Nessuna recensione dettagliata o analisi narratologica di trama e caratteri per l’opera postuma di Kent Haruf, Le nostre anime di notte. Temo seriamente di compromettere l’intimo, struggente afflato poetico che percorre, delicato ed ipnotico, le pagine di un romanzo che va vissuto come un’unica, intensa emozione. Non ne varrebbe la pena se le sfumature di una prosa lirica limpida e definitiva andassero anche minimamente perdute nel tentativo, appunto, di… spiegarle. Come per le “affinità d’anima”, anche per quelle letterarie che – spesso inattese – scaturiscono fra testo e lettore, avviene “che non giungano ai gesti e alle parole ma rimangano effuse come un magnetismo. È raro ma accade”: scrive Montale in Ex-voto.
E certo l’ultima fatica dell’autore della Trilogia della pianura, “precisa e asciutta epopea della working class americana” (come nota il traduttore Cremonesi), è una sintesi esemplare della sua poetica che consente il miracolo: la storia di due anime sole e non più giovani che si sfiorano dopo essersi conosciute e probabilmente desiderate da sempre, va anzitutto “percepita” da quanti si troveranno a sfogliare la propria di anima, prima che queste pagine impeccabilmente composte.
Addie, settantenne vedova ancora attraente e polo forte della coppia, propone con dignità e coraggio a Louis, insegnante anch’egli vedovo con un’amante alle spalle, di trascorrere le notti insieme perché “sono le notti la cosa peggiore”. Tutto qui, il plot è concluso.
“E poi ci fu il giorno in cui Addie Moore fece una telefonata a Louis Waters”.
Dopo un mirabile incipit in medias res che fa supporre la storia già iniziata in un ipotetico spazio narrativo anteriore ed esterno al libro, prende l’avvio una vicenda percorsa da reticenti pudori, comprensibili imbarazzi, inevitabili chiacchiere di un paese/mondo. Siamo ancora nell’immaginaria cittadina di Holt – che non accetta lo scandalo di chi si ostina a nutrire fiducia nell’amore e ne sente l’urgenza al di là di limiti anagrafici e ipocrite convenzioni.
Le vicissitudini sommessamente scandite dai gesti impacciati di chi ha vissuto un intenso rapporto familiare, interrotto dalla morte del coniuge, e fatica ma desidera lasciare una solitudine dolorosamente abituale (come non citare il joyciano “Un increscioso incidente” dei Dublinesi?!). I colloqui esitanti barattati prima di (fingere di) dormire con le mani intrecciate. Le cene rubate e attese con malcelata ansia adolescenziale e le remore legate al “Che diranno di noi?”
E poi l’opportunità di entrare nella casa dell’altro dall’ingresso principale, le gioiose fughe in luoghi che non si pensava più di frequentare, le finestre spalancate per guardare le stelle.
Comunque nessun facile idillismo in un “racconto lungo” alla fine duro e non consolatorio, impreziosito da una felice ed inaspettata apertura metaletteraria:
“Potrebbero scrivere di noi. Ti piacerebbe?
Non mi va di finire in un libro, rispose”.
In aggiunta al resto, anche il conflittuale e mai evitato rapporto dei due protagonisti con i rispettivi figli che, segnati da scelte sbagliate e incapaci di sognare ed illudersi, non vogliono accettare – loro sì già vecchi – “una relazione fra anziani”. Ma sto venendo meno alla promessa di “non” scrivere su un libro che consiglio empaticamente di leggere d’un fiato e allora mi fermo qui…
Nota della redazione
Il romanzo di Kent Haruf sta avendo uno straordinario successo anche grazie alla trasposzione cinematografica che riunisce una coppia di grandi attori come Jane Fonda e Robert Redford. I due sono di nuovo insieme a cinquant’anni dal primo film. Le nostre anime di notte film (vedi qui sotto il trailer) è stato presentato di recente alla Mostra del Cinema di Venezia. Per l’occasione Redford e Fonda hanno ricevuto il Leone d’Oro alla carriera.
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