante, è quello che accade con Google, Facebook e Amazon. Ma non mi sembra giusto criticare globalmente internet perché si dimenticano tutti questi aspetti molto positivi.
Nel romanzo di Dave Eggers Il cerchio vediamo che può nascere una distopia, ma è solo una parte di ciò che accade. E poi ci sono tante persone come credo fosse un po’ Umberto Eco, o Evgeny Morozov negli Stati Uniti, o Alain Finkielkraut in Francia e in parte anche Christian Salmon, che passano il tempo a criticare internet. E’ legittimo e io stesso nel mio libro lo faccio, ma Finkielkraut o Vargas Llosa, il premio Nobel peruviano con il quale ho avuto una pesante polemica in America Latina, ci spiegano che internet è un insieme di video, di gattini che suonano il piano, o gente che fa skateboard.
Internet è tutto questo ma se andate a Soweto, in Sud Africa, o a Kidera in Kenia, se andate nelle bidonville di Mumbay, di Delhi o di Bangalore, o nelle grandi favelas del Brasile – e io ho vissuto per settimane in ognuno di questi luoghi – e vedete come i giovani utilizzano internet in posti dove non c’è l’acqua, non c’è la corrente, ma riescono comunque a collegarsi per avere delle enciclopedie che prima di internet non esistevano nel loro paese.
Vi assicuro che se vivete in questi campi, in queste bidonville, non potete assolutamente dire che internet è un ammasso di video di gatti che suonano il piano. Internet cambia la vita della gente. A volte permette di trovare un lavoro. Permette di imparare a scrivere, di uscire dalla povertà, o magari semplicemente trovare il pozzo in cui c’è dell’acqua potabile. In Africa permette di evitare dei luoghi pericolosi. In Messico di evirare i posti in cui ci sono terroristi, o narcotrafficanti. Tutti questi aspetti positivi sono estremante importanti.
Lipperini
A parte che io difendo i gattini a prescindere, perché hanno anche loro un significato sulla rete…
Martel
Anch’io.
Lipperini
Lei ha citato Umberto Eco. Io credo che la categoria degli apocalittici e gli integrati, che è di diversi lustri fa, non si possa applicare a internet. E’ vero che ci sono molti intellettuali che non hanno particolare amore o fiducia – io potrei citarle anche Franzen – nei confronti della rete e questo è un atteggiamento rigido. Dall’altra parte – mi scusi se cito Marx, non si arrabbi – esiste quello che potremmo chiamare il feticcio della merce digitale e non si può ignorare che tutto quello che ci viene proposto nella rete abbia un costo in termini di lavoro e anche di sfruttamento umano.
Lei ha perfettamente ragione nel sottolineare l’importanza della rete per l’alfabetizzazione, per l’accesso ai saperi, per la lotta alla censura, o al narcotraffico, però è anche vero che una parte di quello che noi utilizziamo viene da sfruttamento. Ad esempio abbiamo accesso alla rete attraverso i prodotti Apple, attraverso gli Iphone, e sappiamo che la maggior parte dei componenti dell’Iphone vengono assemblati alla Foxconn, dove lo sfruttamento dei lavoratori cinesi è tale che in quella fabbrica si registra il più alto numero di suicidi. E’ vero però che siamo venuti a conoscenza di questa situazione attraverso la rete. In genere si tende a essere schematici, tutto bene o tutto male, mentre il chiaroscuro c’è sempre.
Frédéric Martel
Siamo d’accordo, su questo non c’è discussione. Della Foxconn, questa grande società di Taiwan, ne parlo anch’io nel mio libro. Parlo anche del problema della privacy su internet. Ma bisogna capire qual è il nemico. Se vogliamo limitarci a dire che il problema è il mercato va bene, ma oggi in quale paese del mondo non c’è il mercato? Sapete quali sono oggi i tre paesi più ultra capitalisti del mondo? La Cina, la Russia e Cuba. Cuba è l’emblema dell’ultracapitalismo. E’ dieci volte più capitalista degli Stati Uniti perché non c’è nessuna regolamentazione dello stato e sono tutte bustarelle. Per avere dei buoni voti a scuola e per essere curato devi pagare delle mazzette. Negli Stati Uniti c’è il capitalismo, però c’è una regolamentazione.
