Si è concluso ieri sera il 74° Festival del Cinema di Venezia con il Leone d’Oro assegnato a The Shape of Water del regista messicano Guillermo del Toro. Per la prima volta un fantasy vince la Biennale.
Dalla nostra inviata Marzia Flamini
I festival cinematografici sono un ottimo polso della cultura e delle questioni dominanti di un’epoca. Riunendo opere tra mainstream e arte realizzate nei paesi più disparati, rappresentano un’occasione unica per capire dove soffia il vento. Osservatore critico come ogni arte, il cinema ha inoltre il pregio di poter raggiungere un’audience più ampia di altri media. Un festival è quindi quanto di più rivelatore e stimolante per chi è interessato a capire il presente. A maggior ragione quando si tratta del più antico festival cinematografico al mondo, nonché quello dove negli ultimi anni sono stati presentati film destinati a vincere il premio più ambito, il Leone d’Oro.
La 74° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ha già vinto la sua sfida contro altri festival (Toronto in primis), aggiudicandosi diverse prèmiere ambite. Inoltre, come ogni anno, per caso o per sapienza dei selezionatori, ha mostrato un tema ricorrente particolarmente significativo: la maternità (e la genitorialità) come metro per misurare la maturità della civiltà. Una maternità osteggiata, rifiutata, brutalizzata, messa da parte per rivendicare una propria individualità rifiutando ogni ricatto affettivo, si confronta con una società che appare come moralmente perdente.
Fa riflettere che l’esposizione più interessante in corso a Venezia, a parte la Biennale, sia quella di Damien Hirst nella doppia sede di Palazzo Grassi e Punta della Dogana. Basata su una fake story che strizza l’occhio al pubblico con ironia e smaliziata furberia, s’intitola significativamente Treasures from the Shipwreck of the Incredible (Tesori dal naufragio dell’Incredibile). Naufragio della società, sia esso in una mostra o in un film. Fortunatamente però l’Arte è matura abbastanza da attivare sani anticorpi, smascherare le fragilità della collettività e spingerla a una fruttuosa riflessione, fornendole al tempo stesso un intrattenimento di qualità.
Ecco quindi il meglio di questo festival, senza però considerare due film presentati in apertura che purtroppo non abbiamo avuto modo di vedere per voi, ma che per le strade del Lido sono stati nominati fra i migliori: Downsizing di Alexander Payne e The Shape of Water di Guillermo del Toro.

Il podio dei film che abbiamo più apprezzato
- Tre manifesti a Ebbing, Missouri (Three Billboards outside Ebbing, Missouri) di Martin McDonagh
Mescolando dramma e battute al vetriolo, è un noir sui generis, violento e politicamente scorretto. La brillante sceneggiatura di McDonagh (In Bruges) sfida i cliché del genere, mantenendo un ottimo ritmo dall’inizio alla disincantata fine. Frances McDormand brilla in un ruolo scritto apposta per lei, dando profonda umanità e complessità alla sua Mildred, una madre che non si rassegna al lutto per una figlia stuprata e bruciata viva nella tranquilla cittadina di Ebbing. Caparbia, lavoratrice sempre in tuta e bandana, sfida con i tre manifesti del titolo, lo sceriffo, incapace di trovare l’assassino. Il suo desiderio di giustizia, perseguito a ogni costo, da inizio a una serie di ritorsioni disastrose che coinvolgono metà paese. Amaro e ironico insieme, con un cast in forma smagliante e personaggi tridimensionali, colpisce nel segno e reclama premi per la sua protagonista.

- Ella & John (The Leisure Seeker) di Paolo Virzì
Dopo La pazza gioia un nuovo film on the road per Virzì, stavolta ambientato nella patria del genere, gli USA. Protagonisti due anziani coniugi: Ella, vivace chiacchierona con un cancro terminale, e John, la cui memoria perde colpi tranne che per la gelosia e le citazioni di Hemingway e Joyce. Con una regia delicata e una sceneggiatura lineare, costellata però di guizzi personali, Virzì guida il suo primo film internazionale concedendosi il lusso di dirigere due mostri sacri come Helen Mirren e uno strepitoso Donald Sutherland. Commovente e leggero come solo Virzì sa essere.
- Sweet Country di Warwick Thornton (Premio speciale della giuria)
Un western vecchio stile dove la trama, tutto sommato semplice, si riveste di significati più profondi grazie a regia e recitazione intense e asciutte. Nella tosta ma bellissima Australia, un aborigeno al servizio di un pio uomo di frontiera (un sempre grande Sam Neill) si ritrova a dover fuggire con la moglie dopo aver ucciso, per difenderla, un brutale allevatore. Senza nessuna indulgenza, ma con grande umanità, Thornton sviluppa il film con i tempi e la tensione giusti, mostrando le colpe dei bianchi nei rapporti con gli aborigeni. L’Australia potrebbe essere uno sweet country, ma sono il razzismo e la violenza a impedirlo… Magistrale esempio di come si possa fare un film politico senza nessun apparente legame con il presente.
Il film o lo ami o lo odi
Mother! di Darren Aronofsky
Aronofsky firma una pellicola che è un lungo incubo e un’allegoria insieme. La prima parte, costruita come un thriller claustrofobico con venature horror, tiene lo spettatore incollato alla poltrona, con il perturbante che s’insinua con ritmo crescente. Poi la vena visionaria del regista (o qualche psicotropo di dubbia efficacia) prende il sopravvento, trasformando l’interessante e originale incrocio di Rosemary’s Baby, Crimson Peak e Hitchcock in una sequela splatter di allegorie biblico-cristologiche, messe in scena come se fosse un nuovo capitolo di Dal tramonto all’alba. Il cast eccellente (menzione speciale per Michelle Pfeiffer in un ruolo minore ma affatto banale) e la fine circolare purtroppo non salvano l’insieme.
I documentari
- My Generation di David Batty
Usando la voce e il carisma di un grande attore come Michael Caine, Batty costruisce un documentario che ripercorre gli anni ’60 in Inghilterra. Centro di un radicale cambiamento storico-sociale nato nelle professioni creative, la Swinging London fu un crogiuolo irresistibile perfettamente incarnato nella carriera di Caine. Working class man, cockney (londinese doc), si ritrovò giovane, bello e famoso a conoscere tutti i protagonisti di quell’epoca. Dialogando con amici come Twiggy, Paul McCartney, Roger Daltrey, Marianne Faithfull e David Bailey, Caine ripensa a quegli anni. Colonna sonora travolgente e studiatissima, montaggio sapiente e regia intelligente creano un ritratto di un’epoca che non è solo nostalgico ma vivo e spunto di riflessione sul presente.
- EX LIBRIS – The New York Public Library di Frederick Wiseman
Può un’istituzione apparentemente “antica” e tradizionale come una biblioteca pubblica svolgere ancora una funzione attiva nella società? La NYPL, ovvero la grande biblioteca di New York, diffusa sul territorio e centro di programmi fitti e di qualità, pare rispondere affermativamente nel documentario del veterano Wiseman. Educare ed coinvolgere, creare cultura diffondendola, senza lasciarsi intimidire dalla tecnologia ma sfruttandola per svolgere la propria missione, il tutto grazie a un circolo virtuoso di partenariato pubblico-privato. Spoglio e con una durata proibitiva (ben 197’!) questo documentario è però stimolante testimonianza di gestione culturale virtuosa.

