Tremila complicati anni di storia hanno reso Gerusalemme un rebus impossibile da decifrare. Una croce, una mezzaluna ed una stella sono simboli di pace per miliardi di uomini. A Gerusalemme, basta alzare lo sguardo in una qualsiasi direzione per vederli l’uno accanto all’altro. Tre simboli che dovrebbero suggerirci un rebus dalla soluzione scontata. Eppure, ad oggi, questa soluzione, scontata non sembra esserlo affatto.
Ho deciso di provare a raccontare Gerusalemme partendo, come ogni volta, dal modo in cui ci sono arrivato.
Nel corso dei secoli, il viaggio verso Gerusalemme è sempre stato di grande interesse. Le “chansons de geste” dei cavalieri medievali che si recavano in Terra Santa sono alla base delle letteratura cavalleresca, dalla quale, in un modo o nell’altro, l’Occidente ha attinto a piene mani per la costruzione dei propri miti.
Ma senza scomodare impietosi paragoni cavallereschi, non posso nascondere che quello che la città mi ha trasmesso sia anche, e soprattutto, frutto delle esperienze fatte per raggiungerla o attraversarla.
E’ il dicembre del 2014. E’ il mio primo viaggio verso Gerusalemme e mi sono preparato molto. In realtà era da tempo che mi preparavo, visto che quel dicembre non era il mio primo tentativo di affrontare un viaggio verso Israele. Avevo già provato a partire una decina di anni prima, ma all’epoca la situazione a Gaza era peggiorata di colpo, e la cosa saltò.
Dalla seconda Intifada del 2001, Gerusalemme non ha più un aeroporto.
Quello di Tel Aviv dista meno di 60 chilometri di autostrada, tanto che se questo fosse un posto come gli altri, non sarebbe sbagliato pensare che per due città che insieme non arrivano ad un milione e mezzo di abitanti, sia giusto così.
Ma questo non è un posto come gli altri. Non lo è mai stato.
Ed il fatto che la città riconosciuta come la capitale d’Israele dal presidente degli Stati Uniti non abbia uno scalo aereo, ha soprattutto implicazioni politiche. Per mia fortuna, rientro tra quelli per cui atterrare in Israele non rappresenta un problema, così affitto una macchina e mi dirigo verso la più santa delle città sante.
A un certo punto, quando la strada inizia a salire verso l’altopiano che separa il Mediterraneo dal Mar Morto, si notano dei vecchi carri armati. Sono qui dalla guerra del 1948, anno in cui nasce lo Stato di Israele e per gli israeliani sono una sorta di monumento storico.
Il mio viaggio ha una direzione precisa. Devo arrivare al Museo di Israele, proprio sotto la Knesset, il parlamento israeliano.
E’ la prima volta che l’Annunciazione del Botticelli è esposta a Gerusalemme ed io sono in ritardo. E’ inverno, ma non fa freddo, l’aria è piacevole e tutto sembra quasi normale.
Ho fretta, sono qui per lavoro e non ho tempo di concentrarmi sui dettagli di ciò che mi circonda.
I vecchi carri armati lungo l’autostrada sono più vecchi del muro di Berlino e la sensazione che restituiscono è un po’ la stessa di quando, proprio a Berlino, ti trovi davanti a quei resti di muro imbrattati da inchiostro: li vedi e sai già che appartengono al passato.
Una sensazione un po’ surreale. Ma che si esaurisce presto, visto che all’ingresso del museo torna la consapevolezza di dove mi trovo. Un centinaio tra ragazzi e ragazze sono in fila davanti a me. Hanno in programma una visita guidata e, siccome stanno facendo il servizio di leva (qui la leva è obbligatoria: 36 mesi per gli uomini, 24 per le donne), indossano la mimetica ed imbracciano un fucile mitragliatore. E’ strano. Ridono e scherzano, ma non lasciano mai la propria arma.
La serata scorre come se fossimo in un qualsiasi altro museo sulla Terra. Si parla di arte, d’Italia, di cibo e poi arriva il momento di tornare a casa. Il mio hotel è a Tel Aviv e dò un passaggio ad altri ospiti dell’evento che, come me, devono tornare sulla costa.
Una serata che sembra normale. Ma, ancora una volta, questo non è un posto normale.
Complice il navigatore, che a breve tornerà ad essere protagonista di queste righe, sbaglio uscita in uno dei raccordi dell’autostrada. Il silenzio cala nell’abitacolo. Siamo in mezzo al nulla e mi rendo conto da solo di non essere dove avrei dovuto. Le indicazioni per Tel Aviv sono ancora ben segnalate e per questo mi convinco di non aver fatto niente di grave, se non ritardare di qualche minuto il rientro a casa. Ma così non sembra a miei compagni di viaggio, che mi pregano di accelerare.
Il cambio di tono è repentino e non nasconde la strana tensione in cui sembra che io li abbia fatti piombare. Sono israeliani, ma non vivono in Israele da molto, hanno avuto giusto il tempo di ascoltare storie di chi, sbagliando strada, si è trovato davanti all’inferno. Per fortuna, riesco velocemente a rientrare in autostrada e tutto torna come prima. Ancora oggi mi chiedo se quei 5 minuti surreali, fossero paranoia estemporanea o frutto di un pericolo reale.
La conversazione scivola sui carri armati che ho descritto all’inizio. I miei compagni di viaggio sono piuttosto ferrati sulla storia di Israele. Il loro punto di vista è fin troppo chiaro. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, sono gli arabi a non aver accettato la “risoluzione 181” del 1947, quella con cui l’Assemblea Generale della Nazioni Unite aveva approvato la divisione del territorio palestinese in due Stati: uno ebraico, l’altro arabo (Gerusalemme sarebbe dovuta rimanere sotto il controllo internazionale).
