Sconfiggere Hitler di Avraham Burg è un testo speciale.
Così speciale che alla sua uscita in Israele nel 2007 ha suscitato sconcerto, dolore e polemiche a non finire.
Questo libro è speciale anzitutto per l’autore. Avraham Burg è un personaggio pubblico in Israele. Nato nel 1955, è figlio di due fondatori dello Stato israeliano. Il padre Yosef fu fondatore e dirigente del partito religioso nazionale, il Mafdal, e a lungo ministro in vari governi. Avraham Burg è a sua volta un protagonista della vita politica israeliana: parlamentare laburista e presidente della Knesset nel 2000, è stato presidente dell’Agenzia ebraica e del Movimento sionista mondiale, vice presidente del Congresso ebraico mondiale e tra i fondatori di Peace Now.
Insomma, Avraham Burg è un sionista insospettabile, tutto d’un pezzo. Non immagineresti mai che possa scrivere un libro critico nei confronti del proprio Stato. Perché con Sconfiggere Hitler (pubblicato da Neri Pozza) Avrahman Burg muove una critica sofferta ma radicale al fondamento ideologico del Sionismo, all’identità nazionale israeliana, all’immedesimazione Stato e religione, alla dipendenza patologica della società israeliana dalla Shoah non meno che all’uso strumentale che della stessa viene fatto.
La specialità del libro di Avraham Burg sta proprio in questa lettura analitica e critica dello Stato di Israele. Uno sguardo nuovo, inedito sulla storia del sionismo che riprende e porta a conseguenza il coraggioso pensiero di Hannah Arendt, soprattutto in riferimento al processo Eichmann. Fatto storico che per Avrahman Burg costituisce lo spartiacque nella storia del giovane Stato israeliano.
Da questo punto di vista è rilevante che la posizione di Avraham Burg non sia solitaria. Da almeno un decennio gli storici israeliani hanno iniziato a guardare con occhio critico la storia del loro Stato e in particolare il rapporto tra la fondazione di questo e la Shoah, hanno guardato al culto distorto che di quest’ultima è stato fatto nella costruzione dell’identità/memoria nazionale e nella relazione con il mondo dei goyim (i non ebrei). Mi riferisco soprattutto agli studi di Idith Zertal e Yehuda Bauer.
La tesi da cui muove Avrahman Burg è che lo Stato d’Israele ha smarrito lo spirito culturale ebraico dei fondatori sino a essere oggi uno stato nazionalista e razzista, basato su una potenza esclusivamente militare. Per questo Hitler non è stato affatto sconfitto. Un giudizio di fatto, non un’accusa, ma pur sempre una valutazione pesante. Questo perché l’analisi e la valutazione di Avraham Burg si basano sia sulla storia che sull’esperienza personale in famiglia e in politica.
Lo spirito ebraico dei fondatori
Qual era lo spirito sul quale sarebbe stato fondato lo Stato di Israele? Avraham Burg lo trova incarnato nelle figure fondamentali della madre e, soprattutto, del padre.
Rivka Slonim, madre dell’autore, era di Hebron, Cisgiordania. Sopravisse al massacro di Hebron del 1929 grazie all’aiuto dei vicini arabi che nascosero lei e la madre in casa loro. Agli occhi del figlio incarna l’integrazione e la pacifica convivenza tra arabi ed ebrei.
Yosef Burg, il padre dell’autore, era un ebreo tedesco di Dresda di origini levantine. Rabbino, laureato in matematica e logica a Leipzig, poliglotta, era uno di quegli ebrei che la tradizione antisemita – da Lutero a Hegel, da Rosemberg a Hitler – chiamavano con sprezzo ebrei assimilati. I peggiori. I più subdoli. Non solo perché credevano di essere tedeschi senza averne il sangue, ma soprattutto perché, secondo gli antisemiti, l’assimilazione non era altro che una maschera dietro la quale nascondere la loro vera identità di juden e la loro vera intenzione di giudaizzare la Germania. Intenti assolutamente estranei a uno come Yosef Burg, eroe umile e mite come lo definisce il figlio, uomo di dialogo e non di scontro, più incline all’accoglienza che all’esclusione. Agli occhi del figlio Yosef Burg incarna l’universalismo e l’umanesimo degli ebrei levantini.
