Quando leggi un romanzo giallo, o guardi un thriller a volte ti dici: “No, questo non sta né in cielo, né in terra!” Come si fa ad essere verosimili quando si scrive un giallo? Per scoprirlo l’Ewwa, l’associazione delle scrittrici europee, ha radunato un gruppetto di esperti e organizzato un Workshop sul giallo. Tra questi c’è Antonio Del Greco, ex dirigente della Omicidi e della squadra mobile di Roma, si è occupato del delitto di via Poma, del Canaro e della Banda della Magliana. E’ stato tra l’altro consulente per serie tv come Distretto di Polizia, La squadra e Ris.
La prima cosa che mi dà fastidio nel vedere un interrogatorio è il poliziotto che parla e racconta all’interrogato come sono andati i fatti. E’ una cosa assurda che non si deve fare, anche perché la realtà la conoscono solo la vittima e l’assassino, perciò se ti sbagli, quello capisce che non sai cos’è successo. Quindi meno parli e meglio è.
Devi fare credere che tu sappia, però non devi dire niente. Capisco l’esigenza televisiva che qualcuno racconti la storia, ma dovrebbe essere l’indagato a farlo. Altre cose incredibili sono i grilletti alzati, o le pistole puntate contro i colleghi al momento di un’irruzione. La pistola va sempre puntata verso l’alto.
Comunque a proposito di verosimiglianza talvolta la realtà supera la fantasia. Tantissimi anni fa mi sono occupato di un caso in cui un gruppo di criminali che veniva dalla Francia decise di far evadere il proprio capo che era stato casualmente catturato a Roma. Poi scoprimmo che la sua cattura era dovuta al fatto di prendere contatti con un detenuto e poi evadere insieme a lui. Loro fecero un’irruzione nell’ospedale San Camillo dove si trovava il pilota dell’eliambulanza. Era una domenica mattina di novembre. Una giornata piovosa. Nel gabbiotto c’era il pilota che quel giorno aveva deciso di portarsi dietro il bambino, promettendogli che nel caso avesse fatto qualche intervento, lo avrebbe portato sull’elicottero in giro per Roma. Giorno sbagliato. Fecero irruzione quattro persone tutte vestite di nero e incappucciate. Con le armi alla mano, costrinsero il pilota a prendere l’elicottero e, sorpresi dalla presenza del bambino, lo legarono con le manette a un termosifone. Uno dei quattro rimase lì, dicendo al padre che qualsiasi cosa avesse fatto contro di loro, lo avrebbero ucciso. Quindi lo costrinsero a decollare verso il carcere di Rebibbia. Una volta sul carcere, l’elicottero scese sorprendendo gli agenti di custodia di servizio alle torrette. In quel momento c’era l’ora d’aria e tutti i detenuti erano fuori, anche se pioveva. Videro arrivare questo elicottero che piano piano stava scendendo. Gli agenti pensarono: si è sentito male qualcuno? Ci fu un attimo di smarrimento fino a quando non si aprì il portellone e qualcuno cominciò a sparare a raffica contro le torrette. Contemporaneamente fu calata una fune e due persone e poi un terzo salirono sulla fune, mentre continuavano a sparare agli agenti di custodia. Due riuscirono a salire, il terzo rimase per un po’ aggrappato, poi cadde giù e l’elicottero riprese il volo. Volò verso la periferia di Roma per poi atterrare su un campo di calcio dove era in corso una partita fra ragazzini, con tanto di pubblico. Anche in quel caso si aprì il portellone e fecero fuoco sul pubblico. C’era gente che scappava da tutte le parti, feriti. L’elicottero atterra, scende il gruppo con gli evasi, salgono a bordo di una macchina che dopo neanche cinquecento metri, nel quartiere Tuscolano, va a sbattere contro un’altra autovettura ferendo l’autista.
Scendono tutti armati. Fermano un’altra macchina, ci salgono e se ne vanno, facendo perdere le loro tracce. L’indagine, iniziata in maniera così spettacolare si è conclusa poi con la cattura altrettanto spettacolare a Parigi. Sono stati stanati da un elicottero della polizia che ha recuperato tutto il bottino di dieci anni di rapine, nascosto nelle pareti della casa. Questo, dopo che abbiamo passato la settimana di Natale con cannocchiali e intercettazioni telefoniche, a casa di una signora francese che abitava proprio di fronte all’abitazione dei banditi. Ma la nostra attività non è fatta solo di corse, pazzie e inseguimenti. L’attività principale del poliziotto avviene in ufficio e consiste nel raccogliere tutti i verbali, metterli insieme, quindi andare a cercare le discordanze e approfondirle. Poi c’è l’azione, la conclusione che talvolta può essere spettacolare. Ma meno spettacolare è e meglio è perché se non si fa ricorso alle armi vuol dire che l’operazione è stata condotta bene. Se invece un poliziotto o il bandito sparano vuol dire che l’operazione è stata fatta male.