E’ insufficiente, per esempio per Google, Facebook, Amazon e Apple, ma è più forte di quella che esiste in Cina. Tra l’altro se c’è stato uno Snowden americano, ci ha permesso di sapere molte cose che prima non sapevamo sul regime iraniano o cinese. Io credo che avremmo bisogno di uno Snowden cinese, iraniano, russo, cubano perché là si uccide la gente. Si ammazzano le persone che non sono conformi al regime. Quello cinese è un sistema ultracapitalista, ma al contempo è riservato agli amici del potere, proprio come in Russia e a Cuba.
L’inchiesta del New York Times ha dimostrato che le più grandi aziende sono collegate a fratelli e sorelle del ministro cinese. Questo negli Stati Uniti non è possibile perché ci sono delle regole molto antiche sull’abuso di posizione dominante, ma anche sulla privacy. La vita privata è un’idea europea ma è anche il quarto emendamento della costituzione americana e mi dispiace che gli Stati Uniti a volte lo abbiano dimenticato.
Spero che presto la Corte Suprema e gli organismi di regolamentazione sanzioneranno Google, Facebook eccetera su questi aspetti della riservatezza. Ancora una volta il problema non è il mercato, ma è un’economia di mercato non regolata, sono degli abusi di posizioni dominanti non sanzionati, la vita privata che non è protetta. Credo che se gli americani non lo faranno, saremmo noi europei che dovremmo farlo. Ho lavorato molto con Margrethe Vestager, commissario europeo per la concorrenza, e anche lei porta avanti questa battaglia. La soluzione, secondo me, è avere una buona regolamentazione europea e non semplicemente dirsi contrari al mercato.
Lipperini
Nel suo libro sostiene che l’élite costituita dai mediatori culturali ha fatto il suo tempo e che per la diffusione dei libri e la diffusione dei saperi, sarà la collettività a decidere, ma potrebbero anche essere i famigerati algoritmi, quegli stessi che ora, quando facciamo la scelta di un libro su Amazon, ce ne suggeriscono un altro. Ma chi forma la competenza di quella collettività che andrà a sostituire i mediatori culturali?
Frédéric Martel
In tutto il mondo la critica tradizionale, la critica letteraria, quella cinematografica, quella musicale, sta scomparendo. Intanto perché c’è una tale massa di contenuti che non è in grado di vedere tutto. Se ci sono una decina di film che escono in una settimana, si più riuscire a vederli tutti, ma se ci sono centinaia di migliaia di film a disposizione su Netflix, o centinaia di migliaia di video uploadati su Youtube ogni ora, nessun essere umano è in grado di vedere tutti questi contenuti e criticarli. Centinaia di nuove serie televisive che escono ogni anno e ogni serie sono decine di episodi: è impossibile vederli tutti.
Alcuni pensano che, non essendo possibile avere una critica umana, sono le macchine che dovranno farla. E’ quello che succede con l’algoritmo di Spotify, di Netflix, o di Amazon Prime. Ma è evidente che questi algoritmi hanno dei problemi. Sono stato uno dei primi a mostrare che quando ci fanno delle proposte di libri su Amazon, ce li propongono in base a quello che abbiamo già comprato, in base a quello che la maggioranza della gente compra e anche a quello che gli editori pagano per pubblicizzare il loro libri. Ma nessuno lo sa. Noi crediamo che l’algoritmo ci consigli gentilmente quello che è fatto per noi, in realtà tutto dipende dalla pubblicità e dal denaro pagato dagli editori.
Stessa cosa vale per Facebook. Quando mettiamo “mi piace” su una pagina Facebook, pensiamo che riceveremo delle informazioni su quella pagina, che si tratti di un autore, o di un artista, un uomo politico, una marca, o un giornale. In realtà l’algoritmo diffonde quei contenuti solo al 7 per cento di quelli che hanno messo “mi piace” sulla pagina. Affinché tutti i fan della pagina ricevano il messaggio bisogna che la pagina abbia ricevuto molti “like”, che sia stata molto commentata e condivisa, oppure che compri pubblicità su Facebook. Questo significa che l’algoritmo è falsato.