Fino al 14 Maggio 1948, la Palestina era stata un Protettorato Britannico. Lo era diventata alla fine della Prima Guerra Mondiale, dopo la caduta dell’Impero Ottomano.
Prima della fine di quel conflitto, però, era successa una cosa che avrebbe condizionato tutto quello che sarebbe successo in seguito. Il Ministro degli Esteri inglese Arthur Balfour, aveva scritto a Lord Rothschild, il principale esponente della comunità ebraica inglese, una lettera che ancora oggi è conservata nella British Library. Se i britannici avessero vinto la guerra, agli Ebrei sarebbe stato concesso di dar vita ad una National Home in Palestina.
Quelle 16 righe, datate 2 Novembre 1917, hanno cambiato il corso della storia perché lì si pongono le basi per la fine della diaspora.
Mentre loro continuano a sciorinare fatti e dati, arriviamo a Tel Aviv. Non a caso la chiamano “la bolla”. Quello che accade tutto intorno sembra essere lontanissimo e i suoi abitanti si sentono più vicini a Londra, Roma o Parigi, che a Damasco, Beirut o Il Cairo.
La seconda volta che sono andato a Gerusalemme, ci sono finito per caso.
Nel microcosmo di chi si occupa di documentari come me, soprattutto in Europa, non è raro incontrare israeliani e palestinesi. La loro Terra è una miniera di storie. Ho diversi amici che vivono di qua e di là del muro che divide Israele dai Territori Palestinesi e volevo andare a Ramallah, quella che è ancora (almeno per il momento) la sede dell’Autorità palestinese.
Ad aspettarmi lì c’è Buthina. Anche lei è regista. La sua famiglia è cristiana e vive a Taybeh, una città a 30 km da Gerusalemme. Nel Vangelo di Giovanni, si narra che Gesù visse in questa città per diversi mesi ed io non so se è questo il motivo, ma di fatto Taybeh è l’unica città interamente cristiana della Cisgiordania.
Taybeh è anche il nome di una birra, quella che produce la famiglia di Buthina, ed ha uno slogan particolare: “Taste the revolution”
“Taste the revolution” avrebbe dovuto essere il titolo del documentario che avrei voluto girare. Ma ci aveva già pensato da sola Buthina a farlo e quindi non mi rimaneva che abbandonare il mio proposito e andare a vedere come nasce la birra palestinese.
L’appuntamento con Buthina è al Qualandia check point. Prendo la macchina da Tel Aviv e mi accingo a partire. Per prima cosa digito digito “Qualandia” sul navigatore, ma non succede nulla. Provo a scriverlo con la K, “Kalandia”. Nulla. L’unica cosa che il navigatore mi restituisce è questo testo: “Not able to calculate the route”.
Chiamo Buthina che si fa una risata. Dice che è normale: i navigatori satellitari israeliani non riconoscono la Cisgiordania. Dunque capisco che il mio navigatore sia in grado di portarmi solo fino a Gerusalemme.
Arrivato in città, provo a chiedere la strada ai passanti. Nessuno sembra sapere di cosa stia parlando. Allora provo a chiedere ai tassisti. Anche loro non sanno dove sia Qualandia. Qualcuno mi guarda come se fossi un pazzo. Uno me lo dice addirittura in faccia. Andare oltre il muro con “the yellow plate”, la targa israeliana, è un gesto folle.
A questo punto richiamo Buthina. Va bene che ho iniziato questa storia parlando di cavalieri in viaggio, ma farsi prendere a sassate dentro un’auto a noleggio non rientra tra le mie definizioni di eroismo.
Lei ancora una volta si fa una risata al telefono. La macchina con la targa gialla ce l’hanno in molti in Palestina. Serve a passare più velocemente ai check point. Insomma, lei di rischi non ne vede proprio e mi consiglia di chiedere informazioni ai tassisti di Gerusalemme Est, dove vivono i palestinesi.
E così ci provo ancora, finendo nel traffico caotico della città. L’obiettivo è trovare qualcuno disposto a farmi da apripista e che io possa seguire fino a Qualandia. E così mi perdo nella Gerusalemme che tutti i giorni va al lavoro, porta i figli a scuola, va a fare la spesa. Ancora una volta mi concentro sugli elementi che la fanno sembrare una città come le altre.
Ma Gerusalemme non è una città come le altre.
La differenza tra Est e Ovest appare evidente nell’architettura e nelle strade.
Si dice Est per indicare i luoghi ad est della linea verde definita dopo l’armistizio del 1949, alla fine della prima guerra arabo-israeliana, quella dei carri armati lungo l’autostrada per intenderci. Ma le coordinate geografiche hanno una valenza relativa. La Città Vecchia, dove ci sono i più importanti santuari della cristianità, fa parte di Gerusalemme Est, anche se ad est non è.
La Spianata delle moschee è a Gerusalemme Est, così come il Muro del Pianto.
Per capire dove sia la linea verde, mi consigliano di fare riferimento alla linea del tram, uno dei pochi elementi che fa da collante tra le due parti.
Finalmente trovo il tassista e dopo una ventina di minuti e 50 euro in meno, sono in fila con tutte le altre macchine che devono attraversare il check point. Sono desolato. Sono in ritardo di quasi due ore e mentre aspetto il mio turno mando messaggi di scuse alla mia amica al di là del muro. Ma Buthina risponde con uno smile.
Per lei questa è la normalità.