Lo scrittore spagnolo Javier Cercas parla di Barcellona, dell’invenzione del romanzo fatta da Miguel de Cervantes, del ruolo dello scrittore, della letteratura che può cambiare il mondo e del buco nero che c’è al centro di ogni narrazione. Eccolo, intervistato da Bruno Arpaia a Libri Come.
Rispetto a Roma, Barcellona è più piccola e ha una struttura regolarissima per cui non ci si perderebbe neanche un bambino. Javier Cercas vive a Barcellona anche se non è nato in Catalogna, Javier è uno dei tanti migranti che negli anni Sessanta ha fatto parte di quella ondata migratoria dalle zone più povere della Spagna alle più ricche, come la Catalogna. Qual è stata la tua prima impressione di Barcellona?
Javier Cercas Prima di tutto devo scusarmi per il mio italiano. Barcellona non è la mia città veramente. Io sono nato in un piccolo paese dell’Estremadura e dopo sono andato in una città un po’ più grande e molto bella, vicina a Barcellona, che si chiama Girona. Ho vissuto a Girona fino a 18, 19 anni. Barcellona per me era la capitale, era enorme. E’ vero che oggi mi sembra molto piccola perché si conoscono tutti, si può andare a piedi dappertutto, ma quando sono arrivato a 19 anni, per studiare all’università, era enorme. Questa è stata la prima impressione, che era troppo per me. Io ero un uomo di provincia. Credo di essere un uomo di provincia. La mia visione di Barcellona non è critica perché io vedo soltanto le cose buone. Non vedo neanche i turisti.
Arpaia I barcellonesi adesso sono diventati come i fiorentini che non sopportano le orde dei turisti, soprattutto italiani, che scendono la Rambla in calzoncini e ciabatte. Tu non li vedi perché stai un po’ più in alto, al nord. Molti hanno cominciato a rimpiangere la Barcellona di prima delle Olimpiadi del ’92. Ad esempio uno scrittore come Francisco Gonzales Ledesma. Addirittura Pepe Carvalho, negli ultimi libri di Vásquez Montalbán, diceva che Barcellona “era diventata una città dominata dalla puzza di frittura di gamberi che esce a metastasi dai ristoranti del villaggio olimpico, che era diventata una città bella, ma senz’anima, come alcune statue”. Barcellona è cambiata moltissimo. Tu come hai vissuto questo cambiamento?
Cercas Io li rispetto moltissimo ma mi chiedo sempre: questa gente ha nostalgia della Barcellona di quando erano giovani, o hanno nostalgia della loro giovinezza? Io sono arrivato a Barcellona negli anni Ottanta e abitavo molto vicino alla Rambla ed era una cosa terribile: le prostitute, il Barrio Chino, io non ho nostalgia di quello. Molte cose sono cambiate in meglio.
Per esempio Barcellona era la città che aveva il più grande porto del Mediterraneo ma il mare non esisteva per la gente che ci viveva. La rivoluzione del ’92 per me è stata quella di aprire Barcellona al mare. Ora la gente va in spiaggia, ci vanno i giovani di tutto il mondo. La mia donna è di Barcellona e all’inizio non voleva andare in spiaggia perché in spiaggia si va in Costa Brava. Invece la spiaggia di Barcellona è perfetta e questa è stata una vera rivoluzione. Insomma ci sono cose cattive e ci sono cose buone.
Arpaia Nella Barcellona di oggi i segni della crisi sono abbastanza evidenti, si vedono molti negozi chiusi, poi c’è il grande problema dell’ indipendentismo catalano che produce una frattura nella società. Tu come la vivi questa nuova realtà piuttosto pesante?
Cercas Il nazionalismo spagnolo è stato catastrofico, molto peggio del nazionalismo catalano. Io non sono indipendentista, credo che non bisogna drammatizzare questo problema e risolverlo. Come si fa? Una democrazia lo fa con la legge. E’ un problema molto complesso e forse questo non è il luogo per parlarne. Io credo che la migliore idea che abbiamo avuto noi europei è stata creare una unità. L’unità europea è l’unica utopia ragionevole che abbiamo inventato. E’ il progetto più ambizioso dell’Europa oggi. Gli indipendentisti vogliono restare in Europa, ma non vedo come possono farlo uscendo dalla Spagna.