La madre rappresenta l’israelismo nascente. Il padre l’ebraismo liberale ormai morto nella Germania nazista e impossibile da realizzare nel nuovo Stato.
Avraham Burg si addentra lungo questo primo sentiero insidioso portando con sé la valigia tedesca del padre. Con le sue lingue, i ricordi, il sogno di uno Stato innovatore e liberale. Indaga i diversi fattori per i quali lo spirito originario dell’ebraismo paterno è stato abbandonato, se non tradito.
Anzittutto, perché la maggior parte di coloro che nel progetto dei fondatori avrebbero dovuto costituire l’ossatura del nuovo Stato non c’erano più: ebrei tedeschi, austriaci, polacchi, ungheresi, cechi, lituani, russi, ucraini. I cosiddetti ebrei ashkenaziti. Vale a dire la gran parte degli ebrei deportati nei campi di concentramento e sterminati. Così Ben Gurion e gli altri leader sionisti del nuovo Yishuv – l’insediamento israeliano in Palestina conseguente alla prima emigrazione di ebrei – si ritrovarono senza l’humus umano e culturale necessario per dar vita allo Stato: senza un popolo.
Ecco che la Shoa e lo sterminio delle risorse umane dell’Est Europa diventano l’istanza centrale della fondazione dello Stato di Israele. “Il movimento sionista e lo Stato d’Israele” – scrive Burg – “che si consideravano rivoluzionari, affrancati dal passato – anche prossimo – ebraico, per costituire un’essenza nazionale affatto nuova, hanno finito per interiorizzare il corpo e l’anima delle vittime della Shoah e dei sopravvissuti. Si sono rimessi non solo al dolore e al lutto – comprensibili – ma anche ai mali di quella diaspora da cui qualche decennio prima erano fuggiti”.
In questo modo l’Israele che si considerava uno Stato moderno e innovatore, animato da uno slancio liberale e riformista, fautore di un rinascimento ebraico, si trovò nella necessità storica di ridefinirsi attraverso la memoria e il passato. Del resto, la fine del secondo conflitto mondiale nel 1945 e la creazione formale dello Stato di Israele nel 1948 erano due eventi tragicamente così vicini da lasciare un’impronta indelebile nella memoria del nascente Stato.
Gli anni tra questi eventi, rivela Burg, furono anni di dolore e utopia, di depressione e mania, di pesante censura e discriminazione a scapito dei sopravissuti ai campi accusati di “essersi lasciati sterminare come pecore al macello”, cioé senza opporre resistenza. Il modello sul quale nasce lo Stato di Israele è basato sulla resistenza e la forza. Gli eroi sono i pochi ebrei che tentarono di ribellarsi nel ghetto di Varsavia.
Non è un caso dunque che la classe dirigente del nuovo Stato sia rappresentata in gran parte da militari, ieri come oggi. Da Ben Gurion a Moshe Dayan, da Shimon Peres a Yitzhak Rabin, la carriera militare sembra garantire un futuro politico. Per Avraham Burg questa è un’altra ragione del volto duro dello Stato israeliano.
Ghetto di Varsavia
Israele non nasce solo sul trauma della Shoah. Accanto a questo, proprio negli anni di formazione dello Stato, si consuma un altro trauma che, tuttavia, rimarrà oscurato dal primo. Vale a dire, la migrazione forzata degli ebrei sefarditi che vivevano nei paesi islamici come Iran e Siria. Con la guerra di Indipendenza del 1948 i rapporti tra musulmani ed ebrei cambiano radicalmente. Dopo secoli di vita in comune da amici si diventa nemici. Da una parte gli ebrei d’Oriente necessitano di una terra che li accolga dopo la fuga dai paesi ora nemici. Dall’altra parte il nascente Stato ha bisogno di un popolo dopo lo sterminio degli ashkenaziti.
