Alla base dei suoi scritti, ammette da sempre G.R.Martin, c’è l’improvvisazione, il lasciarsi guidare dall’istinto dei personaggi e l’atmosfera dei luoghi così come emergono dal racconto. Martin aveva iniziato le sue Cronache del ghiaccio e del fuoco pensando ad una trilogia, poi ha capito che per dare completezza alla sua visione, di libri ne sarebbero serviti almeno sette. L’ha capito, ma di fatto, a scrivere, si è fermato al quinto.
Il suo ritmo di scrittura è stato sconvolto dal successo planetario di Games of Thrones, la serie tv tratta dal suo universo immaginario ed alla fine ne è rimasto travolto. Mentre i suoi fan – che, diciamocelo, non amano molto gli stravolgimenti televisivi – aspettano il quinto libro da ormai 6 anni, egli continua a dire che è quasi pronto ed uscirà a breve. Dalle ultime indiscrezioni pare che non dovremmo aspettare oltre il 2018.
Ma questi ultimi sette anni sono stati fatali: tutto è cambiato. Nella percezione del pubblico e nello stato d’animo dei fan. Ed è inutile precisare che in tutto questo, il fatto che Martin abbia ormai quasi 70 anni, forse, non aiuta. Perché hai voglia a dire che l’universo letterario e quello televisivo possono convivere con linee narrative parzialmente divergenti, in ambienti per certi versi paralleli, ma di fatto questo è impossibile. L’universo si costruisce e si arricchisce di visioni che sono il frutto di discussioni collettive che si creano e si alimentano in base a come vengono vissute nel quotidiano. Quindi, alla fine, chi fa parlare più di sé vince e influenza il resto. Il potere delle immagini e della carne che dà loro vita è difficile da battere.
Martin ha impiegato 20 anni a disegnare il suo mondo, ad HBO ne sono bastati 7 per farlo esplodere.
David Benioff e D.B. Weiss, gli sceneggiatori di Games of Thrones, hanno fatto delle scelte radicali per semplificare alcune relazioni interne alla saga troppo complesse da raccontare e poi si sono trovati in mano la patata bollente: terminare velocemente il lavoro incompiuto di Martin e prepararsi a pagarne il conto.
Non puoi fare altro una volta che hai cominciato a viziare il pubblico con stagioni di episodi da più di 10 milioni di dollari l’uno. Ma narratori di un certo stile non si nasce, e non si diventa così rapidamente. Lasciati in balia dell’approvazione del pubblico, gli sceneggiatori spengono la magia del racconto. Quello che differenziava Games of Thrones dal fantasy a cui eravamo abituati era il suo essere brutalmente crudo. Di quella crudezza di cui l’uomo è capace quando libera il proprio lato oscuro e si rifugia nel suo istinto animalesco.
Una saga con eroi che non fuggono di fronte all’ineluttabile. Gente trucidata solo per aver infranto una promessa. Bambini lanciati dalla finestra sin dal primo episodio. Re bambini folli e crudeli, veri cattivi, di cui i libri di storia ahimè sono pieni. Una saga in cui fiumi di parole sono spese solo per restituire la complessità di un personaggio a scapito dell’azione. Ricordiamo per quanto tempo Mastino, Aria, Jorah e Tyrion, per esempio, sono stati immobili a curare i loro rapporti fra di loro.
Lunghi minuti ad ascoltare i loro dialoghi, o monologhi, e a sorprenderci sempre appassionati nonostante la loro immobilità. Una saga in cui il male è ambiguo, i personaggi evolvono continuamente in modo talvolta inaspettato. Gli script trasformano i limiti di attrattività che tali caratteristiche potrebbero avere, in punti di forza e novità assolute. Ma il tempo è un agente rovinoso. La volontà di chiudere tutte le linee narrative aperte per condurci in soli 13 puntate (stagione 7 e 8), che dovranno essere spettacolari per forza, verso la risoluzione di una epica, stride con il carattere del GOT a cui Martin ci aveva abituato. Infatti lo scrittore non sempre ha accettato con leggerezza le scelte narrative imposte dalla tv.