La mia ambizione è creare un’Europa veramente unita, cioè un’Europa confederale e poi federale. Un’unità politica e una diversità culturale. E’ un progetto straordinario. Abbiamo dimenticato che all’inizio del secolo tutti gli analisti del mondo dicevano che questo sarebbe stato il secolo dell’Europa. Era il progetto più forte in senso economico, politico e culturale. Poi è venuta la crisi e tutti sono ritornati a casa. La democrazia serve a risolvere i problemi. La nostra soluzione è creare una legge per risolvere questo problema. Alle ultime elezioni hanno detto sì all’indipendenza il 47 per cento. Non è una maggioranza.
Arpaia Anche se i partiti che hanno vinto le elezioni la presentano come una maggioranza.
Cercas Ma non lo è. Lo sanno tutti. Hanno la maggioranza in parlamento, questo sì. In tutte le indipendenze che sono state ottenute negli ultimi vent’anni, la maggioranza era il 90, 95 per cento, ma il 47 non è una maggioranza e oggi cominciano a riconoscerlo.
Arpaia Su queste cose tu sei intervenuto pubblicamente, ne hai scritto sul Pais, ti sei comportato come un intellettuale impegnato. Eppure il tuo percorso era tutt’altro. Nel tuo saggio Il punto cieco (vedi qui la nostra recensione) ti interroghi sul nuovo ruolo dell’intellettuale. Questo fa un po’ paura a dirlo, sembra un po’ démodé e la cosa strana è che tu vieni da tutt’altra formazione. Sei nato come uno scrittore postmoderno perché hai una concezione della letteratura molto ludica, persino metaletteraria. Poi è arrivato Soldati di Salamina e Mario Vargas Llosa ha scritto: “se qualcuno vuole ancora vedere come può essere ben usata la letteratura impegnata, legga questo libro”. Che significa oggi la letteratura impegnata e che cosa significa essere un intellettuale e prendere pubblicamente parte al dibattito?
Cercas Io sono nato alla vita intellettuale in un momento in cui la letteratura impegnata per me e per la mia generazione era qualcosa di orribile. Era una letteratura populista, una letteratura di propaganda. Io ero contrario e in questo senso ero uno scrittore postmoderno, cioè uno scrittore che faceva il teatro fantastico, che aveva un senso ludico, Calvino, Borges e tutto questo. Per me gli intellettuali erano persone che avevano appoggiato cose orribili, il fascismo, le grandi dittature comuniste, che parlavano di quello che non sapevano, che dicevano quello che la gente voleva ascoltare. Io ero assolutamente contro tutto questo. E non soltanto io.
Poi col tempo ho visto le cose diversamente. Io credo che bisogna riformulare cos’è la letteratura impegnata perché la letteratura non è soltanto intrattenimento – questo è stato il peggio del postmodernismo – non è soltanto un gioco intellettuale. Evidentemente la letteratura è un intrattenimento, ma può essere anche altro. La letteratura cambia il mondo, ma non direttamente, cambia il mondo cambiando la percezione del mondo del lettore. Questo è quello che hanno fatto con noi tutti i grandi libri ed è quello che diceva Kafka in una lettera che bisognerebbe sempre citare: “la letteratura è un’ascia che rompe il mare di ghiaccio che abbiamo dentro”. C’è rivoluzione, cambia il modo che abbiamo di vedere la realtà. E’ capace di parlare delle cose più complesse, della politica, della storia, e non è soltanto un gioco senza trascendenza.
Chi sono i grandi scrittori impegnati? I miei maestri da sempre. Kafka, Borges che quando ero giovane era un mio grandissimo maestro. Io pensavo che Borges vivesse in un altro mondo e che parlasse di cose fantastiche. No! Parla di politica, di questioni morali fondamentali, del fascismo, del totalitarismo, di tutte le questioni essenziali. Come Kafka, lui non parla di un mondo che non esiste, parla del nostro mondo.
