Leggero il passo sui tatami di Antonietta Pastore

Leggero il passo sui tatami. Antonietta Pastore. Cronache Letterarie

“Sensei” in giapponese traduce il termine italiano “maestro” e non indica solo i docenti in senso stretto, ma anche una persona che possieda autorevolezza ed esperienza e che abbia conoscenze superiori alle proprie. Sensei Antonietta Pastore, torinese, pedagogista allieva di Jean Piaget prima a Ginevra e poi a La Sorbonne, nel 1974 vola in Giappone insieme all’uomo che, all’epoca, era suo marito. Diventa Visiting Professor all’Università di Osaka, presso la facoltà di Lingue Straniere.

Noi la conosciamo soprattutto come traduttrice di Haruki Murakami (insieme ad Amitrano), del quale ci restituisce il senso profondo della scrittura nella nostra lingua, ma è essa stessa raffinata scrittrice e ci ha regalato eleganti chicche letterarie come Nel Giappone delle donne e, il mio preferito, Leggero il passo sul tatami. In questo breve eppure intenso racconto di vita, affronta con sorprendente abilità descrittiva il tema cruciale dell’adattamento ad una cultura differente da quella di origine, appunto quella nipponica, in cui si trova improvvisamente immersa, per sedici lunghi anni, nel quotidiano tentativo di oltrepassare le barriere inconsapevoli che ognuno di noi porta dentro di sé.

Leggero il passo sui tatami. Antonietta Pastore

Questo concetto di “barriera interiore” mi ha colpito come una sberla assestata in pieno viso. Ho percepito nitidamente l’alzare la guardia che l’autrice voleva trasmettere parlando del nostro comune approccio alla differenza. E da buona cultrice di filosofia mi sono posta la questione: cosa è una barriera? Un confine? Un limite?

Però “confine” e “limite” non sono propriamente sinonimi. Se il confine è una divisione di due o più elementi in relazione fra loro, il limite è invece qualcosa di determinato, unico, non ulteriormente incrementabile. Ecco perché parliamo di confine delle nazioni e non di limite delle nazioni, e parliamo invece di limite della strada, inteso come non ulteriormente valicabile, in quanto magari poi c’è la scarpata e potremmo precipitare di sotto.

Quando entriamo in contatto con una cultura differente innalziamo una barriera a nostra protezione. Ma è una barriera che stabilisce un confine permeabile fra noi e l’altro, oppure una che segna un limite fra il nostro modo strutturato di vivere e la possibilità di comprendere la diversità? E’ una differenza come dal greco diaphorein, (“portare attraverso”): sono portatore della mia individualità e delle mie unicità che offro in dono all’altro in uno scambio foriero di nuove possibilità di incontro?

Oppure è la diversità del latino divertere, cioè cambiare direzione, “uscire di strada”: sono portatore di una cultura specifica e l’accettazione di una cultura che non mi appartiene mi conduce “altrove”?
Alla luce di questo tema della barriera, ho camminato riga per riga accanto all’autrice, interpretando episodi e riflessioni, anche io mentalmente seduta sui talloni sopra un tatami, sulla stuoia rettangolare tradizionale a me assegnata nella washitsu: così i giapponesi chiamano la stanza della casa arredata con la tipica pavimentazione modulare composta da stuoie alte pochi centimetri di varie misure.

Leggero il passo sui tatami. Antonietta Pastore. Cronache Letterarie

Chissà a me che soffro di svariate allergie e devo soffiarmi il naso spesso, che effetto farebbe non poterlo fare in pubblico a Tokyo, Osaka, Kobe e fino all’angolo più remoto del Giappone, a pena di essere giudicata una grandissima maleducata? E i giapponesi allergici come fanno? Scappano dieci volte al giorno in un angolino solitario per potersi soffiare il naso? Questo popolo così contenuto che considera sconveniente gesticolare e mangiare per la strada, che controlla ogni gesto, si presta a mille riti cerimoniosi, sorride sempre e si inchina di continuo, come fa a gestire le emozioni? Quelle stesse emozioni improvvise, laceranti che devastano a volte il cuore come solo il vento del Nord riesce a fare e che io sono così poco abile a disciplinare?

Leggero il passo sui tatami. Zoccoli giapponesi

Mi affascinano da sempre i loro volti di porcellana, eterei e impassibili, stretti nell’implacabile sforzo di contenimento che l’autrice ci racconta. Quali misteri inconoscibili velano i loro visi così radicalmente stranieri?

Suppongo che il cielo sotto il quale tutti ci agitiamo nel tentativo di “accumulare” attimi di felicità sia lo stesso in ogni parte del pianeta, ma il popolo del Sol Levante si è evoluto seducendo le avversità con maniere levigate e lievi, delicatissime e discrete, formali fino all’ipocrisia. A maggior ragione tali caratteristiche vengono instillate goccia a goccia nelle donne, attraverso una rigida educazione che traspare superbamente nell’arte di servire il tè, in un rituale di perfezione dei gesti e dell’estetica, svolto nell’incantevole eleganza di un kimono di seta fiorato, indossato con leggiadria e soavità quasi sovrumane ed oltremodo femminili.