Massimo Lugli cronista e scrittore, collaboratore de La Repubblica dice che quando si scrive un racconto, un romanzo, o una sceneggiatura, per prima cosa bisogna essere plausibili. In letteratura ci può essere una cover, si può copiare, ad esempio lui ha copiato Breaking Bad in un romanzo, ma l’importante è documentarsi bene. Lugli si è iscritto al poligono di tiro per vedere come si spara e ha imparato che il revolver non è una semi automatica e che non si inceppa. D’altro canto la realtà da sola non basta altrimenti ogni poliziotto sarebbe un magnifico autore di gialli.
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Anna Maria Anselmi, avvocato penalista specializzato in criminologia.
All’inizio degli anni Novanta, quando scrivevo: “specializzata in diritto penale e criminologia” veramente la criminologia non la conosceva nessuno. Adesso se ne parla da tutte le parti. Io sono diventata avvocato e nel ’95 ho seguito Francesco Nuvoli, un giovane di 15 anni. Siamo in Sardegna. Lui è figlio di un bandito sardo. Sappiate che fra i banditi sardi non ci sono pentiti e già questo fa riflettere. All’epoca era in carcere a Venezia perché implicato nel rapimento di Farouk. Questo ragazzo, Francesco, aveva un attaccamento morboso nei confronti della mamma e il papà l’aveva abbandonata per una donna più giovane, una ragazza polacca con la quale era andato a vivere e avevano avuto anche un bambino. Nella sua mente è scattata l’idea di vendicare la mamma. Quindi si è presentato a casa della ragazza polacca, insieme ad un suo amico di 16 anni e l’hanno uccisa decapitandola. Lui mi ha descritto come ha fatto e mi ha raccontato che la voce usciva fino all’ultimo momento, dicendo: “Francesco, no, no”, fino a quando non le ha decapitato completamente la testa. Poi l’ha messa in un sacchetto, l’ha portata alla mamma per fargliela vedere e la mamma non ha battuto ciglio e anzi gli ha detto: “Va bene, adesso che me l’hai fatta vedere, buttala”. Questo è stato l’inizio. Dal ‘95 ad oggi ho seguito tantissimi casi giudiziari, omicidi ma anche e soprattutto violenze. Poi ci sono i truffatori che sono una categoria molto simpatica che pure possono interessare chi scrive gialli perché sono molto intelligenti e nel momento in cui mettono in atto la loro truffa credono davvero di essere quella persona. Ad esempio uno fingeva di essere un commercialista e ha fatto il commercialista per tanti anni. Poi si è scoperto che non lo era, però durante il processo venivano tutte le persone da lui “offese” a dire: “Ma è una bravissima persona!”, “Mi ha fatto tanto del bene, è stato vicino a mia madre”. Aveva tolto soldi a tutti – a chi centomila, a chi trentamila, a chi quarantamila – però era tanto una brava persona.
Le teorie in criminologia sono due. Quella che prevede l’esistenza di un criminale nato, teoria che viene da Lombroso e adesso si sta rivalutando. Dice: i criminali saranno sempre criminali. Pensiamo a Pietro Maso che dopo 25 anni di carcere, appena uscito, le prime parole che ha detto sono: “Devo finire il lavoro che ho cominciato 25 anni fa”. Ci sono anche prove scientifiche che la confermano. Quando noi abbiamo un incidente e battiamo la testa, o prendiamo un colpo al cervello, o c’è un’emorragia cerebrale che tocca determinate parti del cervello, spesso non si è più come prima. Un caso eclatante fu quello di un muratore studiato da Adrian Raine, che era una persona amabile, dedita alla famiglia e al lavoro. Cadde dall’impalcatura e un palo gli entrò nella testa senza però toccare le parti vitali. Dopo divenne un uomo violento, dedito all’alcol, abbandonò la famiglia e compì diversi omicidi. In certi casi il criminale non si può recuperare. Ad esempio una categoria di irrecuperabili sono i pedofili: non si recuperano quasi mai. Comunque i violenti sono per la maggior parte uomini, in tutte le categorie, in tutte le latitudini del mondo.
