In quest’onda perpetua di plot, personaggi, tendenze e stili; in questo fiorire di volti, tematiche, suggestioni, di scene madri e battute talvolta memorabili, sul serio si rischia di perdere il filo barcamenandosi nell’universo labirintico delle serie televisive. Eppure, inevitabile, alcune s’impongono. Gusti personali o tendenza di massa, producono opinioni, fioriscono emozioni. Ecco le scelte di chi le scrive, o le produce, di chi le studia, o le usa per insegnare e di chi, in ogni caso, ne “macina” parecchie.
Stefano Piani, fumettista e sceneggiatore di serie tv
La migliore: Mindhunter. E’ la storia di un profiler che confrontandosi con un serial killer, si avvicina troppo all’abisso.
– Già visto!
E invece no, cari lettori. Perché basta ambientare la vicenda negli anni ’70 quando il profiling ancora non esisteva, prendere come base di partenza un libro autobiografico di John Doglas, uno che quella roba lì l’ha inventata, farlo adattare da un bravo commediografo e, soprattutto, mettere David Fincher a dirigere il tutto, per trasformare quella che poteva essere solo l’ennesimo deja-vu, in un capolavoro.
In breve, l’agente Holden Ford intuisce che i mezzi a disposizione dell’FBI per catturare i serial killer e, soprattutto, prevenire i loro crimini non bastano più. Devono capire meglio i comportamenti di questi assassini, i motivi profondi che stanno dietro ai loro delitti, ma non sa ancora bene come sia possibile. Almeno fino a quando non incontra Ed Kemper, uno dei più efferati assassini seriali della storia…
Fatevi un regalo: guardate la prima stagione di Mindhunter, la trovate su Netflix.
La peggiore: Walking Dead 8. Se avessi dovuto scrivere queste poche righe anche solo una settimana fa, sarei stato in seria difficoltà, perché nel 2017, di serie brutte, ne ho viste davvero molte. Poi mi sono volontariamente imbattuto nell’ottava puntata di The Walking Dead e ho capito che quello che cercavo era lì, che era quella la peggior serie del 2017. E chi se ne frega se ne mancano altre 8 alla fine della stagione: quello che ho visto fin qui basta e avanza. E nemmeno se le prossime dovesse scriverle un dream team composto da: Vince Gilligan, Aaron Sorkin, Ryan Murphy, David E. Kelley e Amy Sherman-Palladino (il meglio del meglio oggi in circolazione), cambierei idea. Per quanto mi riguarda, questo 2017 sarà ricordato come l’anno in cui The Walkind Dead è diventata una brutta serie.
Gianna Angelini, semiologa
Mindhunter, la serie prodotta da David Fincher e Charlize Theron che segue le vicende degli agenti speciali dell’FBI Holden Ford e Bill Tench, nell’America degli anni ’70 (qui trovi la mia recensione). Le loro indagini psicologiche sperimentali sui serial killer porteranno alla nascita del programma di “Criminal Profiling”. La serie segue la vicenda dal punto di vista soggettivo degli agenti. In particolare ci fa affezionare al giovane Holden che, nell’arco delle puntate, subirà una trasformazione psicologica e comportamentale di pari passo con l’evoluzione della storia. Una serie che decolla lentamente, ma che rapisce l’attenzione una volta entrati nel mood. Da non perdere assolutamente.
In un momento di grande discussione sul ruolo femminile nella società, Godless mette le donne al centro di uno dei generi cinematografici in cui sono sempre state tradizionalmente escluse: il western. La miniserie creata e diretta da Scott Frank in collaborazione con Steven Soderbergh, racconta la lotta per la sopravvivenza del giovane bandito Roy Goode, in fuga dopo aver tradito il compagno di rapine Frank Griffin e la sua banda. A fare da contenitore alla storia, la resistenza di un gruppo di donne rimaste sole dopo la morte di tutti i loro uomini, vittime di un grave incidente in miniera. Asset narrativo originale e mai scontato, personaggi costruiti in modo minuzioso e intelligente, di sicuro la più grande rivelazione di quest’anno (leggi qui la nostra recensione).
La più grande delusione del 2017? Games Of Thrones 7. Non avevo nascosto qui la mia delusione. Gli sceneggiatori della serie che ha appassionato milioni di spettatori, rimasti soli e orfani di George Martin nella scelta dei contenuti, commettono degli errori difficili da perdonare. La fretta di giungere a una conclusione – la serie si chiuderà l’anno prossimo con la sua ultima stagione – unita alla tentazione di ingabbiare la storia entro dinamiche narrative tradizionali, fanno male.
