E alla fine si possiede solo ciò che si è dato

Tony era un inglese dalla pazzia tranquilla e garbata e, come ogni giorno, presidiava il solito Pub di Brighton, East Sussex, dove passava il tempo a trasformare le tante ore in altrettante sbornie.

Gli inglesi hanno l’imprevedibilità della gente incivile, il loro genio è senza controllo, così come le loro maniere, il che può renderli grandi… o folli!

Tony era un uomo disperato, anche se non lo sapeva. Aveva pochi peli in testa ed erano tutti scivolati di lato, una barba incolta e incoltivabile, qualche dente mancante rimpiazzato da capsule di seconda mano, il passo corto e pesante, la faccia grinzosa da calciatore che sta per colpire la palla di testa.

Il solito freddo e la solita pioggia all’esterno del locale erano un invito ad abbracciare quel po’ di vita noiosa che banalmente vibrava nel Pub semideserto. Un forte odore di elementi fritti in olio bruciato aleggiava nell’aria, che si confondeva con zaffate di fumo, di sudore, di vite sfortunate.

Tony come sempre se ne stava all’angolo del pub, da solo, a maledire e a maledirsi, bruciando sigarette e polmoni accanto a pinte di Lager Beer e Special Brew, sputando per terra da vero gentleman. Gli occhietti piccoli e inespressivi persi nel vuoto, con la fantasia accarezzava il ricordo dei giorni passati con lei, o a bordo di lei, la sua donna.

Quanto gli manca la sua donna, la sua concubina dei bei giorni che furono. Era sempre stato un uomo solitario, adesso era un uomo solo: non pensava che col tempo sarebbe arrivato a sentire la differenza.

Lui è solo, lei non c’è… ma pazienza! Alla terza birra è come se ci fosse, alla quinta abbiamo già fatto all’amore e non ci lasceremo mai, mai, mai. Il seguito è sublime felicità e sigaretta, momenti perfetti, unici, indimenticabili.

Poco importa se non troverà la porta di casa, se il giorno dopo sarà amarezza e disgusto, tristezza e aspirine. Ora con lui c’è Ilona, quella specie di donna simile a una nave da crociera, con il suo culo lascivo e smisurato.

Tony ricorda con nostalgia i weekend passati con lei nella campagna del verdissimo Sussex, con pernottamento incluso nella sua misera abitazione, dove squallore e decadenza erano di casa.

Lì trascorrevano le ore consumando sesso e dignità, governati da volgari spasmi etilici, persi in un erotismo bestiale e divino nello stesso tempo. Quando non facevano l’amore si limitavano a stare insieme senza parlare, senza farsi domande, semplicemente esistendo: in questo la TV era di grande aiuto.

Tony alloggiava in una gelida stanza, fradicia d’umidità e disillusione, nel sottosuolo di un fatiscente palazzo in stile vittoriano. Materasso e lenzuola avevano un vago lezzo di scampi fermentati, probabilmente dovuto alla presenza di innumerevoli e invisibili acari, come aveva imparato da un documentario sulla BBC.

Ogni volta che si metteva a letto, sotto quella coperta invernale mestamente colorata d’estate, si sentiva un po’ a disagio sapendo di avere come compagni di sonno milioni di questi minuscoli artropodi che saltellavano sulle scaglie della sua pelle morta.

Ciascuno di noi, inclusi i ricchi, i mistici e i potenti, giace ogni notte tra colonie brulicanti di acari. Sono i nostri testimoni più intimi, i padrini dei nostri pudori più reconditi, i garanti dei segreti mimetizzati nel sonno.

Squassati da materasso-moti, travolti da cosce-valanghe, schiacciati da frane di lava seminale, si attaccano alle lenzuola con le loro microscopiche chele, contando i nostri orgasmi, i nostri incubi, le nostre parole notturne.

Ogni notte partono con noi sulla zattera lunare: le loro braciole di forfora marinate nei nostri umori, la colazione bollita nel nostro sudore.

Ilona poteva avere cinquant’anni portati malissimo, o settanta portati bene. Non era bella, ma era tanta. Aveva labbra carnose, guance rosso acceso, palpebre come gusci di noce, un alito che sapeva di cane bagnato ed era larga di fianchi quanto scarsa di ingegno.

Solida e compatta mungitrice ortodossa, piacente in modo grossolano e agricola, era semplice e priva di bizantinismi nella forma così come nella sostanza, pungente però in fatto di umori corporei.

Lei e Tony facevano l’amore sempre al buio, per immaginarsi migliori.