Poi ci sono anche problemi con gli algoritmi che non funzionano bene. Per esempio un algoritmo che funziona molto bene oggi è per dire qual è il biglietto aereo meno caro sul mercato, o per scegliere un hotel dall’altra parte del mondo. Ma contrariamente a quello che spesso si pensa, gli algoritmi hanno molta difficoltà a predire. Un algoritmo ci può dire qual è la musica che ci piacerebbe ascoltare perché milioni di persone l’ascoltano in quel momento, ma non riesce a sapere se ci piacerebbe la mattina appena svegli, o la sera prima di andare a dormire. Non riescono a stabilire quale sarà il nostro stato d’animo.
Secondo me la critica tradizionale è morta e gli algoritmi non sono ancora abbastanza efficaci, perciò bisognerà inventare nuovi strumenti che si collochino tra i due. È quello che io ho chiamato: la smart curation, un misto tra macchina e essere umano. Ci sono già alcuni strumenti di smart curation, sono i nuovi influencer. Ad esempio i booktubers, di solito ragazzine che parlano di libri da adolescenti, e persone che hanno amato un libro e che ne parlano su Youtube. Ci sono anche i poeti su Instagram, gli Instapoet.
E poi c’è Discover Weekly il nuovo algoritmo di Spotify. Questo tiene in considerazione i nostri gusti, quelli della massa, ma anche i gusti di centinaia di influenzatori: critici musicali, musicisti, blogger, giornalisti musicali, manager di marchi, produttori musicali. Quindi l’algoritmo ha un triplice filtro, personale, collettivo e influenzatori.
Lipperini
Questi influencer sono straordinariamente corteggiati dai produttori e dunque come il critico tradizionale neanche i booktubers sono esenti da influenze.
Martel
Sì e no. La differenza è che non stiamo parlando del critico di Repubblica o del Corriere della Sera, non parliamo di una manciata di persone: gli influenzatori sono decine di migliaia.
Lipperini
Però se lei va a dare un’occhiata ai booktuber di lingua italiana, vedrà che quando parlano di un libro usano quasi sempre le stesse parole del comunicato stampa della casa editrice. Ora vorrei farle un’ultima domanda sullo scrittore. Lei ha prospettato un futuro sempre più difficile per gli scrittori. Per difendersi e poter continuare a svolgere la propria attività, lei prefigura che devono diventare anche performer. Devono portare in giro la propria parola, supportati da festival e librerie che dovrebbero pagare questo intervento. Ma così le librerie, che in Italia già vivono una seria difficoltà, sarebbero costrette a far pagare l’ingresso per poter finanziare gli scrittori. E poi degli scrittori timidi, che magari sono bravissimi a scrivere ma pessimi parlatori, che ne facciamo?
Martel
E’ un dibattito complesso e ampio. Ho consegnato al Ministro della cultura francese una relazione su questo argomento e c’è stata subito una decisione nazionale. Da oggi in Francia non si può più accogliere scrittori se non sono pagati, altrimenti non ci saranno più sovvenzioni pubbliche; questo per quanto riguarda i festival, gli incontri, i seminari e presto anche le librerie. I festival in Francia ricevono molte sovvenzioni pubbliche e anche le librerie, quindi da ora in poi lo scrittore se ci va deve essere pagato. In Francia se si va in un festival ci sono traduttori, hostess, taxi, cameramen che filmano i dibattiti, ci sono ambienti che vengono affittati: tutti sono pagati, tranne lo scrittore. Come ha detto Jonathan Littell:
“In Francia tutto il sistema editoriale vive grazie ai libri, tranne gli scrittori”. Questo non è più possibile. Altrimenti non ci saranno più scrittori. Nell’era digitale gli scrittori sono in miseria, quindi bisogna inventare nuovi modelli. Se si possono pagare dei cameramen, si possono pagare anche gli autori.
Non sto parlando per me che sono un autore tradotto in molti paesi, ma conosco parecchi scrittori giovani, trentenni che hanno un grandissimo successo, oltre che talento, e che non guadagnano neanche un salario minimo. Se prendiamo l’esempio della musica c’è un paradosso.