Menotti, sceneggiatore di cinema e tv (Lo chiamavano Jeeg Robot e Benedetta follia)
È dai tempi di The Office (2001) che il mockumentary (falso documentario) domina i palinsesti USA e UK. Macchina a spalla, regia nervosa, luci approssimative, battute improvvisate, storie di vita vera. Naturalmente è tutto falso. Di improvvisato in queste serie c’è ben poco.
Specialmente in Bojack The Horseman, se non altro perché il protagonista, un attore di mezza età, ricco ma non più famosissimo, protagonista di una sitcom di successo negli anni ‘80, ha il corpo di un uomo e la testa di cavallo. Ah, ed è un cartone animato. Eppure il personaggio di Raphael Bob-Waksberg sembra umano, perché pensa, parla e soffre come tutti noi. Come noi è stronzo e narcisista, e cerca un riscatto dandosi al cinema o alla letteratura. La serie è disegnata da Lisa Hanawalt, creatrice di una Los Angeles letteralmente multirazziale, dove si può incappare in camerieri coi tentacoli e hostess con il becco che volano via in divisa.
Curb Your Enthusiasm è la serie mockumentary più longeva. Larry David, già creatore di Seinfeld è un geniale manipolatore di stereotipi. In Italia è sottovalutato, perché fa ridere scavando nelle contraddizioni dell’ideologia politically correct americana. Anche lui è un egocentrico narcisista, ma è del tutto innocente quando sciocca i suoi amici regalando una macchina da cucire rosa a un bambino palesemente gay. O spera nella morte di un paziente in coma che potrebbe risparmiargli la donazione di un rene a un caro amico.
Metto tra i dislike The OA, di Brit Marling e Zal Batmanglij, ma non perché è una serie brutta. Anzi, è un tentativo coraggioso di trascendere la necessità di avvincere lo spettatore con una storia, procrastinando all’infinito la risposta agli interrogativi che pone, compreso quello del titolo. Così facendo, inevitabilmente, si espone all’insofferenza di spettatori troppo impegnati per potersi permettere ore di visione di uno show dove perlopiù non succede niente.
Angelo Salvatori, libraio, libreria Fahrenheit, Roma
Rectify è pura musica da camera. C’è un protagonista, Daniel, condannato alla pena capitale per aver ucciso, forse, la sua ragazza, quando era adolescente. La famiglia, intimamente frantumata, sostiene la sua innocenza. Grazie ad un avvocato motivato, il caso si riapre, il giovane/uomo torna alla vita. Qui arriva il bello. Come si “rettifica” la vita per qualcuno a cui sono state tarpate le ali per quasi vent’anni?
La serie tenta di rispondere a questo interrogativo. Non importa l’indagine – che pure procede -, ciò che conta è il riassestamento nel flusso del tempo di un individuo che una parte di quel tempo non ha potuto viverlo. Come si arrivi alla commozione resta comunque un enigma sopraffino a cui è impossibile non abbandonarsi.
L’altro rilucente tv show che ho seguito ultimamente è Penny Dreadful. Siamo agli antipodi di Rectify. La realtà minima modulata su un dubbio è qua orchestra di anime ferite e fantasmi letterari. Londra non è mai stata così incantata nei suoi bagliori vittoriani. Dorian Gray, il dottor Frankenstein e la sua creatura, vampiri, uomini lupo. Una combriccola di eleganti aristocratici con più scheletri nell’armadio. Il sortilegio, per lo spettatore, è questo continuo affondare nell’orrore ma con grazia, con il piacere di far parte di un mondo oscuro abbagliante di preziosissimi dialoghi, scenografie e costumi filologici fin nel minimo dettaglio, dotte variazioni sul mito, con al centro l’eroina ruba-scena Vanessa Ives, resa da una Eva Green semplicemente, per restare in tema, da urlo.
Contraltare parzialmente deludente non può che essere 13. Argomento bollente, il suicidio adolescenziale raccontato dalla voce post-mortem di Hannah, la ragazza che condanna i suoi “amici” per il gesto compiuto. Nobili intenti eppure: cos’è che non ingrana? Credo l’eccesso di una costruzione iper geometrica, un puzzle che si compone levigatissimo ma saturo di stereotipi, soprattutto nel profilo caratteriale dei personaggi: il leader sportivo ricco e cattivo, la “secchiona”, l’escluso, etc. Gli scapestrati, disordinati teenagers della fiction inglese Skins erano un’altra cosa.