Altre culture – Giappone e Israele
Particolarmente interessanti quest’anno i titoli giapponesi: La nuit où j’ai nagé (Oyogisuita yoru) girato a quattro mani da Damien Manivel e Igarashi Kohei, presentato nella sezione Orizzonti, racconta la giornata particolare di un bambino che marina la scuola per cercare di raggiungere il padre al lavoro e portargli il disegno che ha fatto per lui. Un film tenero e delicato, completamente senza dialoghi, fatto di piccole scoperte e incidenti. Al contrario, The Third Murder (Sandome No Satsujin) di Kore-eda Hirozaku è un interessante legal drama che ha il merito di concentrarsi sul valore morale delle azioni dei personaggi. Sfruttando una recitazione misurata, affatto scontata per un film giapponese, segue l’indagine dell’avvocato protagonista finché non appare chiaro che le motivazioni contano più della realtà dei fatti.

Di grande spessore i film israeliani, a partire da Foxtrot di Samuel Maoz (Gran premio della giuria): con eleganza formale e una fotografia curata e rivelatrice, adotta un passo lento e claustrofobico non disdegnando momenti surreali per raccontare un lutto annunciato, smentito e poi subito. Amaro e rassegnato ritratto in negativo di una società dominata dall’impotenza contro un destino inesorabile, simboleggiato da riprese dall’alto che ingabbiano i personaggi. Più combattivo The Testament (Ha Edut) di Amichai Greenberg (sezione Orizzonti) in cui il protagonista è uno storico della Shoah, deciso a individuare la posizione di una fossa comune in Austria, per riaffermare una verità storica per alcuni ancora scomoda. Costruito come un giallo, mostra un uomo che con implacabile rigore è pronto a mettere in discussione la sua stessa vita privata, conscio che solo affrontando il passato con onestà si può sperare in un futuro migliore.
Presto al cinema
Victoria & Abdul di Stephen Frears
Film garbato ma non banale, nonché ennesima grande prova d’attrice di Judy Dench, mostra una regina Vittoria anziana e piena di nostalgia. Al culmine del suo potere, è al tempo stesso prigioniera di una corte che non vedrà di buon occhio la sua vicinanza con Abdul Karim. Incapricciatasi di lui durante una cerimonia, Vittoria lo nomina prima suo valletto poi suo insegnante di urdu, trovando nuovi stimoli e riuscendo così a ritagliarsi un inconsueto angolo di libertà.

Loving Pablo di Fernando Leòn de Aranoa
Il film ripercorre la parabola di Pablo Escobar, dalla formazione del cartello di Madellin fino alla sua caduta, vista attraverso lo sguardo privilegiato di Virginia Vallejo, sua amante per anni. Giornalista abituata alle copertine delle riviste di moda, si adatta fin troppo presto ad “amare Pablo e odiare Escobar” (titolo del memoir da cui è tratto il film), salvo accorgersi con crescente ansia che certe scelte si pagano a caro prezzo. La pellicola procede con ritmo incalzante, seguendo un’ottima Penèlope Cruz che fronteggia suo marito Javier Bardem, un bolso ma carismatico Pablo, pronto a passare dall’affettuosità del buon padre di famiglia alla spietata e lucida brutalità del narcos.
Suburbicon di George Clooney
10% Hitchcock e 90% fratelli Coen, il nuovo film di Clooney torna all’ambientazione d’epoca dove da il suo meglio, ma risulta un po’ rigido e poco graffiante. Nonostante alcune carrellate eleganti la trama ai limiti del grottesco appare poco incisiva, al contrario della colonna sonora di Desplat eccessivamente enfatica per quanto volutamente stridente. Anche la presa di posizione politica che mette alla berlina i pregiudizi razzisti risulta un po’ ingabbiata, mentre più sciolta e naturale è l’amicizia fra i due bambini vicini di casa: bianco e nero, isolati dai loro coetanei, sono entrambi assediati dalla violenza del prossimo, sia esso familiare o estraneo.