Arpaia Tu citi quella pagina del diario di Kafka in cui il giorno dello scoppio della Prima Guerra Mondiale lui annota nel suo diario…
Cercas “Oggi è scoppiata la guerra fra Germania e Russia. Punto. Pomeriggio, andato a nuotare”. Quando ero giovane dicevo: vedi, Kafka non era interessato alla guerra. Ma quella è una lettura assolutamente stupida, ingenua, perché quello che dice Kafka, secondo me, è che la prima cosa che deve fare un intellettuale è andare a nuotare, riflettere. Non reagire come il vecchio intellettuale: “che cosa significa la guerra io lo so perfettamente”.
Questo è il vecchio intellettuale che sa tutto, che è dogmatico, che dice quello che gli hanno detto che deve dire, che dice quello che tutto il mondo vuole ascoltare. No, prima di tutto riflettere, andare a nuotare. L‘intellettuale è un uomo che interviene nella vita pubblica. Io scrivo due volte al mese per il Pais. Posso raccontare che una volta a Londra ho visto Ringo Star. Ho detto: “Mamma mia! Posso scrivere un articolo su questo perché è la cosa più importante che mi sia accaduta nella vita. Ma non sono preoccupato solo per Ringo Star, sono preoccupato anche per quello che succede in Spagna, in Catalogna. Allora scrivo su questo. Io sono soltanto un cittadino. Divento un intellettuale perché ho un’attività pubblica.
Non sono solo preoccupato se vendo duemila o tremila copie, sono preoccupato perché ho un figlio, perché pago le tasse, lo faccio, incredibile ma lo faccio. Allora divento un intellettuale. La parola, è vero, è orribile. Se qualcuno quando ero giovane mi avesse detto: sarai un intellettuale, sarai uno scrittore impegnato, lo avrei ucciso istantaneamente. Ma bisogna cambiare questo intellettuale dogmatico e populista. Per prima cosa l’intellettuale è indipendente. Nessuno gli dice cosa deve dire. Poi è un cittadino, non è qualcuno superiore. E’ una persona.
L’immagine ce la racconta Michal Marès, un romanziere ceco contemporaneo di Kafka. C’è una protesta, una manifestazione contro la fucilazione di un anarchico francese. Arriva la polizia e c’è una battaglia con i manifestanti. A un certo punto questo Michal Marès vede un uomo molto alto, immobile nel mezzo della battaglia. Vede che è Kafka che resta lì fino a quando la polizia lo prende e lo porta in carcere per una notte. Il coraggio è una delle caratteristiche essenziali di questo nuovo intellettuale. E’ un uomo ribelle che quando tutto il mondo dice “sì” è capace di dire “no”. E’ il Nemico del popolo di Ibsen, è capace di andare contro l’opinione pubblica.
Arpaia Chi conosce i tuoi libri sa che torni sempre su alcuni temi fondamentali che sono “menzogna e verità”, “realtà e apparenza”, l’eroismo, la vigliaccheria, lo scopo della letteratura, il coraggio di dire “no”, la storia. A volte li hai trattati con libri di fiction, altre volte parli di fatti reali. Con Anatomia di un istante racconti il colpo di stato in Spagna, il 23 febbraio 1981, quando Tejero arrivò nel Parlamento sparando e tutti si misero per terra, tranne tre personaggi. Quella volta tu hai fatto in modo che il libro non venisse presentato come un romanzo.
Poi c’è L’impostore che è la storia di Enrich Marco che si spacciò per sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti, diventando il presidente dell’associazione spagnola e poi si scoprì, in una grande cerimonia in cui lui avrebbe dovuto parlare alla presenza di tutte le autorità, che non c’era mai stato e che era un grande impostore. Era, come lo chiami tu, “il Maradona degli impostori” perché tutta la sua vita era stata una grande impostura. E racconti i fatti reali della sua vita ma stavolta l’hai presentato come un romanzo. Se non c’è l’invenzione possiamo ancora parlare di romanzo? Che cosa intendiamo per romanzo?
Cercas La risposta perfetta sarebbe quella che dà Sant’Agostino sul tempo. “Se mi domandano che cosa è il tempo non lo so, ma se non me lo domandano lo so”. Tutto il mondo sa che il romanzo è una finzione. Bisogna dire che la finzione pura non esiste. La finzione è sempre una mescolanza tra finzione e realtà. La realtà è il carburante della finzione. Se esistesse una finzione pura non sarebbe interessante. La finzione è interessante perché è una rielaborazione della realtà. Detto questo, sappiamo che il romanzo è finzione: per questo motivo, quando Anatomia di un istante è stato pubblicato, ho dichiarato che non era un romanzo. Perché se dico che è un romanzo tutti pensano: “Ah, ha inventato tutto”. E invece io volevo dire: è tutto vero.