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Io non leggo romanzi gialli perché leggo i verbali, ma non c’è molta verosimiglianza nelle fiction che ci fanno vedere. Ad esempio non c’è mai stata una confessione in udienza. Tutti dicono di essere innocenti o quanto meno la confessione non si verifica in udienza. Poi, il serial killer rappresentato attraverso i gialli è quello che lascia l’impronta, ma in Italia l’unico esempio di impronta lasciato da un serial killer è il seno sinistro tagliato dal mostro di Firenze. In tutti gli altri casi, come ad esempio Stevanin l’assassino delle prostitute che le legava col filo del telefono, era solo che utilizzava per legarle quello che si trovava più vicino. Inutile quindi andare a cercare fra tutti gli elettricisti… però questa morbosità dell’impronta piace. Il serial killer, dal primo omicidio all’ultimo, diventa sempre più bravo e affina la sua tecnica. Ma il ripetersi dei suoi attacchi fa sì che lasci sempre più tracce. Se io uccido una persona e ci metto cinque secondi a ucciderla e uscire di casa, lascio pochissime tracce, ma se ci metto mezz’ora, o un’ora, ne lascerò tante. Pensate solo a quanti capelli perdiamo. Bisogna tener presente che l’omicida non si comporta con la vittima in modo diverso da come si comporta nella vita normale, per cui se io sono uno psicopatico, dopo aver ucciso la persona inizierò a mettere a posto tutto quanto, se ho la fobia della pulizia mi laverò le mani. La scena del crimine è l’anello di congiunzione tra la vittima e il reo. Certo oggi con l’esame del DNA è tutto facilitato però non sempre è possibile prenderlo. La scena del crimine non è mai pura e ci vengono lasciati tantissimi DNA.
La seconda teoria è quella che dice che il criminale non nasce criminale ma viene influenzato e ci diventa sia per l’educazione, sia per gli effetti ambientali, sia per la casualità. Ad esempio c’è l’uomo da un solo delitto.
E il Canaro è uno di questi. Del Greco ci racconta l’interessante interrogatorio con cui sono riusciti a stanarlo. Il Canaro era un ometto molto mansueto che aveva paura pure dell’aria che respirava e che a un certo punto, come in Schegge di paura, ha cambiato voce terrorizzandoli. Questo probabilmente lo troverete in Città a mano armata, il libro che ha scritto insieme a Massimo Lugli.
“Se penso ai casi che ci hanno appassionato negli ultimi anni” dice Lugli, “Parolisi, Padre Graziano, Avetrana, Garlasco, nessuno in questi casi è un criminale, è questo che ci affascina. Quello ce ci piace da morire è la parte oscura che è in tutti noi. Un personaggio totalmente negativo non riuscirebbe a conquistarci”.
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Rosanna Cecchi dirige l’Istituto di Medicina Legale di Parma.
Quando decisi di fare Medicina Legale, nel 1986, tutti mi chiedevano cosa fosse. Oggi, quando lo dico, divento subito il centro dell’attenzione. Ormai siamo di moda. Noi interveniamo ogni volta che c’è una morte che non è naturale, una morte violenta. Nelle fiction e nei film, il medico legale appare sempre marginale mentre è una figura essenziale. Le indagini vanno bene quando il sopralluogo viene fatto direttamente. Noi come patologi forensi chiediamo di essere chiamati al sopralluogo ma non sempre questo avviene. Il sopralluogo parla e dice moltissime cose. A proposito di verosimiglianza, stabilire l’ora della morte non è per niente facile e non si può indicare un’ora precisa ma un lasso di tempo. Se poi c’è una finestra aperta non abbiamo più niente da dire perché noi possiamo calcolare l’epoca della morte attraverso la temperatura corporea, solo se questa non è stata modificata.
Io trovo affascinante il corpo umano, la sua perfezione. Il buon patologo forense è quello che ama il cadavere. Io non posso lavorare col cadavere se non lo amo. O lo si ama, o lo si rigetta. Bisogna avere la passione del cadavere e questa l’acquisti nel momento in cui ti rendi conto che il cadavere parla. Proprio come il sopralluogo. Il problema è imparare il suo linguaggio. Secondo me in un romanzo bisognerebbe rendere la bellezza dell’incontro tra il patologo forense con il suo cadavere e il dialogo intimo e nascosto che si realizza. Tu gli chiedi: “Ma che cosa è successo?” e lui sicuramente ti risponde… ma tu devi essere bravo a parlarci.
Poi nel pomeriggio c’è Augusto Bruni con la lezione su come si scrive un giallo. Grazie Ewwa per questo interessante seminario!
Buongiorno, potreste menzionare l’illustratore?
Certo, ma non riesco a trovarlo da nessuna parte. Ho anche fatto una ricerca per immagini su Google… mi risulta che provenga da una rivista di Boston… il Boston Magazine. Per caso sei tu? Oppure sai di chi si tratta?