La globalizzazione vista da un paese del terzo mondo
Dopo aver letto, apprezzato e recensito su queste pagine il libro dell’autore vietnamita Viet Thanh Nguyen, Il simpatizzante, vincitore del premio Pulitzer 2016, mi è capitato ultimamente tra le mani un testo di un altro autore iscritto all’albo dei vincitori del Pulitzer, il giornalista americano Thomas L. Friedman, che parla di un tema che ha inesorabilmente stuzzicato la mia vena di disquisizione e del quale voglio parlare, essendo emotivamente, fisicamente e geograficamente coinvolto, in quanto residente in Vietnam dal 1995.
Il testo in questione, Caldo, piatto e affollato non è nuovo, anche se parte dei temi Friedman li ha ripresi ed egregiamente sviluppati in un’opera uscita da poco: Grazie per essere arrivato tardi, edito da Mondadori.
Anche l’argomento non è nuovo ma è ancora molto attuale, oltre che controverso: la globalizzazione. Però vista da un Paese del Terzo mondo.
È un tema sul quale spesso mi confronto con gli occidentali che ho modo di incontrare da queste parti, e del quale parlo con i vietnamiti stessi, inconsapevoli del dibattito a suo modo paradossale che è in atto nel nostro Occidente.
“Non sarà la carità a sfamare il mondo, ma il commercio”.
Diceva Darwin 150 anni fa. E quel grande processo di sviluppo dell’umanità denominato “globalizzazione” lo sta in buona parte dimostrando.
La globalizzazione è stata infatti la più grande panacea per l’umanità. Secondo molteplici indicatori, il mondo sta attraversando il periodo più straordinario della sua Storia: gli ultimi venticinque anni sono stati i migliori per il genere umano nel suo insieme. Mai si era visto nascere, in un lasso di tempo così ristretto, un nuovo ceto medio di centinaia e centinaia di milioni di persone, finalmente libere dal giogo di una povertà più o meno estrema.
Non è facile da far passare questo concetto in Italia e in Europa, ma se consideriamo la cosa da un punto di vista del popolo di un Paese arretrato come il Vietnam – dove ho visto il fenomeno applicarsi, prendere forma e crescere – sono enormi e innegabili i vantaggi che ne sono derivati. Il tutto a discapito, è vero, dell’Occidente sviluppato, cioè di quella piccola parte di mondo che si è arricchito quando i tre quarti del pianeta erano rinchiusi in se stessi per motivi politici e inefficienze varie. Basti pensare all’Unione Sovietica e le sue nazioni satellite, a quasi tutta l’Asia, al Sud America.
Il Vietnam, come tutti i Paesi che soffrivano di indigenza, moriva dalla voglia di uno scossone che ridistribuisse la ricchezza. E lo scossone lo abbiamo dato proprio noi ricchi con la globalizzazione, che ha permesso a miliardi di cinesi, indiani, asiatici e, in parte anche ai latinoamericani, di entrare in concorrenza diretta con l’Occidente e sottrarci un po’ di quel “grasso” accumulato in passato.
Questo ha portato al fatto che per la grande maggioranza degli abitanti del pianeta le condizioni di vita oggi sono di gran lunga superiori a quelle di venticinque anni fa, malgrado la nostra percezione possa suggerire il contrario.
La percentuale delle persone che vivono in miseria si è dimezzata negli anni Novanta
Infatti, dati alla mano, nonostante la notevole crescita demografica, la percentuale di persone che vivono nella miseria si è dimezzata dai primi anni degli anni Novanta a oggi, e molto probabilmente scenderà ancora. L’educazione di base e il tasso di alfabetizzazione è clamorosamente aumentato, raggiungendo l’86% della popolazione del pianeta (statistica dell’Unesco riportata dal sito della World Bank). La conflittualità tra i popoli è diminuita. I vaccini contro molte malattie terribili sono praticamente universali. La mortalità infantile è crollata. L’aspettativa di vita è aumentata di molto, anche nelle aree meno sviluppate. La tecnologia ha reso possibile l’accesso a ogni forma di informazione e di comunicazione, spesso gratuitamente. La qualità dell’assistenza sanitaria è migliorata in tutto il mondo e la quantità delle persone che ne possono usufruire è aumentata in modo esponenziale (Fonti: Onu, Unesco, Unicef, Who, World Bank, Undp, Ocse).