Così, scrive Burg, qualcuno nello stagno politico di Gerusalemme decise per l’esodo forzato dei fratelli sefarditi, innescando una serie di cerchi concentrici. Perché l’immigrazione sefardita fu un’immigrazione di massa, un vero e proprio sradicamento. Un posto di lavoro rispettabile perso per sempre, una posizione sociale crollata di colpo, la famiglia cambiata profondamente, strutture e relazioni sociali costruite da generazioni cancellate come pure le identità. Gli ebrei orientali permisero la sopravvivenza di Israele ma il prezzo che dovettero pagare non è mai stato preso in considerazione, il loro grido di dolore mai ascoltato. Il loro dolore non era nulla rispetto alla Shoah.
Eppure questo trauma è stato tale che ancora oggi è motivo di divisione in Israele. “C’è ora una nuova corrente che si chiama Ars poetica, “ars” scritto con ayin (nello slang termine spregiativo per delinquente di mezza tacca, con una connotazione etnica); è la poesia dei giovani mizrahim che contestano gli ashkenaziti” scrive l’autorevole poetessa israeliana Agi Mishol. I mizrahim sono proprio gli ebrei orientali, provenienti dal mondo arabo.
Se queste sono le ragioni principali che secondo Avraham Burg hanno portato Israele a essere uno Stato lontano dallo spirito dei fondatori, lo stesso Burg ammette l’impossibilità di identificare il punto preciso da cui è partito il cambiamento. Il momento in cui il disincanto e il risentimento hanno preso il sopravvento. Si tratta di un processo lungo e per certi versi inafferrabile.
Ma in questo processo Burg individua alcune tappe fondamentali. Tra queste il processo a Adolf Eichmann.
Il sapore dell’aceto
L’11 aprile del 1961 a Gerusalemme inizia il processo a Adolf Eichmann, l’ufficiale delle SS cui Hitler affidò nel 1942 il compito di organizzare lo sterminio degli ebrei nei campi di concentramento.
All’epoca Avraham Burg è solo un bambino di sei anni tutto preso dall’imparare a leggere e scrivere. Tuttavia il processo è un evento così pervasivo che il bambino Avraham s’identifica nel cattivo Eichmann. Burg racconta un episodio accadutogli proprio durante il processo Eichmann, di cui fu protagonista in negativo. Un anedotto che qui non riporteremo ma al termine del quale per l’autore tutte le cose cattive avranno per sempre il gusto acido dell’aceto: la cattiveria di Eichmann, l’ottusità, il divario sociale, la miseria, l’ignoranza. Burg promise di un mangiare più aceto.
Riprendendo l’analisi di Hannah Arendt sul processo Eichmann, anche per Avraham Burg questo processo poteva costituire l’occasione giusta perché lo Stato di Israele abbandonasse la linea conservatrice e vittimista. Perché ritornasse a camminare sulla strada dell’ebraismo. Invece, anche questo evento – giustamente epocale – fu gestito in maniera strumentale da Ben Gurion. Non meno che dal procuratore generale Gideon Hausner.
Non solo il rito si svolse dinnanzi a una corte israeliana e non internazionale – come invece la Arendt riteneva fosse giusto – ma furono scelti per testimoniare alcuni sopravvissuti che non erano legati direttamente ai capi d’accusa nei confronti di Eichmann. Tra questi Abba Kovner e Yehiel Dinur la cui testimonianza fu uno dei momenti più drammatici del processo. I testimoni diretti furono scelti “per rappresentare la voce israeliana e ebraica ufficiale, perché il processo Eichmann doveva doveva servire come solenne cornice educativa per le generazioni future”.
Così sotto la copertura sionista e un’attenta sorveglianza politica, la storia è stata raccontata come si voleva che fosse ascoltata. Le poche voci discordanti, come quella di Hannah Arendt, furono respinte e messe a tacere. La Arendt stroncò lo ‘spettacolo’ messo in piedi da Ben Gurion e per questo fu osteggiata. Il suo libro La banalità del male è stato tradotto in ebraico solo molti anni dopo la conclusione del processo. Il consenso sionista non ammetteva voci dissidenti come Martin Buber e Gershom Scholem, contrari alla condanna a morte di Eichmann. O Walter Kaufmann, ebreo tedesco, docente a Princeton, secondo il quale, sebbene non esista un castigo troppo grande per Eichmann, una volta giudicato e condannato lo si dovrebbe lasciare libero per dimostrare al mondo che gli ebrei non sono assetati di sangue come lui e i nazisti.