Una volta, negli anni in cui mi dedicavo al teatro con passione e diletto, mi fu assegnata la parte di una donna giapponese. Con l’incarnato lunare c’eravamo ma dovevo vestire il kimono: lo trovavo di una bellezza eclatante, data dalla sapienza dei colori, dei tessuti e dei motivi fiorati così armoniosamente disposti sul tessuto, in un’altalena colorata di vuoti e pieni. Allo specchio mi piacevo moltissimo, ma appena cominciavo a muovermi diventavo l’elefante nel negozio di porcellane, perché il kimono non può essere solo indossato, bisogna farlo proprio con le movenze che gli si addicono e che risultano “sproporzionate” per chi è cresciuto dalla nostra “parte di mondo”: rassegniamoci, noi siamo quelle dei jeans e dei tailleur.

Leggero il passo sui tatami. Cronache Letterarie
Leggero il passo sui tatami. Cronache Letterarie

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In Giappone il proverbio “buona moglie, madre saggia”, cristallizza la condizione femminile tradizionale. I canoni vogliono la donna in un ruolo essenzialmente casalingo, a servizio dell’intera famiglia e soprattutto concentrata sull’educazione dei figli, lasciando all’uomo tutti gli aspetti concernenti il lavoro e la competizione sociale. Paradossalmente le donne nipponiche avevano più diritti e libertà individuali prima del 1800.

Basti pensare alla Onna-bugeisha (letteralmente artista marziale femminile), un tipo di donna guerriera appartenente alla nobiltà giapponese, che battagliava al fianco degli uomini samurai, conosceva l’uso di katane e naginata (un’arma a metà strada tra la falce e la spada) fin dal Medioevo. Questa donna era rispettata e adorata quasi come una divinità e le erano concessi pari diritti ereditari con gli uomini. Oppure pensiamo alla figura della Geisha quando, a partire dal 1600, l’esser donna diventa un’arte tenuta in altissima considerazione dalla società giapponese: esperta di buone maniere, danza, canto.

Forse l’apice del peggioramento della condizione femminile in questo Paese si è verificato nell’arco temporale compreso fra la Seconda Guerra mondiale e la fine degli anni Settanta, quando la donna è stata relegata alla funzione di fattrice, educatrice, unica depositaria delle faccende domestiche e rinchiusa in casa. Con buona pace di ogni sussulto d’orgoglio, la geisha, protagonista per secoli dell’immaginario internazionale, in Occidente finisce addirittura per confondersi con la prostituta.

Onna-bugeisha, la donna guerriera che combatteva al fianco dei samurai
Onna-bugeisha, la donna guerriera che combatteva al fianco dei samurai

Ma con l’avvento degli anni Ottanta e il prorompente sviluppo industriale e tecnologico del Giappone che balza scattante come una tigre nel mezzo dello scenario economico delle potenze mondiali, anche i ruoli e le possibilità della donna mutano, sebbene in modo più lento e complesso.

Anche lei viene così catapultata nel mondo del lavoro post moderno sebbene ancora oggi sia considerato opportuno e conveniente che si sistemi all’intero di un onesto matrimonio con un uomo benestante e di buona reputazione. Sì perché in Italia invece? Sorrido con una nota di amarezza che sento salire metallica in bocca mentre scrivo questa frase pensando che tutto il mondo è paese sotto certi aspetti.

Vale anche per la calzatura, lo sapete? Un’ossessione sia per noi occidentali che per i giapponesi, solo che noi andiamo in fissa per il tacco dodici e il sandalo gioiello, se donne, per sneakers, Oxford o boots, se uomini; mentre i nipponici si concentrano su schiere di ciabatte, di tante fogge a seconda degli usi e delle stanze cui sono destinate.

E non dimentichiamo il sale che tiene lontani gli spiriti maligni. Mia nonna paterna che nacque, visse e morì in un paesino dell’Alta Valle del Potenza, forse non aveva neanche coscienza che esistessero i giapponesi, però sul sale la pensava esattamente come loro!
Così, mentre noi occidentali continuiamo ad andar di passo frenetico sul linoleum delle palestre e sul parquet Ikea, lasciamo che i giapponesi proseguano a passo leggero sui loro tatami, nel ritratto pulito che Antonietta Pastore ci regala di questa civiltà per noi, tutto sommato, ancora difficile da avvicinare.

Antonietta Pastore, Leggero il passo sui tatami, Einaudi Editore

Milena Corradini

Milena Corradini

Classe 1975, vivo a Porto Sant'Elpidio, nelle Marche. Laureata in Filosofia. Atea, liberale, appassionata di letteratura e arte, sono docente educatrice presso il Convitto dell'ITT Montani di Fermo. Ho insegnato Filosofia, Storia e Psicologia in vari licei. Studio bioetica del fine vita e organizzo eventi di approfondimento su questo tema.

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