A chi di questi tempi post umani verrebbe in mente di ripristinare l’apartheid e lo schiavismo in seno alla società occidentale? Di certo sarebbe un proposito umanamente inaccettabile e culturalmente retrò. Forse per questo poteva venire in mente solo a uno scrittore afroamericano farne il soggetto di un romanzo folle, meraviglioso, succulento come l’ha definito il Financial Times.
Ormai anche nella narrativa sono finiti (finalmente) i tempi del politicamente corretto e così Paul Beatty si è permesso di scrivere la più lacerante satira americana degli ultimi anni (The Guardian). Una satira talmente profonda e stimolante da meritare il Man Booker Prize 2016, primo scrittore statunitense a averlo ricevuto (proprio mentre io lo stavo leggendo… ).
Certo fa uno strano effetto aver letto questo romanzo durante la campagna per le presidenziali USA, e ancor più averlo finito qualche giorno dopo la vittoria del tycoon Trump. Non per l’esito elettorale, ma piuttosto per gli aspetti della società nord americana di cui Beatty racconta in maniera divertente e con la sincerità autentica di chi vive le situazioni di cui parla, senza fare sconti a nessuno.
Scrivere un romanzo su tematiche come la razza, la giustizia sociale e la vita urbana è una sfida niente male anche per il protagonista, giovane afroamericano di cui non sappiamo il nome, solo il soprannome Bonbon con cui lo chiama la sua amante Marpessa.
Per Bonbon la vita è stata dura da sempre. Nato a Dickens, cittadina ghetto alla periferia di Los Angeles che vanta il tasso di criminalità più alto al mondo, Bonbon è destinato alla vita sfigata di un nero della lower-middle-class.
Cresciuto da un padre single, sociologo controverso e velleitario, filosofo della libertà dei neri, Bonbon viene sottoposto dallo stesso padre a diversi esperimenti di sociologia applicata. Giusto per darvi l’idea: all’età di sette mesi il padre lo piazzava nella culla piena di macchine giocattolo della polizia, lattine di birra fredde, spille per la campagna presidenziale di Richard Nixon e una copia dell’Economist, per poi spaventarlo con raffiche di proiettili .38 Special, sparate contro il soffitto, urlando: “Negro, tornatene in Africa!”.
Il tutto per dimostrare che nei bambini la paura è un comportamento acquisito secondo la teoria dei comportamentisti Watson e Rayner. Risultato: Bonbon non riesce a guardare un poliziesco neppure di serie B, ha una strana affinità con Neil Young e quando non riesce a dormire non conta le pecore, ma ascolta i nastri del Watergate.
Viene il sospetto che dietro i bizzarri comportamenti paterni si nasconda un insegnamento ben più profondo. Come far cadere le illusioni del figlio sul razzismo. Perché nonostante tutto è evidente che negli States la razza è ancora una discriminante forte. E quando il povero Bonbon osa dichiarare solennemente che in America il razzismo non esiste, ecco che il padre lo carica in macchina e lo guida in un viaggio iniziatico negli stati del profondo sud.
Che il padre di Bonbon credesse fermamente nell’emancipazione intellettuale della sua razza, lo dimostra il fatto che avesse fondato il Dum Dum Donut Intellectuals, vero e proprio think tank del ghetto. Qui era noto come “l’Uomo che sussurrava ai negri”. Ogni volta che c’era da convincere un negro che “era andato fuori da quella testa di cazzo che si ritrovava” a scendere giù da un albero o da un viadotto autostradale da cui minacciava di buttarsi, il padre piombava sul posto portandosi dietro il buon Bonbon e la bibbia della psicologia sociale. Ma durante uno di quei tentativi di persuasione da buon samaritano nero, incidentalmente viene ucciso dalla polizia.
Lascia in eredità a Bonbon una fattoria di due acri (vale a dire, nemmeno un ettaro di terra) che la banca si mangerà, due sparuti animali da governare, il lascito morale e intellettuale dei Dum Dum Donut, l’ossessione per gli esperimenti e, soprattutto, il compito di continuare a sussurrare ai negri.
Il ragazzo sarà all’altezza?
Tutto ciò che riuscirà a fare sarà salvare dal maldestro tentativo di suicidio il personaggio più illustre di Dickens, un negro di nome Hominy Jenkins, noto per aver recitato nella famosa serie della Metro Golden Mayer Our gang (Simpatiche canaglie) e ormai caduto in totale, nera disgrazia.
Col salvataggio di Jenkins la storia si fa più intensa e Paul Beatty ci da’ dentro sul serio. L’ex attore si offre come schiavo a Bonbon. Troppo sfaticato per lavorare come ogni schiavo che si rispetti, implora il badrone di frustarlo quotidianamente sulla schiena. Compito cui Bonbon non si sottrae e che lo condurrà poi davanti alla Corte Suprema con l’accusa di crimini contro l’umanità. Sono intuibili le implicazioni meta letterarie di un tale rapporto.
L’altro episodio esplosivo che da’ propulsione alla storia è la ‘morte’ di Dickens. Cinque anni dopo la morte del padre, la cittadina viene inghiottita dal mostro urbano Los Angeles, il cartello di benvenuto divelto, e il nome Dickens cancellato dalla carta geografica. Ormai nel quartiere ci sono più messicani che neri: è il culmine dell’opera di omologazione sociale in cui i bianchi fanno i neri e i neri i bianchi.
Ormai essere neri non è più come una volta. Quindi cosa rimane da fare per salvare il salvabile della razza?
La pensata di Bonbon è di quelle talmente folli da parere geniali. Con l’aiuto del fido neo schiavo Hominy riposiziona il cartello di benvenuti a Dickens, ridipinge i vecchi confini del ghetto come si delinearebbero i contorni di una identità perduta, e soprattutto introduce la discriminizazione razziale al contrario. Vanno in ristoranti, in saloni di bellezza, persino nell’ospedale di Dickens e appendono il fatidico cartello con la scritta “RISERVATO ALLE PERSONE DI COLORE”. Modificano gli orari della Biblioteca pubblica in modo che bianchi e neri ne usufruiscano in giorni differenti. Ciliegina sulla torta è l’invenzione della Wheaton Accademy, l’unica scuola in cui i bianchi non sono ammessi.
Grazie all’audacia di Paul Beatty, Lo schiavista non ci fa mancare colpi di scena, anche sentimentali, feroci attacchi al pregiudizio della razza (i messicani sono di colore o sono bianchi?), paradossi di cui il povero Bonbon rimane vittima. Lui è un Davide perdente, vittima di se stesso e delle ossessioni paterne, delle domande senza risposta sull’ingiustizia sociale. Ma in fondo, voi credereste a un nero del ghetto di Dickens, Los Angeles, California, che dice di non aver mai rubato niente, né evaso le tasse o barato a carte, di non essere mai entrato al cinema a scrocco e non aver mai mancato di ridare il resto in eccesso a un cassiere di supermercato?
Forse Stephen King, dopo aver letto alcune pagine di questo pregevole libro, esclamerebbe una delle sue frasi tipo: “Non ce la faccio a leggere questa puttanata intellettualoide di sinistra (highbrow liberal crap)”. Temo di avere gli stessi gusti di Stephen King…. Dio mi perdoni e, soprattutto, mi perdonino i gentlemen del “Financial Times”, di “The Guardian” e Camilla Parker Bowles, madrina del “The Man Booker Prize”.