Ilona lasciava la stanza al mattino, ma le sue esalazioni vi stagnavano per tutto il giorno. A causa del suo umidore, perfino la tappezzeria si attorcigliava su se stessa, mentre i vetri si appannavano rimanendo incastonati in quel guscio di umidità e sudore.

Il suo monte di Venere era come la capanna di uno sciamano e i moscerini della frutta facevano picnic sulle sue cosce.

Ogni tanto, al mattino, mentre lei ancora dormiva, Tony restava a osservarla, le sfiorava i radi capelli, la ascoltava respirare, vigilava sulla sua presunta dolcezza.

A volte la fissava così intensamente da svegliarla, e lei, in tutta la sua soavità gli diceva: “Macchemminchiastaiaguardare, non vedi che sto dormendo?”.

Lui, colto in amore flagrante, biascicava timidamente un languido “Che dooolce che sei, sweetheart…”.

Allora lei, con altrettanta melensa dolcezza post-etilica replicava: “Mavaffanculo, girati e non mi rompere! Got it?!”.

Al che Tony si girava, ma appena lei richiudeva gli occhi, si avvicinava alla sua bocca per annusarle il fiato pesante del risveglio, simile a un cane dopo un temporale, spaziava con l’olfatto il suo corpo in lungo e in largo per fiutarne gli odori.

Questo lo riteneva un efficace test d’amore, una prova per capire il grado d’infatuazione che si ha verso una persona: se nonostante le fetide esalazioni ne sei ancora attratto, ebbene sì, sei innamorato!

Quanto le manca! Quanto vorrebbe ancora appartenere a quell’amore, a quel sesso, a quel passato perso nel tempo.

Il sesso: ecco cosa Tony desidera oggi più di ogni altra cosa. Una femmina da possedere e dalla quale essere posseduto, da poter prendere con quella scurrilità impetuosa e maldestra che il suo istinto animale esige.

Certe sere è veramente questione di vita o di morte, la fame carnale è tale da fare proprio male, un male da piangere di solitudine, disperazione e, quel che è peggio, di rassegnazione.

Un racconto di Paul Valenti, illustrato da Valerio NigroPer fortuna, accanto a lui c’è sempre spazio per una birra forte, di quelle che stordiscono, e poi c’è spazio per un’altra e per un’altra e per un’altra ancora… fino a quando dal porto della sua immaginazione non vedrà tornare quel transatlantico femminile che fu la sua donna, anni addietro, prima che fosse rinchiusa in quell’ospedale psichiatrico di periferia.

No, lui non la vuole seguire, non vuole fare la stessa fine…

E allora stasera, in questa grigia nottata autunnale, all’interno del solito Pub color novembre, per salvarsi Tony continua a bere birra scura, amara quanto l’ultimo cocktail di Socrate.

La sente entrare nel circolo sanguigno in un flusso di pensieri pesanti e percezioni affaticate, brutte immagini non desiderate.

Sente di sudare di un caldo chimico. Le gocce di sudore sulla fronte, come girini, migrano giù per il suo collo in cerca di uno stagno. Ogni tanto estrae un fazzoletto e si soffia il naso, esaminando poi attentamente la sua produzione alla luce fioca della lampada a muro, come se potesse ricavarne qualche profezia.

L’incarnazione di una Ilona lontana irrompe con violenza nel cagionevole squilibrio della sua mente e si ritrova a versare lacrime che nemmeno sapeva di possedere: oggi non ha più nessuno a cui dedicare le sue carezze, a cui consacrare i suoi sogni, a cui affidare ogni suo abbraccio e sorriso.

In un riverbero etilico, dalla finestra riesce a vedere uno spicchio di cielo notturno: l’immensità, finalmente. Un’illusione di stelle gli saltellano intorno, come pulci.

La luna inesistente, bianca come le ossa, avanza lentamente verso di lui. Gli si avvicina così tanto da avere l’impressione che lo stia leccando con una grande lingua ferita. Il suo pallido chiarore lo avviluppa come il costume di un clown, voluminoso, gessoso, teatrale, abbottonato con rossi e lanuginosi ponpon d’inquietudine.

Non sa perché, ma tutto questo cielo gli fa venir voglia di miagolare. Tenta un paio di miagolii, patetici, incompleti, poi l’istinto gli dice di tacere.

Il chiaro riverbero intorno a lui gli sembra una luce filtrata attraverso vesciche natatorie di calamari surgelati, surrogati di fantasie lontane.

Dentro, il sangue canta canzoni d’amore non corrisposto e sente che le canterà per tutta la notte, mentre lui scivola dentro e fuori dal sogno e dal delirio, incapace di distinguere l’uno dall’altro.

