Annie Ernaux è una scrittrice francese di romanzi che raccontano aspetti legati alla sue esperienze personali. Sembrerebbe che queste per lei non abbiano importanza in quanto tali, ma perché ne può scrivere. E’ stato così per Gli anni, Il posto e L’altra figlia. Romanzi in cui la scrittrice riesce nella difficile impresa di raccontare periodi storici del ‘900, partendo da come lei li ha vissuti.
Ho cominciato a leggere Gli anni, dopo Memoria di ragazza, ma poi l’ho messo da parte. Mi sembrava che tra quest’ultimo e l’altro ci fosse un abisso, pari all’empatia tra me e l’autrice. Mentre Memoria di ragazza parla anche di me, del mio modo di sentire la vita, per Gli anni non mi è scattata nessuna molla. Ma lo riprenderò e leggerò anche gli altri romanzi di Annie Ernaux, sperando di ritrovare lo stesso piacere, la stessa intimità e complicità che ho vissuto leggendo, due volte, Memoria di ragazza.
Il romanzo è il tentativo, riuscito, di ridare realtà – psichica, mentale e perfino fisica – al ricordo di un’estate di 50 anni prima. Quello che la scrittrice vuole rivivere è la ragazza che è stata nel 1958, la ragazza di quell’estate passata a lavorare in una colonia estiva, ma soprattutto passata nell’attesa e nel compimento delle sue prime esperienze sessuali.
In tutto l’arco della narrazione si avverte lo sforzo fatto da Annie Ernaux di rivivere gli stati d’animo, le sensazioni di lei diciottenne, in quella colonia estiva. Ci sono i ricordi e tra uno e l’altro ci sono anche dei vuoti. Un ricordo chiaro è come lasciato lì a risplendere in un cielo tutto nero, nell’assenza di immagini e parole.
Perché Annie Arneaux si accanisce a voler scrivere di quel ricordo dell’estate di 50 anni prima? Un’esperienza caratterizzata sì dalle grandi emozioni dell’essere stata per due volte con un ragazzo più grande, un capo in quella colonia estiva, ma anche dall’essere stata maltrattata sia da lui che dagli altri educatori.
Il fatto è che la sua vita è stata segnata da quell’estate, dall’essere in mezzo a persone rozze, volgari, che non la capivano, travisavano i suoi comportamenti, la bollavano come la ragazza facile della colonia. Non sapevano nulla della sua vita interiore eppure parlavano di lei come se la conoscessero molto bene. Questo romanzo racconta il voler essere a tutti i costi accettati e riuscire ad ottenere proprio il contrario. La scrittrice definisce quell’estate del ’58 “il buco inqualificabile” che rappresenta lo spartiacque tra gli anni ’60 e quella che nel romanzo lei chiama la sua “sistemazione sociale determinata dal matrimonio e dal lavoro”. Quegli anni di gioventù sono caratterizzati non solo dall’emarginazione vissuta nella colonia estiva, ma anche dai fallimenti e dalle sconfitte successive che lei individua come conseguenze dirette di quell’estate: la bulimia, l’essere stata scartata dalla possibilità di diventare maestra, l’esperienza deludente e umiliante del periodo passato a Londra come ragazza alla pari, ma di fatto come domestica. E’ evidente che i fallimenti vissuti da ragazza la perseguitano ancora, sono i fantasmi interiori dei quali non riesce a liberarsi e che diventano la sua ossessione, tanto da apparirle come l’unico e forse l’ultimo suo progetto di scrittura.
E il romanzo piano piano si scrive, si ha l’impressione che venga dettato da una presenza interiore a chi materialmente mette una parola dietro l’altra. Brandelli di scrittura che hanno la stessa forma del ricordo, sono il linguaggio con cui il ricordo fa la sua comparsa nella mente e che la scrittrice riproduce così come le appare. L’oggi diventa tutt’uno con il racconto dell’estate della ragazza del ’58, dando vita ad uno stile narrativo fatto di descrizioni di luoghi, persone, dialoghi, che a tratti si fa stentato, procede a tentoni, improvvisando frasi raccolte da vecchie lettere scritte ad un’amica in quel tempo lontano. Il romanzo è una specie di collage mentale. Va avanti per tentativi, ipotesi, nell’intento di capire perché quella diciottenne abbia tanta voglia di fare l’amore, senza peraltro riuscirci fino in fondo. E finalmente capiamo che tutte le pagine sembrano avere lo scopo, non solo di ricordare, riportare in vita quella ragazza del ’58, ma anche di spiegarla, di capirne i comportamenti e in particolare la facilità, la semplicità con cui si dà ad un ragazzo più grande che le dice chiaro e tondo di non amarla, ma che lei idealizza. Lui è quel qualcuno che per la prima volta “l’ha vista”, anche se subito dopo l’ha ignorata.
E’ la memoria di quell’estate di 50 anni prima, la cosa più importante da non far cadere nell’oblio, l’unica di cui valga la pena scrivere. Questo aspetto rende il testo una specie di manuale per chi scrive. “Di cosa possiamo scrivere?” ci chiede il romanzo. Del passato, di quei brevi film su cui la mente ritorna incessantemente per rivivere l’intensità di certi momenti. Ripensando per anni a quell’uomo tanto desiderato in quell’estate del ’58, la scrittrice dice: “Come siamo presenti, noi, nell’esistenza degli altri, nella loro memoria, nel loro modo di essere, persino nei loro gesti? Incredibile sproporzione tra l’influenza sulla mia vita delle due notti passate con quest’uomo e il nulla della mia presenza nella sua. Non lo invidio, sono io che scrivo”.
Paradossalmente il primo capitolo del romanzo è la morale della storia. La sua conclusione. La spiegazione del perché quel che si racconta nel romanzo è accaduto. Da un punto di vista logico dovrebbe quindi stare alla fine del libro, ma la scrittrice decide di farne il primo capitolo. E’ come se la storia raccontata successivamente fosse un esempio della Teoria del Padrone esemplificata nelle primissime pagine. Può capitare, si dice, di subire il potere di qualcuno in maniera assoluta, di diventare tutt’uno con la sua volontà. Poi scopri di non interessargli più. Vivendo nella speranza di ritrovarlo, passano gli anni e tu cerchi di migliorarti, dimagrisci, studi. Credi di farlo per quando incontrerai di nuovo “il padrone”, ma “senza accorgertene ti allontani inesorabilmente da lui e non lo vuoi vedere mai più”.
Forse a tutti capita di chiedersi quanto si è presenti nella memoria delle persone che abbiamo incontrato e frequentato nel corso della nostra vita. A questa domanda non c’è risposta se non andando a chiederlo a queste persone che magari non si vedono da anni. Ma non lo si fa. Non lo si può fare. L’unica possibilità allora è scriverle queste domande, immaginandoci le risposte. Tenendo presente che, per chi scrive, la fonte principale della propria scrittura è la memoria che, tra le facoltà mentali a disposizione di noi umani, è quella che maggiormente si avvicina all’immaginazione, al fantasticare, all’inventare.