Cristina Pittalis, story editor e producer di serie tv (Elisa di Rivombrosa, Carabinieri)
Speechless è la mia serie dell’anno, quella che mi ha fatto morire dal ridere e mi ha stretto il cuore di con-passione. Formalmente, si presenta in maniera modesta: sitcom ABC in onda su Fox Italia quest’estate con un posizionamento decisamente defilato. Il protagonista senza parole, J.J., è un ragazzo delle superiori che, affetto da paralisi cerebrale e tetraplegico, comunica indicando su una sorta di tablet lettere e parole con un puntatore luminoso che tiene in bocca. Ma il vero motore della storia è una madre guerriera, pronta ad azzannare chiunque “ostacoli” il figlio.
Maya (Minni Driver) affonda con ferocia e gioia vendicativa la lama delle sue parole in tutti quelli che credono di essere “politamente corretti”. Tira pugni contro il vuoto buonismo e l’inutile compassione, contro l’ipocrisia. Si ride tanto, ma a renderla speciale, ai miei occhi, è la profondità dell’analisi del reale chiusa in ogni singola battuta e la verità dei sentimenti che legano tra loro questa famiglia sfinita, ma non vinta, da una guerra quotidiana contro i gradini, la casa da tenere in ordine, due fratelli “normali” con una loro vita da vivere, un padre che vorrebbe solo il divano per guardarsi una partita.
Mozart in the Jungle: confesso di non poterne scrivere approfonditamente perché l’ho abbandonata dopo una puntata e mezzo. Eppure: quattro stagioni, un Golden Globe come migliore comedy… Riporto da Wikipedia: “Rodrigo De Souza è un enfant prodige votato totalmente al suo ruolo di nuovo direttore dell’Orchestra Filarmonica di New York.
Ribelle e ossessionato dalla propria immagine, con il suo genio e il suo stile di vita spiazzante, Rodrigo è la dimostrazione di quanto il mondo della musica classica sia accattivante tanto sul palcoscenico quanto dietro le quinte”. Bellissima idea. Ma che ci fa Monica Bellucci tra filari di vite vestita come una neocoloniale a biascicare in pessimo inglese (o doppiata da se stessa in altrettanto biascicato italiano)? Non lo so, non mi ha dato il tempo di capirlo, la vita è troppo breve per infliggersi tanta inutile sofferenza.
Henric M Bergsåker, fisico svedese, abitante a Stoccolma.
Ho rivisto su Netflix la serie inglese Doctor Foster, con Suranne Jones. Pare che abbia avuto molto successo in Inghilterra e ora lo ha anche in Svezia. Trovo la serie squisita, per via di Jones, ma anche degli altri attori. Poi la trama è coinvolgente. La protagonista è una donna intelligente, forte, bella, quarantenne, che fa il medico. Scopre che il marito la tradisce con una ragazzina.
Gli chiede se sta vedendo qualcuna, gli dice che potrebbe perdonare i fatti, ma non delle bugie. Lui sceglie di mentire. E’ una scena chiave. Poi lei scopre che il marito le ha nascosto anche la sua situazione economica, ha fatto sparire i loro risparmi, ha preso un grosso prestito sulla loro casa, falsificando la sua firma. Il marito è bugiardo, ma anche intrappolato nelle sue bugie. Lei vacilla, divorzio o no? Comincia ad avere problemi col lavoro. Sembra si sia decisa a vendicarsi in qualche maniera… A me piace ancora vedere queste donne forti, alla fine uno se ne stancherà suppongo, ma ancora no!
Una mia favorita è la serie francese Le bureau des légendes. È coinvolgente, c’è molta action e suspense, politica internazionale, ma anche una storia d’amore abbastanza bella. Agenti, spie, ambiente medio-orientale, Africa del nord. Dà una sensazione di realismo e i personaggi sembrano convincenti. L’agente francese è così freddo, competente, sicuro, dedito, ma ormai rincorre solo la piccolissima speranza di salvare la donna che ama, prigioniera di Hezbollah e poi del governo di Assad. Lo trovo molto comprensibile, specie trattandosi di un amore addirittura reciproco, non infelice come sono i miei.
Brutte? Ce n’è una che si chiama Mr Robot. Noiosa, ho smesso di guardarla.
Roberto Santoro, esperto di comunicazione, fondatore di Seriously.
