La prima volta ci sono arrivato in pullman. Un viaggio interminabile, ma bello. Era la gita di quinto superiore ed erano i giorni in cui ogni cosa che fai, poi, te la ricordi: dalla sbronza col VoV a Diano Marina durante una tappa intermedia, agli scherzi in un ristorante del Montjuic.
Sapevo poco o nulla della città, anzi, forse sapevo solo che mio padre c’era stato 12 anni prima per vedere Italia – Brasile. Sapevo che c’era uno stadio, che non era il Camp Nou dove giocava il Barcelona, ma si chiamava Sarrìa, dove si era consumato un miracolo calcistico (o uno psicodramma collettivo dal punto di vista delle signorine vestite di piume che piangevano sugli spalti…).
ITALIA – BRASILE 3 a 2
Era il 1994. Erano passati solo due anni dalle Olimpiadi che avevano traghettato Barcellona da periferia del Franchismo a Luna Park d’Europa. Poi sono passati tanti anni prima che, per motivi diversi, abbia avuto modo di tornarci più e più volte.
La verità è che esistono almeno due “Barcellone”: quella di chi la sceglie e quella di chi ci è nato. Chi la sceglie, penso lo faccia per motivi molto diversi tra loro.
Per un italiano, per esempio, Barcellona è un posto simile a casa, che però casa non è. Dove sei libero di fare cose che a casa forse non faresti (o forse faresti diversamente), ma è sicuramente molto meglio che essere a Londra o Berlino, dove è più difficile ambientarsi. Per un inglese, è un posto più organizzato di quelli che altrimenti potrebbe trovare nel sud Europa, fa più caldo, c’è il mare e, fino a qualche tempo fa, c’era un posto aperto ad ogni ora in cui trovare da bere. Per un catalano, è casa sua, con tutto quello che ne consegue. Durante gli anni della dittatura, sono stati costretti a mortificare la propria identità, a rinunciare alla loro lingua e non l’hanno dimenticato.
IL GENERALE FRANCO ENTRA A BARCELLONA
L’equivoco è abbastanza comune. In una città dove tutto è possibile, credi che ci vivano persone coerenti con quel tipi di immaginario. Invece non è così. Se a Roma è normale arrivare con un quarto d’ora di ritardo, a Barcellona, se ritardate, rischiate di non trovare più chi vi sta aspettando.
E’ il nord della Spagna e non solo in senso geografico. Il PIL della Catalunya vale da solo quello del Portogallo o della Finlandia. Gli abitanti sono bravi con i soldi e, tornando alle due “Barcellone” di qualche riga fa, quella di chi l’ha scelta esiste solo perché porta soldi a quella di chi c’è nato.
Ora, però, sembra che la seconda abbia tutta l’intenzione di ammazzare la prima.
FESTA PER LA PROCLAMAZIONE DI INDIPENDENZA
Ho scelto di iniziare da Barcellona le mie Sinfonie Urbane, perché temo che qualcosa stia per cambiare. Se per sempre non lo so, ma di sicuro nulla sarà più come prima d’ora in poi.
Fino a qualche settimana fa, nessuno pensava che la storia dell’indipendenza fosse una cosa seria. Nessuno immaginava, di sicuro non io, che una delle città più multietniche d’Europa, volesse davvero calarsi in questo strano, quanto anacronistico, garbuglio amministrativo di stampo ottocentesco.
L’APPARTAMENTO SPAGNOLO
Mentre da un lato c’è chi inneggia alla proclamata indipendenza, dall’altro c’è chi sfila per dire no, perché in fondo siamo tutti europei e Barcellona è la città europea per antonomasia, dove il nord incontra il sud, il mare incontra le montagne e generazioni di Erasmus hanno trovato la propria identità.
MARCIA CONTRO L’INDIPENDENZA
Cosa diventerà Barcellona, al momento nessuno lo sa, ma di sicuro continua ad essere uno dei posti più interessanti d’Europa.
I miei amici, italiani, inglesi spagnoli e catalani, vivono la situazione in uno stato che definirei “confusionale”.
Eppure sento che una cosa non cambierà: la voglia di tornarci ogni volta che te ne vai.
Io, oggi più che mai, non vedo l’ora di essere di nuovo lì.
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Vedi anche l’intervista a Javier Cercas sulle due anime di Barcellona.