Ma il giovane Stato di Israele doveva mostrare i muscoli al mondo, mostrare la propria autorevolezza e autonomia senza sofismi e questioni morali complesse come quelle sollevate da Hannah Arendt e da altri critici del processo. Lo Stato doveva dar voce alla rabbia, alla rivalsa dei sopravvissuti ed esigere la testa di un pezzo grosso nazista, sfuggito al processo di Norimberga. “L’abbiamo giudicato in modo troppo precipitoso, e lo stesso vale per la sua condanna e l’impiccaggione” scrive Burg. “Non ci siamo soffermati a pensare al crimine che aveva commesso, alle vittime e ai loro discendenti”.
Avraham Burg va oltre il momento del processo per analizzare quel che è successo dopo. S’interroga su quale sia il volto di Israele dopo l’esecuzione, su perché la figura di Eichmann è ancora così presente, sugli effetti ancora evidenti degli sviluppi politici e giuridici di quell’epoca, che allora sfuggirono alla coscienza.
La Shoah è nostra
“E così partimmo, senza niente, lasciando dietro di noi i morti, ignorando la sorte dei nostri parenti, abbandonando le nostre case agli arabi, coi cuori affranti e le nostre tradizioni, i nostri affetti, i nostri ricordi nel fragile bagaglio della nostra memoria”. Così scrive Raphael Luzon, ebreo arabo di Libia, nel libro autobiografico Tramonto libico. Era il luglio del 1967. Un nuovo, traumatico esodo scuote il mondo ebraico. Ma stavolta la causa non è l’antisemitismo.
Col processo Eichmann l’ideologia della Shoah ha modellato definitivamente l’identità israeliana. L’atteggiamento ossessivo secondo il quale “tutto il mondo è contro gli ebrei” porta a una politica aggressiva e intollerante che culminerà nella Guerra dei Sei giorni del 1967. Il piccolo, impaurito Stato di Israele muove guerra a una coalizione di paesi arabi. Come ritorsione, dopo secoli di convivenza gli ebrei sono cacciati da paesi come Libia, Marocco, Egitto. Al di là del risultato militare che ancor oggi condiziona pesantemente la situazione medio orientale, Avraham Burg ne sottolinea quello politico: la sempre maggiore separazione di Israele dal resto del mondo.
Al centro di questa separazione c’è l’ideologia della Shoah. Cioè la visione e l’uso che ne vien fatto: “Abbiamo sottratto la Shoah al contesto del sacro per trasformarla in banale, squallido strumento d’iniziativa politica, in armamentario tattico a uso del popolo ebraico” scrive Burg. “È diventata una parte così integrante di noi che non abbiamo più lasciato posto a nient’altro. Investiamo grandi energie affinché le sofferenze altrui non destino empatia nel mondo”.
Eppure la Shoah poteva e può ancora essere l’occasione per un diverso sistema di rapporti tra il popolo ebraico e gli altri popoli. Ma Israele non ha ancora imboccato questa strada. Mentre la storiografia cerca di unire i frammenti del passato in modo da collegare l’ebreo al tedesco, all’europeo e al resto del mondo, la storiografia ebraica si concentra nel resoconto dei testimoni, nella memoria. Ma solo quella degli ebrei. “Viviamo all’ombra del trauma e non facciamo alcuno vero sforzo per capire le dinamiche più complesse e universali dell’odio, della tirannia e del dispotismo, della storia di quel crimine generico che si chiama genocidio e non solo del popolo ebraico” osserva ancora Burg.
Il professor Yehuda Elkana, soprovvissuto alla Shoah nel corpo e nello spirito ha scritto: “Da Auschwitz sono usciti due popoli: una minoranza che dice: Questo non succederà mai più, e una maggioranza confusa e spaventata che dice: Questo non succederà mai più a noi“.
Burg affonda l’analisi. Accusa la società israeliana di indifferenza verso le altre Shoah, e lo Stato di Israele di condurre una politica estera all’insegna dell’ipocrisia. Cita il caso del Ruanda dove armi di fabbricazione israeliana sono finite nelle mani degli assassini ruandesi. Esemplare il caso della ex Yugoslavia. Quasi tutto il mondo condannava e sanzionava le atrocità delle truppe serbe di Milošević contro gli albanesi mulsulmani. Organizzazioni ebraiche dichiararono l’impossibilità di rimanere in disparte quando si tratta di pulizia etnica, carri bestiame, campi di concentramento. Al contrario, lo Stato di Israele non solo non condannò la pulizia etnica ma condusse una politica pro Serbia. Perché?