Quest’anno abbiamo imparato molto da Ray Donovan e Vikings. Ray Donovan, il crime creato nel 2013 da Ann Biderman per Showtime, e Vikings, l’historical drama scritto da Michael Hirst per History Channel.
Ray Donovan, faccendiere di un’America sempre più nera, dove spadroneggiano malvagità e sopraffazione, perde sua moglie Abby per una grave malattia. Questo fantasma dolcissimo che continua a fargli visita giorno e notte, questo spettro tanto amato fra una bottiglia di liquore e l’altra, assume il senso di una consolazione che solo l’arte, il cinema, la letteratura, riescono a dare (con buona pace dello psicologismo d’ordinanza, per cui senza fare i conti con i traumi del nostro passato non riusciremmo ad andare avanti, anche se non si capisce bene però avanti dove). Ray, che per carattere non è tipo da farsi medicalizzare, il suo fantasma, il suo trauma, se lo tiene stretto. Per sempre.
Il mondo del resto è sempre stato violento, nella Hollywood di Ray Donovan come nel medioevo di Vikings (qui trovi la nostra recensione) un bignami storico sui popoli del Nord Europa che andrebbe trasmesso a canali unificati in tutte le scuole.
Partiti dalla Scandinavia e sbarcati nel Mediterraneo, nella Sicilia bizantina sotto controllo arabo, i vichinghi si scontravano già allora con le altre civiltà, mossi da una inesauribile voglia di viaggiare, scoprire, conoscere. E razziare. Insuperabile il personaggio di Floki, costruttore di barche, che in questa stagione assume tratti semidivini, approdando in un altrove fatto di vulcani fumanti, spazi sconfinati, terra mare e cielo, uniti in scene meravigliose, degne del grande cinema epico. Ecco, qualcosa su noi stessi e qualcosa sulla storia, il passato, l’identità europea. Le serie tv insegnano sempre molte cose.
Tiziana Zita, story editor e producer di serie tv, direttore Cronache Letterarie
“Ecco, mettiti comodo, ti racconterò la storia della mia vita. In particolare perché è finita. E se stai ascoltando questa cassetta, tu sei uno dei motivi”. Chi parla è Hannah Baker, studentessa al terzo anno di liceo che si è sucidata. Le ragioni per cui lo ha fatto le ha registrate su 13 cassette, destinate alle 13 persone che l’hanno spinta ad uccidersi. Sentiamo il racconto dalla voce della ragazza morta e questo è già di per sè toccante e angosciante.
Tutti i temi vi sono trattati, a partire dal bullismo e cyberbullismo (prima causa di suicidio tra i giovani), la violenza sessuale, l’omosessualità, l’abuso di alcol e sostanze. Ma soprattutto 13 reasons why ci mostra che l’adolescenza è il periodo dei segreti, pesanti come macigni e indicibili. Un mondo scorre parallelo a quello ufficiale, familiare, solito, un mondo in cui succedono moltissime cose che però gli adulti non vedono, anche se è proprio sotto ai loro occhi.
Delusa? Dalla seconda stagione di Broadchurch. Era tutto chiuso alla fine della prima e si capisce che gli sceneggiatori hanno riaperto la storia a forza, ingarbugliando.
Sorvolerò su The Night Of, This is Us e Ray Donovan (che adoro!), per andare dritta dritta a Million Yen Women, serie giapponese appena sfornata su Netflix – che l’ha anche prodotta insieme a TV Tokio – strana anche nel formato: 12 episodi di 22 minuti l’uno. Shin Michima è un fantomatico scrittore con un padre in attesa di essere giustiziato per aver ucciso la moglie, il suo amante e l’agente che ha tentato di fermarlo.
Shin vive da sei mesi con cinque donne che un bel giorno si sono presentate a casa sua, dicendo che hanno ricevuto un invito a vivere con lui e che ogni mese gli pagheranno un milione di yen (circa 8 mila euro) a testa di affitto. In cambio Shin deve occuparsi di loro. Li troviamo così tutti intorno al tavolo come una tranquilla famigliola. Le donne sono belle, di diverse età e professione. Ce n’è una che sta sempre nuda. Non si sa chi le abbia invitate e per quale motivo. Malgrado viva con cinque donne, una più bella dell’altra, lo scrittore va a fare sesso con una prostituta. Perché? Ci sono delle regole da rispettare e tanti misteri da spiegare. Intrigante e murakamiano.
Vedi anche Le migliori e le peggior serie del 2020