Tutta l’attenzione deve necessariamente essere rivolta a rimettere in fila i soldatini dispersi sul campo di battaglia, per portarli tutti insieme nel luogo in cui tutto avrà fine. Cercando di evitare sospensioni ed incertezze e mettendo in chiaro ciò che tutti ormai dopo anni sapevamo (Bran, davvero Jon non è figlio di Ned Stark? Ma dai…). Ma, soprattutto, tenendoli in vita per posticipare una uscita di scena che è l’unico elemento di sorpresa in cui ci è dato sperare.
Così, tutta la settimana stagione altro non sembra che un coro di vendetta e riscatto per gli Stark, qui di nuovo riuniti, determinati e senza pietà, dopo tutto quello che hanno subito nelle sei stagioni precedenti. Un lungo tributo alle classiche saghe nobiliari in cui il confine tra bene e male deve essere riconoscibile. A cui non manca un po’ di sano romanticismo, come definire altrimenti alcune scelte?
Tyrion reincontra Bronn e Podrick, il Mastino e Brienne parlano affettuosamente della loro Arya (divenuta un vero killer senza pietà) come genitori affidatari che parlano con orgoglio della loro piccola figlia adottiva, Ditocorto, il più grande stratega del potere mai esistito, freddo e cinico nelle decisioni, un uomo venuto dal niente e che è diventato Lord, muore in ginocchio, piangendo. Insomma, a livello narrativo è una sorta di tradimento all’incertezza tipica di un mondo che non nasce per chiudersi, ma per vivere di ciò che inaspettatamente costruisce. Questo è ciò che rende, dal mio punto di vista, molto debole il racconto.
Eppure un flop questa stagione, a considerare tutto, non lo è stato. Anzi. Ci ha senza dubbio regalato grandi momenti di estasi visiva. Pensiamo alla lotta sul ghiaccio guidata da Jon Snow, missione suicida incorniciata da splendidi paesaggi irlandesi, alla resa visiva dell’abilità assassina di Arya che ci conclude con una danza della morte durante l’allenamento con Brienne, ma, soprattutto, pensiamo all’attacco di sortita alla carovana da parte all’esercito dothraki, un attacco reso tecnicamente al massimo e che pone finalmente i personaggi che abbiamo imparato ad amare sul campo di battaglia, gli uni contro gli altri.
Un momento di grande televisione, in cui rimaniamo ad osservare con il cuore in bilico. Proprio come Tyrion, combattuto nei sentimenti, in preda ad una indecisione soffocante. Per non parlare dei draghi in battaglia, che sono spettacolari, e ci rapiscono gli occhi. In definitiva, è l’imposizione del medium televisivo sul regno della complessità letteraria. Una produzione a cui nulla si può rimproverare, per una serie affascinante sebbene condita da una narrazione non sempre all’altezza. Così come la recitazione di alcuni momenti.
Games of Thrones è una serie che, nonostante i difetti, è riuscita ancora una volta nell’intento di tenerci incollati alla sedia in attesa del prossimo episodio, e che, nonostante le arrabbiature durante i titoli di coda, ci fa emozionare sempre allo stesso modo quando parte il motivetto inconfondibile della sigla di testa.
La prima è bella, la seconda è mediocre, la terza recupera ed è sconvolgente, la quarta è molto bella, la quinta brutta, la sesta è la più bella… la settima gioca in un’altra categoria. Non si può paragonare alle altre.
Hai ragione Alice, l’ultima stagione gioca proprio in un’altra categoria, vista l’assenza di un legame stretto con i testi di Martin che ancora sono là dall’essere pubblicati. In ogni caso credo che possa essere letta in funzione delle stagioni precedenti, anche perché la sceneggiatura è stata scritta proprio per questo. Vedremo cosa succederà la prossima ed ultima stagione!