L’abbiamo sempre detto, gli adattamenti cinematografici dai romanzi sono operazioni rischiose. E i passaggi da davanti a dietro la macchina da presa non lo sono da meno. Onore al merito quindi a Ewan McGregor che, alla sua prima volta da regista, si è imbarcato nell’impresa di portare sul grande schermo un romanzo importante come Pastorale Americana di Philip Roth.
Sulla figura mitologica del grande romanzo americano si dibatte, se ne parla, si indicano di volta in volta i papabili, si creano fazioni… personalmente ho delle idee molto vaghe in proposito, ma leggendo Pastorale Americana non si può negare che gli ingredienti ci siano tutti. Vicende personali, analizzate miniaturisticamente a livello psicologico, finiscono con l’intrecciarsi alla Storia e all’identità degli Stati Uniti.
La trama è tutto sommato semplice e ruota attorno a un evento dirompente che scuote nelle fondamenta la perfetta famiglia americana, spingendone i membri a mettere in discussione le loro certezze. Merry Levov, cresciuta in un idillio pastorale nel New Jersey, giunta all’adolescenza negli anni ’60, è accusata di aver messo una bomba nel locale ufficio postale, uccidendo un innocente. Bring the war home recitavano gli slogan estremisti contro la guerra del Vietnam che lei ha apparentemente messo in pratica. L’atto, l’accusa e la fuga, ma soprattutto il dubbio sulla sua colpevolezza, spezzano brutalmente la famiglia. Una coppia da copertina, i suoi genitori, formata da Dawn, ex Miss New Jersey 1949, e Seymour detto lo Svedese, eroe sportivo locale ai tempi della scuola e poi erede della fabbrica di guanti del padre (guarda il trailer).
Il film segue l’andamento del romanzo in modo fedele, ovviamente sfoltendo le mille digressioni di Roth che mescola liberamente le voci narranti. La sottigliezza del romanzo è nel progressivo scivolare dei piani.
McGregor sceglie di lasciar emergere la voce narrante di tanto in tanto (nel film affidata a volto e voice over di David Strathairn, già protagonista di Good Night, and Good Luck). Così che l’ambiguità narrativa del romanzo venga di fatto annullata, a favore di una lettura più lineare. Certo un film ha esigenze narrative e stilistiche diverse da un romanzo, ma il nodo critico dell’adattamento di un testo come Pastorale americana è in fondo tutto qui. Ewan McGregor lascia quindi che siano le immagini a sviscerare la psiche dei personaggi, forte di una fotografia avvolgente e di movimenti di camera misurati. Il trascorrere degli eventi storici che fanno da sfondo sempre più presente nelle vite dei Levov, viene reso attraverso frammenti di filmati d’epoca. Storia e storia privata vengono così distinte visivamente in maniera chiara e scandite temporalmente.
La struttura del film è circolare, si apre e chiude con il presente, dando un finale definitivo, ben diverso dal romanzo. Al centro si dipana il dramma dello Svedese, a partire dall’idillico inizio della sua vita di padre di famiglia. A scenari aperti e luminosi man mano si contrappongono interni e notturni. L’oscurità dell’avversione della figlia verso il loro stile di vita, l’indottrinamento testardo che non ascolta ragioni, corrispondono al buio assoluto che s’intravede oltre le finestre della casa in pietra. Il balbettio della piccola Merry diventa un mitragliare giudizi violenti e aggressivi nell’adolescente (interpretata alla perfezione da Dakota Fanning).
La spirale in cui lo Svedese e sua moglie Dawn finiscono per precipitare, trascinati da una figlia tanto amata quanto respingente, ha quindi un punto di non ritorno nell’esplosione. Da quel momento cominciano prima il rifiuto, poi il senso di colpa, quindi le mille domande. Dov’è lei? È colpevole? Come ha potuto fare questo? Come ha potuto farci questo?.
Lo Svedese, animo buono, generoso, ragionevole, semplice, anche se “la semplicità non è mai semplice”, il “ragazzo posato e impassibile” finisce con l’avere un brusco risveglio alla realtà. “Aveva imparato la lezione peggiore che la vita possa insegnare: che non c’è un senso” scrive Roth con disperante cinismo. E in effetti, per quanto ci provi lo Svedese non riesce a conciliare i ricordi teneri della piccola Merry con un omicidio. Dawn da canto suo, già rifiutata dalla figlia in piena ribellione adolescenziale, finisce con il torturarsi fino a sfiorare la pazzia.
Nel film la vediamo sfilare nuda fra le macchine da cucire della fabbrica di guanti del marito, la fascia da miss sopra la bellezza abbagliante di Jennifer Connelly che le dà volto con la consueta sensibilità. Ricoverata in ospedale psichiatrico accusa spietatamente il marito di averla portata a quel punto sposandola, salvo poi implorarlo di non andarsene. E lo Svedese resiste come può. La faccia da bravo ragazzo di Ewan McGregor, protagonista oltre che regista, si stropiccia, lo sguardo sempre più spalancato sull’orrore, smarrito e disperato.
Dopo una prima metà che procede snella, il film pare subire un contraccolpo. I salti temporali aumentano, le vicissitudini storiche e private si alternano senza un senso apparente, perché lo Svedese vede tutto attraverso il filtro del suo dolore. E la conclusione accentua la drammaticità del romanzo, pur senza mai esagerare.
Il pregio maggiore di questo film, e il suo difetto più grande, è l’aver voluto normalizzare il materiale di partenza. L’accenno edipico al legame padre-figlia è ammorbidito per lo spettatore. Così come tutto quello che potrebbe turbare eccessivamente le platee è trattato con grande garbo, senza mai indulgere nel disturbante. Il risultato è un film elegante, coinvolgente, che fa riflettere sul dramma del conflitto intergenerazionale quando assume contorni violenti e sul dramma ancora maggiore delle tragedie che talvolta colpiscono in maniera inspiegabile.
Un debutto di lusso per Ewan McGregor insomma, che ha inseguito questo progetto per anni. Forse il suo essere uno scozzese negli Stati Uniti gli ha permesso di rendere questo romanzo così americano, accessibile a tutte le platee. Nessuna minuzia nostalgica di troppo, nessun prendere posizione. McGregor mostra il dramma nella sua essenza universale e al tempo stesso storicamente e geograficamente radicata, in un adattamento estremamente rispettoso e insieme infedele.
“La vita è solo un breve periodo di tempo nel quale sei vivo” aveva scritto Merry a undici anni: nessun senso, nessun piano ordinato. E la punta di speranza tardiva che il regista imprime al film forse è, anche se apparentemente incongruente, un’ulteriore adesione alla visione dello scrittore.