Poi ho dichiarato che L’impostore è un romanzo perché avevo preparato il mio lettore che sa che posso fare dei romanzi senza finzione. Allora il lettore accetta che può esistere questa cosa strana. Allo stesso tempo ci sono altri autori nel mondo che hanno deciso che si può fare un romanzo senza finzione, come John Coetzee, o il norvegese Knausgård. Quell’uomo che si chiamava Miguel de Cervantes ha creato questa cosa geniale che si chiama “romanzo moderno”, in cui la prima regola si chiama libertà. Con il romanzo si può fare tutto quello che si vuole. Allora perché non fare un romanzo senza finzione? Io ne avevo bisogno.
Ho fatto un romanzo con una mescolanza di finzione e realtà sul colpo di stato. Ci ho lavorato per tre anni e a un certo punto ho visto che il 23 febbraio era una finzione collettiva come la morte di Kennedy. Tutti gli spagnoli hanno una teoria sul colpo di stato del 23 febbraio. Che cosa è uno spagnolo? E’ un uomo che ha una teoria sul colpo di stato di febbraio. Se trovate qualcuno che dice di essere spagnolo e gli chiedete qual è la sua teoria e non ce l’ha, non è spagnolo. Forse la migliore dimostrazione che i catalani lo sono è che tutti i catalani hanno una teoria sul colpo di stato.
Scrivere una finzione sul “più grande impostore della storia” come lo ha definito Vargas Llosa, era ridondante. Quello che aveva senso nel libro era organizzare una battaglia fra la finzione e la realtà, fra la menzogna e la verità. Questo è un problema molto interessante di cui parlo ne Il punto cieco: come conciliare due verità opposte, la verità della letteratura e la verità della storia? Teoricamente è impossibile. In termini aristotelici ci sono due verità, la verità della storia è una verità fattuale, una verità concreta, la storia vuole sapere che cosa è successo.
Invece la verità “poetica”, direbbe Aristotele, la verità della finzione è una verità astratta, morale, universale, che cerca di capire cosa succede a tutti gli uomini in tutti i paesi, in tutti i momenti della storia. Perciò Aristotele diceva che era superiore alla verità della storia. Questi romanzi vogliono conciliare queste due verità opposte. E’ una grande sfida perché teoricamente è impossibile. Che cosa è un romanzo? Di questo parla Il punto cieco.
Arpaia Tu dici che la capacità del romanzo di fare ironia, quindi di tenere insieme due realtà contraddittorie, ne fa un’arma di distruzione di massa.
Cercas Assolutamente. Per me è una rivoluzione immensa che fa quest’uomo che si chiama Cervantes, che nessuno capisce al suo tempo. E noi siamo figli di questa invenzione. Che cos’è l’ironia? Prima di Cervantes non esisteva. Lui crea un genere. Don Chisciotte è pazzo da morire, assolutamente pazzo, dovrebbe essere in un manicomio, ma allo stesso tempo è l’uomo più saggio del mondo. Questa è l’ironia. Due cose contraddittorie che esistono nello stesso tempo. Don Chisciotte è un personaggio assolutamente comico, ridicolo, così lo leggevano al suo tempo, ma allo stesso tempo un personaggio eroico, tragico. E’ questo il senso del libro di Cervantes e secondo me questa è l’essenza del romanzo.
Il punto cieco è il risultato di cinque conferenze che ho fatto a Oxford l’anno scorso. Il primo giorno il presidente del college mi ha detto: “C’è una signora che non è molto intelligente, ma suo marito paga molto perciò bisogna essere amabili con lei”. E questa signora ha fatto una domanda straordinaria, magnifica, veramente brillante.
