Frontiera. Luogo di incontri, di scambi, di passaggi. Luogo di cavalli e di meticci.
Margine in cui ci si può rifugiare per riflettere sulla propria esistenza o cominciare una nuova vita. Luogo della fuga come dell’apparente immobilità. Luogo del possibile, in cui a volte il soffio del vento è un respiro magico. Non un muro di pietre e filo spinato ma un guado di un palmo d’acqua. La frontiera ha le sue regole, spesso diverse da quelle normali. Regole tacite, ma anche spietate.
La frontiera di Percival Everett è quella del west, della California odierna, ai piedi delle Montagne Rocciose. Qui sopravvive il fascino malinconico della natura che resiste selvaggia, di cowboy dai modi sempre ruvidi e spicci, di donne silenziosamente sagge o ribelli all’arida realtà della frontiera, almeno in apparenza.
Tutto è sincero nella scrittura essenziale e diretta di Percival Everett. Un registro così diverso rispetto alle narrazioni precedenti a conferma dell’ecletticità di Everett (leggi anche qui).
Solo Ferito, romanzo ambientato nel profondo e gelido Wyoming, si avvicina a questi nove racconti limpidi come acqua calma, come se la realtà procedesse veramente così come l’autore la scrive In un palmo d’acqua. Ma se a volte la realtà è proprio quella che appare, altre volte l’invisibile si manifesta imprevedibilmente per poi diradarsi come nebbia nel deserto.
Natura, cavalli e invisibile. Sono i perni di questa raccolta che, sebbene sia di racconti, ha una sua circolarità interna. E non solo perché taluni personaggi ritornano in diversi racconti.
La natura è la protagonista indiscussa, secondo la migliore tradizione western.
Mai semplice scenario, ricorda all’uomo che è solo parte di essa e non padrone. Come nel primo racconto Un po’ di fede che sintetizza lo spirito della raccolta. Parole scabre come gli altopiani che il veterinario Sam attraversa alla ricerca di una bambina pellerossa, smarritasi tra le montagne. Un breve viaggio durante il quale un tocco di magia sciamana metterà in comunicazione il mondo dei vivi con quello dei morti. L’invisibile squarcia così il velo della realtà.
In questi racconti Everett rivela la propria maestria interiore – prima ancora che di scrittore – nell’evitare la trappola banale della metafora. La ricerca della bambina da parte di Sam potrebbe essere letta anche come la ricerca di se stesso. Potrebbe. Eppure ho la sensazione che Everett non abbia scritto con questa intenzione.
Tutto è fuor di metafora. Anche il sogno che accompagna Norma Snow nel suo ultimo viaggio, o la cattura da parte di Daniel di una trota enorme che non avrebbe dovuto trovarsi nel torrente gelato, con una canna troppo piccola per un pesce così grande, e un’esca raffazzonata che la trota non avrebbe dovuto degnare di uno sguardo. In fondo lui è un quattordicenne che voleva trascorrere una notte in tenda, sotto le stelle che si tramutano in fiocchi di neve, per sfuggire all’asfissiante presenza dei genitori, convinti che dopo la morte della sorella, Daniel abbia bisogno di una terapia psicologica, mentre lui non vuole altro che essere lasciato in pace e vivere nel silenzio il ricordo doloroso della sorella maggiore.
Ecco, è come se Everett volesse dirci che le vicende della vita vanno vissute con naturalezza, senza la necessità di aggiungere interpretazioni personali o altre sovrastrutture. In questo la natura è maestra.
“I cavalli sono onesti. Non tradiscono, non mentono, non ti fanno male”.
Questa frase, nel racconto Direzione sbagliata, suona come una conferma a quanto appena scritto. Ecco perché piacciono a Jack, istruttore ippico, protagonista del racconto. Il cavallo è la fedele presenza nella vita di frontiera di Everett. Dove il meticciato è mescolanza di anime più che di etnie, condivisione più che vita solitaria, e coinvolge uomini, montagne, foreste, laghi, cavalli.
Ne emerge un quadro corale, lontano da ogni mitizzazione western. Siate come i cavalli sembra dirci Everett, onesti e compassionevoli ma con la consapevolezza che la realtà è anche sogno, magia e mistero. E che tutto dura un soffio di vento.