Secondo il professor Igor Primorac dell’Università Ebraica di Gerusalemme, la lunga guerra in Yugloslavia è stata percepita da Isreale come il diretto proseguimento di ciò che era accaduto durante la Seconda Guerra Mondiale quando i croati e i musulmani pronazisti avevano collaborato allo sterminio degli ebrei, mentre i serbi avevano lottato contro i nazisti, difendendo e aiutando gli ebrei. Ergo, “gli ebrei sono storicamente tenuti a comprendere e sostenere le ragioni dei serbi”.
Una logica aberrante che fa venire i brividi. Mentre il mondo apre gli occhi e cerca di migliorare il presente, lo Stato di Israele rimane ancorato al trauma della Shoah, al passato più cupo. Ignorando che gli alleati di un tempo sono diventati dei nazisti attivi. Scrive Burg: “Eravamo e siamo ancora pronti a ignorare cose deprecabili purché passino l’esame della morale israeliana: erano con noi o contro di noi durante la seconda guerra mondiale e la Shoah?”.
Esame inammissibile, conclude.
Uscire dai campi per sconfiggere Hitler
Israele e il popolo ebraico rivendicano il monopolio della Shoah e con ciò ignorano tutti gli altri eccidi attraverso la minimizzazione, il ridimensionamento, l’indifferenza. Il risultato è un mondo più generoso di olocausti grandi e piccoli, cruenti e ancor più cruenti. Un mondo sordo al dolore dei ruandesi, dei cambogiani, delle donne del Darfur e dei curdi non è un mondo libero.
Allora, si domanda Burg, come dare un senso alternativo al dibattito della Shoah?
Israele dovrebbe uscire da Auschwitz per non tornarci più. Uscire dai campi significa non vivere più una vita segnata da un senso di sofferenza e da un vittimismo inespugnabile. Burg crede che un mondo in cui Israele sia capace di liberarsi dall’ossessione della Shoah e dal suo esclusivismo sia un mondo più libero nel quale il compito di Israele sarebbe quello di vigilare, di tenere alta la guardia, di difendere ogni perseguitato senza distinzione tra amico e nemico. Solo attraverso questo cambiamento culturale le Shoah degli altri saranno anche degli ebrei, e ogni Shoah sarà di tutti.
Ma per avviare il cammino verso questa utopia – come la chiama lo stesso Burg – occorre un dialogo aperto e sincero all’interno di Israele ed è necessario combattere un nuovo razzismo ebraico che è quanto di più lontano possa esserci da quell’umanesimo e universalismo che Burg ha appreso da figure come il padre.
Riferimenti bibliografici
Hanna Arendt, La banalità del male, Feltrinelli
Idith Zertal, Israele e la Shoah. La nazione e il culto della tragedia, Einaudi
Yehuda Bauer, Ripensare l’Olocausto, Mondadori
Wlodek Goldkorn, Il bambino nella neve, Feltrinelli
Elena Lowenthal, Contro il giorno della memoria, Add Editore
Rapahel Luzon, Tramonto libico, Ed. Giuntina
Ayelet Gundar-Goshen, Svegliare i Leoni, Ed. Giuntina
Grazie mille signor Concu per la bellissima recensione!
Il ruolo di Israele e del sionismo nelle vicende contemporanee è fondamentale. Basti pensare al peso enorme, che le persone di religione giudaica e Israele hanno nella politica e nella finanza dell’unica super potenza mondiale rimasta: gli USA. Un tempo (più di 27 anni fa), quando il mondo era diviso in due e l’Unione Sovietica aveva ancora una grande influenza nelle cose del mondo, gli “intellettuali di sinistra” a volte scrivevano articoli molto critici sulla politica di Israele e sul sionismo. Adesso non più. Se ti azzardi a scrivere qualcosa di critico su Israele, il sionismo, il ruolo dei servizi segreti israeliani, la finanza americana…, vieni immediatamente zittito e messo nell’angolo dei cattivi in castigo, in mezzo ai fascisti e agli antisemiti. Ma se si vuole sapere chi governa veramente il mondo oggi, basta solo chiedersi su quali persone, gruppi di potere, stati, organizzazioni…. è impossibile parlare o esprimere giudizi critici senza essere immediatamente messi a tacere.