Negli ultimi dieci, quindici anni, si è detto che la musica era morta a causa del digitale, ma uno studio recente mostra che tra il 2002 e il 2012, quindi gli anni dell’avvento del digitale, negli Stati Uniti ci sono stati il 40 per cento di musicisti in più che hanno guadagnato il 60 per cento più di prima. Certamente il digitale ha ucciso alcuni marchi, ma oggi la musica negli Stati Uniti va meglio. Come spiegare questo paradosso?
Oggi i musicisti si autoproducono, fanno dei concerti live, oggi c’è l’uso della musica nei video giochi e su internet. I musicisti sono meglio remunerati per tutte queste attività. Lo stesso va fatto per gli scrittori. Per lo scrittore il concerto live è la conferenza e deve essere pagato. Non sono d’accordo con lei sulle librerie. Le librerie e le biblioteche sono morte. Fra dieci anni non esisteranno più, a meno che non diventino dei luoghi sociali, dei luoghi di dibattito, dei posti dove succeda qualcosa, sennò si compreranno i libri su Amazon.
Se vogliamo che la libreria sia un luogo vivo bisogna che gli scrittori ci vadano, quindi sopravvivranno proprio perché chiameranno gli autori, li pagheranno e questi incontri avranno successo. E’ un processo vantaggioso per tutti, una situazione win-win, in cui tutti hanno da guadagnare. E’ vantaggiosa per le librerie e per gli autori. Per quanto riguarda gli autori timidi, come Patrick Modiano ad esempio, o un po’ folli come Michel Houellebecq, ci sono altri modi per farli intervenire. Michel Houellebecq a volte canta, o fa delle letture. Ci sono altre soluzioni. Se vuole posso concludere cantando.
Davvero interessante! Grazie.
Sì, Giorgia, è davvero interessante e continuo a pensarci.
In ogni caso gli influencer siamo noi… 😉
Bel pezzo Tiziana. Che liberazione si prospetta. Basta con questi padri condiscendenti che pensano di decidere le identità altrui. Questa cosa che la supremazia della vecchia critica sta finendo è percepibile, palpabile. Giusto pagare gli scrittori come accadrà in Francia.
Gli equilibri cambiano!
Gli influencer sono certamente più democratici.
Il fatto che siano più numerosi, Amy, non vuol dire che siano più democratici, ma tant’è, i tempi cambiano e questo è quello che sta accadendo… sugli algoritmi poi, c’è da riflettere
Tiz, ho commentato su FB. Questo intervento apre fronti di riflessione ma anche azione. Gli influencer siamo noi, hai scritto bene! Lo dimostra anche Cronache Letterarie.
Prenderò l’ebook di questo libro. Ma certamente oggi i lettori sono un’elite, cioè una cerchia ristretta, e giocoforza gli scrittori non possono prescinderne
Sì, Roberto, parecchi sono gli spunti di riflessione. E’ vero che i lettori sono una cerchia ristretta e questo li lega a doppia mandata agli scrittori.
Mi fa molto riflettere anche quello che Martel dice di Facebook perché è qualcosa con cui sto facendo i conti negli ultimi mesi.
“Quando mettiamo ‘mi piace’ su una pagina Facebook, pensiamo che riceveremo delle informazioni su quella pagina, che si tratti di un autore, o di un artista, un uomo politico, una marca, o un giornale. In realtà l’algoritmo diffonde quei contenuti solo al 7 per cento di quelli che hanno messo ‘mi piace’ sulla pagina”.
Io lo sto sperimentando per la pagina di Cronache Letterarie. E’ come se ci fosse un imbuto che diminuisce la circolazione dei nostri contenuti rispetto a quanto avveniva in passato. Facebook vuole che si condivida a pagamento. Un’amico si lamenta che gli mostra ogni giorno l’immagine di sua sorella che ha cambiato la foto del profilo e non i post a cui sarebbe interessato (tra cui quelli di Cronache Letterarie).
Il 7 per cento è davvero poco perciò mi chiedo: serve davvero una pagina facebook? Forse basta il profilo. Che ne dici?