Il Chisciotte all’epoca ha avuto un enorme successo, è stato un grande best seller perché la gente rideva. Questa è una delle ragioni per cui gli intellettuali non se ne sono interessati. Era un libro per la gente normale. Un mio amico dice: “Cervantes non avrebbe mai avuto il premio Cervantes”. Allora questa signora chiede: “Eh, com’è possibile che questo libro, con tutto questo successo, nessuno lo ha imitato?” E’ una domanda molto interessante perché quando un libro ha un grande successo tutti lo imitano.
Il Don Chisciotte a quell’epoca non aveva simili da nessuna parte. Solo un secolo e mezzo dopo ci sono gli inglesi che capiscono che è importante e cominciano a imitarlo: Sterne, Fielding, anche un francese, Diderot. Borges diceva che lui aveva letto per la prima volta il Chisciotte in inglese – perché lui era bilingue – e quando l’ha letto in spagnolo ha pensato che la traduzione non era male. Perché sono stati veramente gli inglesi che hanno capito questo libro. Noi spagnoli abbiamo tardato almeno tre secoli, ammesso che lo abbiamo capito.
Quel libro non si poteva capire a quel tempo perché è un’arma di distruzione di massa contro il pensiero unico, totalitario, dogmatico. Quello che dice è: no, la verità non è soltanto una cosa. Può essere il contrario. La nostra società, dove esiste la tolleranza, senza Cervantes non esisterebbe. Questa è la letteratura impegnata che cambia veramente il mondo.
Arpaia Vorrei arrivare al tuo nuovo libro Il punto cieco. Quando ho letto Le leggi della frontiera mi è venuto in mente il principio di indeterminazione di Heisenberg: se noi consociamo bene la posizione di una particella, conosciamo male la sua velocità e viceversa. Non possiamo conoscere bene tutte e due le cose. Per quanto strano possa sembrare, la realtà subatomica è questa. Nei libri di Cercas ci sono alcune cose che non sapremo mai e non perché lui non sappia raccontarcele, ma perché la realtà è difficile da catturare e se sappiamo bene una cosa, probabilmente ce ne sfugge un’altra. E’ questo il punto cieco che secondo te sta al cuore dei grandi romanzi?
Cercas Nel cuore dei miei romanzi c’è un punto cieco come quello nello specchietto della macchina, dove non si vede. Nel centro di alcuni romanzi non si vede niente. Questo è il loro paradosso fondazionale. E’ attraverso questo punto cieco che il romanzo vede. E’ attraverso questa oscurità centrale che il romanzo ci illumina, è attraverso questo silenzio centrale che il romanzo diventa eloquente. Posso formularlo in un altro modo, più chiaro. All’inizio, nel mezzo, alcune volte alla fine di un romanzo, c’è sempre una domanda, come nei romanzi gialli: chi ha fatto questo, chi ha ammazzato? C’è una domanda centrale e tutto il romanzo è una ricerca, una risposta a quella domanda centrale.
Nel giallo alla fine abbiamo una risposta chiara: è stato il maggiordomo. Ma in questi romanzi alla fine della ricerca non c’è risposta. La risposta è che non c’è risposta, la risposta è la ricerca stessa di una risposta. La risposta è la stessa domanda, cioè il libro stesso. Nei romanzi non c’è una risposta chiara, univoca, tassativa, inequivocabile, ma una risposta ambigua, contraddittoria, poliedrica, equivoca. Alla fine chi ha la risposta è il lettore. Questa ambiguità nel romanzo moderno è centrale ed è quello che succede nei miei libri. Qual è la domanda centrale del Chisciotte? Don Chisciotte è pazzo o non è pazzo? La risposta è: sì, Don Chisciotte è completamente pazzo, ma allo stesso tempo è l’uomo più saggio del mondo.
Questo è un punto cieco, questa ambiguità centrale, questa indeterminazione centrale. Tutto il romanzo è organizzato su questo punto cieco che dà ambiguità a tutto il testo. Qual è la domanda centrale di Moby Dick: perché Achab è ossessionato con questa mostruosa balena bianca? Ne Il processo di Joseph K. di Kafka arrivano due guardiani, due funzionari e gli dicono che deve alzarsi perché è stato accusato e sarà giudicato per un crimine. Ma lui non sa cosa ha fatto, non sa quale sarà il tribunale che lo giudica e vuole sapere perché.