Grazie a lei signor Vincenzo per la lettura e il commento. Come da lei sottolineato chi osa criticare la politica sionista viene subito tacciato di antisemitismo. A volte per pura ignoranza storica, altre per un uso strumentale appunto della Shoah. Lo stesso A. Burg racconta nel prologo del libro che, dopo l’uscita di quest’ultimo, veniva fermato per strada e additato come antisionista e antisemita.
C’è da dire che all’interno di Israele ci sono voci dissidenti come gli storici citati nell’articolo, e anche giovani romanzieri come Ayelet Gundar-Goshen che esprimono critiche proprio ai modelli culturali su cui si fonda l’identità sionista.
Persino la poesia è stata uno strumento culturale molto influente da questo punto di vista. “La poesia ebraica – ha scritto Ariel Hirschfeld, professore di letteratura all’Università Ebraica di Gerusalemme – fino alla fondazione dello Stato, fu il mezzo primario nella formazione del nuovo ebreo. Fu una rivoluzione culturale di cui è difficile esagerare l’importanza per il popolo ebraico. La poesia fu il mezzo attraverso il quale avvenne “l’educazione sentimentale” dell’uomo e di tutta la cultura ebraica, poiché fu il luogo in cui furono formulate, talora realmente per la prima volta, delle emozioni in lingua ebraica”.
Citazione tratta da http://moked.it/blog/2016/01/06/agi-mishol-lingua-poesia-e-identita/. Articolo che parla di una poetessa israeliana contemporanea che cerca di liberare la parola da queste incrostazioni ideologiche.
Grazie ancora
In un articolo comparso sul giornale Haaretz il 19 gennaio 2018, lo storico Zeev Sternhell spiega come in Israele cresca un razzismo simile a quello dei primi tempi del nazismo. Qui la traduzione in italiano:
https://comedonchisciotte.org/zeev-sternhell-in-israele-cresce-un-razzismo-simile-a-quello-dei-primi-tempi-del-nazismo/
Insomma, purtroppo quello che accade va ben oltre lo scenario di cui ci ha parlato Avraham Burg.
Zeev Sternhell, storico, già direttore del Dipartimento di Politica Sociale della Hebrew University di Gerusalemme, è uno degli studiosi più accreditati sul Fascimo.
Lo Stato di Israele è in buona compagnia quanto a memoria corta.
Alle ultime recenti elezioni al Bundestag tedesco l’estrema destra, la cosiddetta Alternativa per la Germania (AfD) ha ottenuto il 13 per cento dei voti. E’ il terzo partito del parlamento tedesco. “L’AfD – scrive su Haaretz la scrittrice tedesca Alexandra Senfft – mira a smantellare tutti i diritti umani che sono stati ottenuti dopo la seconda guerra mondiale. L’AfD disprezza la democrazia moderna e idealizza un passato nazionalistico. Si rivolge alla nostra cultura commemorativa, seppellendo i brutti segreti di famiglia sempre più in profondità nel sottosuolo, mostrando spietatamente un meschino nazionalismo e incitando l’ostilità contro gli estranei, in particolare i musulmani”.
Questo, secondo Alexandra Senfft, dipende anche dal fatto che i familiari dei nazisti ancora oggi non intendono fare i conti con la storia. I nazisti sono sempre i familiari altrui.
Significativamente l’articolo s’intitola “Mio nonno fu giustiziato come un criminale di guerra della seconda guerra mondiale. So perché la Germania ha ancora un problema nazista”.
https://www.haaretz.com/opinion/keep-it-in-the-family-why-germany-still-has-a-nazi-problem-1.5885989
Di questo problema Roberto, parla anche la scrittrice Anna Funder. Lei dice che dopo la caduta di una dittatura c’è una corsa a definirsi “vittime” e avviene “una manovra d’innocenza”. Ecco il link alla sua intervista su Cronache Letterarie.