Il sogno di Ilona che gli spara un bacio alcolico si ripete continuamente. Vive un mezzo sonno travagliato e penoso, con la testa penzolante sul bancone del Pub.

È ben cosciente che senza di lei la sua stessa vita è in pericolo. Sa che non le può resistere e, nello stesso tempo, si rende conto che non la potrà avere. Allora si ribella al sogno, che però insiste, frustrandolo. La catastrofica certezza di non poterla avere vicino, lo attanaglia come una morsa d’acciaio.

Si rende perfettamente conto che stasera potrebbe morire, ma non importa. Una notte di sofferenza come questa vale qualsiasi cosa!

Improvvisamente prova brividi di freddo, di insofferenza e un opprimente desiderio di tornare a casa.

Lascia al loro destino quei pochi disperati attorno a lui e s’incammina con passo da cammello nella notte buia, fiocamente drogata della luce di una luna incrostata di sale.

Si sente in un certo modo perduto, la sua attenzione si fluidifica in una colla di sentimenti sfatti, incapace di affrontare gli attacchi dell’illusione. Sa che se guardi dentro il buio per troppo tempo poi il buio ti guarda dentro, e allora cerca altri sfoghi.

La frustrazione e il senso di solitudine lo spingono a gridare nella notte taciturna e felpata. E grida, grida come un matto. Si rende conto che non è proprio il momento per provocare tutto questo rumore, ma non riesce a fermarsi: è in uno dei suoi momenti di totale non-accettazione delle cose e di completa perdita dei codici.

Suda di un sudore gelido e urla alla luce dei lampioni, alla luna, come un animale non commestibile trascinato al mattatoio.

Si vendica della vita urlando, dimenandosi, sbracciandosi senza senso, senza ritegno, poi s’incammina come al solito mansueto, rassegnato e avvilito verso casa, passando vicino alle scogliere di un’infanzia che non avrebbe mai voluto vivere.

Deviando dal sentiero che lo avrebbe portato indenne a casa, Tony decide di bruciare l’ennesima sigaretta davanti alla presunta immensità all’apice di quei rigurgiti di bianche scogliere che arrivano fino a Brighton.

Il cielo è nero cobalto, con strani riverberi rosso magenta: la pelle della notte è tutta lì, pronta per essere toccata. Un freddo umiliante gli entra nelle ossa.

L’unica nota di rilievo pare essere quella calma opprimente che sale dal baratro che intuisce davanti a sé. Si avvicina. Avverte il respiro monotono delle onde del mare, decine di metri là sotto.

È un attimo inciampare in una radice fuori posto! La vita stessa è poco più di un attimo… e c’è sempre, una qualche radice fuori posto!

Inciampa oltre il sentiero e si sente ruzzolare nella scarpata, insidiosa e ripida.

Vede il buio del dirupo quasi verticale e sporgenze di roccia che gli vengono incontro. Stranamente si rende conto di non avere paura, anzi, di provare addirittura sollievo.

Nonostante i sordi colpi in ogni parte del corpo martoriato, non prova dolore. Un senso di estraneità lo porta a vedere la sua caduta dal di fuori, come se non fosse lui a rotolare rovinosamente, ma solo un povero disgraziato a lui sconosciuto.

Forse è l’incredulità, lo spavento o il senso di non poterci fare niente, che crea una sfasatura tra quello che succede e le percezioni che prova.

Questo neutralizza temporaneamente alcuni sensi e ne accentua altri, così che gli sembra di vedere un film alla moviola con un sistema audio ultrasofisticato: ha una percezione incredibilmente definita del rumore delle pietre che lo travolgono, della sabbia che scivola con lui, degli scricchiolii interiori che produce mentre rotola giù.

Vede il proprio corpo cadere, come una marionetta scomposta, in un breve intervallo lungo quanto l’infinito. Cade e solo ora si accorge di non saper volare…

Implora pietà, implora perdono!

Cade sempre più rapidamente, cercando appigli tra lontane memorie, in un vorticoso rollio di braccia tese, graffiando con le unghie l’aria intorno a lui. La mente vola ai momenti felici prima di questo lungo addio, quando tutto sembrava al di sotto delle nostre anime intrecciate e sospese.

Cade ancora per poco, l’impatto finale è ormai imminente. Si volta indietro, o perlomeno pensa di farlo: vuole dare un ultimo sguardo alla vita dietro di sé.

Uno struggente profumo di viole gli penetra dentro.