Alla fine arrivano altri due guardiani semi nudi, lo prendono, lo portano in un cantiere e lo ammazzano come un cane. Noi non sappiamo niente: non sappiamo che cosa ha fatto, non sappiamo perché lo ammazzano, non sappiamo che cos’è questo tribunale ed è attraverso questo non sapere che Kafka dice quello che deve dire sulla colpa e sull’innocenza.
I miei romanzi hanno tutti questa ambiguità centrale. Come Soldati di Salamina: perché quest’uomo non lo ammazza? Perché non fa quello che deve fare? Tutto il romanzo è un’inchiesta e una ricerca tramite cui si scoprono quelle verità essenziali. Il vero protagonista di un libro non è l’autore, il vero protagonista è il lettore. E’ l’ambiguità, lo spazio che crea l’autore perché il lettore possa fare suo il libro. E’ quando il lettore lo apre che quello comincia ad avere una vita. Un romanzo è soltanto una partitura, è il lettore che lo suona e se il romanzo è il Chisciotte ci sono tanti Chisciotte quanti i suoi lettori.
Virginia Woolf dice: i lettori pensano che noi siamo saggi e che sappiamo tutto, pensano che il lettore riceve la nostra saggezza in una forma passiva. Questo è falso, siamo alla stessa altezza i lettori e gli scrittori. Valery ancora di più dice che non è l’autore che fa il capolavoro ma il lettore, un lettore fanatico, attento, che è capace di scoprire nel testo cose che l’autore non è assolutamente cosciente di aver scritto. Il punto cieco pone nel centro del libro questa ambiguità totale. Non sono libri chiusi, sono libri aperti. Così Cervantes ha creato il romanzo e noi siamo tutti suoi allievi.
Arpaia Tu scrivi: “La migliore letteratura non è quella che suona a letteratura, ma quella che non suona a letteratura, vale a dire quella che suona a verità. Ogni letteratura genuina è anti letteratura”.
Cercas Sono d’accordo con me stesso. La letteratura è sempre quello che si fa contro la letteratura. Contro il canone del momento. Cervantes non era uno scrittore prestigioso per la sua epoca. Shakespeare non è stato pubblicato come letteratura, era un intrattenimento senza importanza. Per le grandi rivoluzioni letterarie è sempre stato così. Quando mi dicono: quello che fai tu non è letteratura, quello che fai è giornalismo, io dico: “Bravo, sì è esattamente questo” perché la vera letteratura non suona mai come letteratura, è un’altra cosa. Non deve essere bello, deve essere vero. Kafka non cerca la bellezza, cerca la verità (scrive Hannah Arendt in un bellissimo saggio su di lui). It rings true dicono gli inglesi. Suona la verità.
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Javier Cercas parla un italiano simpatico ma non perfetto che non ho corretto più di tanto per restituire il sapore del suo modo di esprimersi.
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JAVIER CERCAS? , NO LO CONOSCO PORQUE NO SOY UNA FANATICA COMPULSIVA. VOY A UNA LIBRERIA, MIRO, Y POR INTUICION ELIJO UNO, ME INTERESO TRATANDO DE DESCUBRIR ALGO. ALGO CHE ESTE ATADO A MI SER POR UN HILO.
NO TUVE LA OPORTUNIDAD DE ENCONTRARME CON EL.
PERO QUIERO AGREGAR ALGO SOBRE EL TEMA DE EUROPA UNIDA, HAY FACTORES QUE LO CONVIERTEN EN UN HECHO ENMARAÑADO, COMO ES TODA EUROPA, CATALUÑA SE QUIERE INDEPENDIZAR, LO MISMO PASA CON OTRAS REGIONES YA QUE EL ORIGEN Y EL IDIOMA NO LOS UNE. EL EUROPEO, EN GENERAL, NACE ESCUCHANDO UN DIALECTO o IDIOMA, QUE LO IDENTIFICA, LUEGO APRENDE EL IDIOMA NACIONAL. ESTO COMPLICA LA UNION. NOSOTROS LOS LATINO NOS ENTENDEMOS DE PUNTA A PUNTA Y POR REGIONES GRANDISIMAS. EN LOS EEUU PASA LO MISMO. EN EUROPA LA SEGUNDA LENGUA ES LA NACIONAL, COMO NOS UNIRIA UNA TERCERA LENGUA?…