Ecco la fine: l’impatto è violento, il buio avvolgente…

… il volto martoriato schiacciato a terra. È tutto buio. Chiude gli occhi, per vedere meglio. Vede una strana neve nera cadere. L’inverno è arrivato, il suo viaggio è terminato.

Venire al mondo è l’inizio verso una fine, maturare è dilatarsi, vivere è perseverare, invecchiare è un modo di sentirsi esausti, morire è una fine oppure, finalmente, il principio di un riposo.

Arrivati al punto di morte il cuore scandisce l’ultimo rintocco, il respiro esala l’ultimo fiato.

E dire che nel corso dell’esistenza non si presta attenzione neppure a cosa ci fa palpitare il cuore.

È proprio vero che dovremmo tutti nascere in punto di morte per capire veramente la vita.

In questa grigia nottata autunnale Tony non teme la morte, forse prova solo un po’ di malinconia al pensiero di smettere di vivere, ma nessuna paura. Miliardi di uomini, miliardi di anime prima di lui ce l’hanno fatta e ce la farà anche lui… ce la sta facendo pure lui.

È facile trovarsi a invidiare i morti. Sono fortunati ad aver risolto il problema e a non dover più vivere. A esser sottoterra, immemori della sofferenza, immemori della paura di morire.

Essi non sono più costretti a vivere, o a morire, o a sentir dolore, o a portare a compimento qualcosa, o a chiedersi che cosa fare poi, o a chiedersi che cosa si prova a morire.

Sente la sua faccia devastata e allegra, il vento e la sabbia che la lambisce. Sorride al suo destino che è stato, che è, e che mai più sarà.

Si rende conto che questi sono i suoi ultimi pensieri e prova sollievo. Inspira un intenso profumo di viole astrali, l’essenza dell’anima finalmente libera.

La realtà tangibile si scompone dissipandosi nei contorni del nulla: lo spirito è materia vista da dentro, la materia è spirito visto da fuori.

Era da un po’ di tempo che lo sospettava, ma stanotte lo sa con certezza: morire non è poi la cosa peggiore che possa capitarti.

Lui sta morendo e finalmente ha trovato la pace. Il dilemma è risolto. Quel che è paradossale è che c’è voluta una vita intera per arrivare a questo momento…

Prima della nascita aveva dietro di sé un tempo illimitato, che non si sarebbe esaurito nemmeno dopo la sua morte. Da vivo non lo prendeva in considerazione, si limitava a vivere nella luce, nel tempo che passa tra due oscurità, senza nemmeno rendersi conto che l’esistenza aveva i giorni contati.

Aveva a portata di mano la felicità, ma non lo sapeva. Solo ora lo capisce…

Sente sommessi rintocchi di lontane e improbabili campane, gli ultimi per lui… il loro suono lo riporta all’infanzia. Non è che la vita potrebbe dargli un’altra opportunità e ricominciare?

Mah… non si aspetta nulla e non cerca risposta. Sorride dentro di sé. È felice, finalmente!

È una felicità immensa, evidentemente eterna.

Con gli occhi chiusi vede delle ombre che a poco a poco s’innalzano. Il fondo oscuro si allarga come immerso in un lago di buio. Questo è il tramonto di ogni luce, il crepuscolo nell’orizzonte degli eventi, i vari universi paralleli che convergono in un unico punto, qui, ora…

Cosa è quell’onda altissima, quell’onda profondissima di buio che gli cade addosso?

… è un buio di una luce intensa… laggiù… sta tornando a casa… è una vita che manca…

Nello stesso momento, non molto distante da lì, in quella stessa grigia nottata autunnale, in silenzio una donna non bella ma tanta, simile a una nave da crociera, con il suo culo lascivo e smisurato, con l’alito che sa di cane bagnato, è riuscita a eludere la sorveglianza ed è salita sul cornicione dell’ultimo piano di un ospedale psichiatrico di periferia.

Il cielo è nero cobalto, con strani riverberi rosso magenta: la pelle della notte è tutta lì, pronta per essere toccata. Un freddo umiliante le entra nelle ossa.

L’unica nota di rilievo pare essere quella calma opprimente che sale dal baratro che intuisce davanti a sé.

Allunga il passo e…

… alla fine si possiede solo ciò che si è dato!

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Paul Valenti

Paul Valenti

Piemontese di nascita e, malgrado le raccomandazioni di chi mi diceva “Gira pure il mondo ma non uscire mai dall’Italia”, dal 1995 residente in Vietnam, confine ultimo dell’intangibile logica orientale, dove ho avviato alcuni ristoranti italiani, consuete zattere di sopravvivenza per italici in cerca di fortuna o in fuga da se stessi.

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