Insomma, c’è senz’altro ancora molto da fare e di sicuro la globalizzazione va gestita meglio, eliminando abusi ed eccessi, ma risorse, diritti e benefici sono planetariamente distribuiti in modo molto più equo che non nel passato.
Il paradosso è che, di fronte a tutto ciò, in Occidente spesso sentiamo alzarsi un coro di accuse contro le vere cause di questo successo: il libero mercato e la globalizzazione.
Detto ciò, potete pure insultarmi…
Sì, perché a quanto pare demonizzare lo sviluppo è “politicamente corretto”, almeno se si è occidentali e benestanti.
Il fronte anti-globalizzazione si manifesta quasi solo all’interno del mondo già industrializzato e sui palcoscenici dell’ ”uomo bianco” e, paradossalmente, non nelle diseredate metropoli degli altri continenti direttamente interessati al “tanto biasimevole” fenomeno. Da lì, semmai, arrivano richieste di un’ancora maggiore globalizzazione.
Demonizzare lo sviluppo
Il fatto è che noi occidentali vogliamo essere sempre i protagonisti, abbiamo sempre la strana presunzione di capire le culture locali meglio dei locali e di doverle spiegare a tutti, inclusi i locali stessi. Stimiamo così tanto questi popoli di cui ci autoproclamiamo interpreti, però non ne stimiamo i singoli esponenti al punto da lasciarli parlare per conto proprio, senza ergerci a loro tutori.
Ogni volta che in Asia sono state intraprese delle azioni di modernizzazione tecnologica e sociale per migliorare le condizioni di vita della popolazione, pare sempre che una buona parte dell’Occidente, specialmente quella più radicale e illuminista, se ne dispiaccia e si lamenti perché ritiene che con il progresso si mettano in pericolo i pilastri della tradizione artistica e spirituale locale.
E magari i singoli che si lamentano e protestano contro la faticosa ma prorompente marcia verso la modernità di centinaia di milioni di esseri umani, lo fanno stando seduti comodi davanti a un computer con il quale si collegano con il mondo intero, probabilmente dopo aver acceso una luce elettrica con un semplice clic e aver parlato con qualcuno lontano con un telefonino di ultima o penultima generazione. E forse questi contestatori del progresso (altrui) si sono appena sfamati prendendo cibi freschi dal frigorifero e hanno preparato il pasto usando il gas in una cucina dotata di rubinetti per l’acqua calda o fredda.
Vivono in case di mattoni riscaldate da termosifoni o rinfrescate da impianti di aria condizionata, attivano sifoni e sciacquoni idraulici, scendono al pian terreno o in garage in ascensore, si muovono su mezzi motorizzati di ogni genere, lavorano in fabbriche e uffici largamente automatizzati, indossano vestiti e scarpe prodotti industrialmente, guardano la televisione e vanno al cinema, se non vogliono figli usano contraccettivi, se si ammalano fanno esami chimici o radiologici, prendono pillole e farmaci, si fanno operare e cercano di prolungare la vita il più a lungo possibile…
Ballare al ritmo della tradizionale indigenza
Ma che ingiustizia sapere che il vietnamita, o chi per esso, non è più quel “gioioso” e pittoresco straccione che balla al ritmo della sua tradizionale indigenza. Che tristezza visitare quei posti lontani e imbattersi in un banale benessere diffuso, che toglie all’album delle vacanze quel tocco di esotismo e di suggestiva miseria generale da compatire e raccontare agli amici al ritorno a casa…
Il sentimento terzomondista è un nemico giurato dello sviluppo economico dell’Asia, manco l’arretratezza fosse, dall’alto della nostra opulenza, una condizione da difendere a tutti i costi.
Tutti questi signori si rattristano all’idea che gli orientali, comprando una vita piena di elettrodomestici e di altre diaboliche comodità, possano perdere le loro tradizioni millenarie, i loro costumi folcloristici, le loro antiche usanze.
Però quelle stesse persone che tanto si angustiano per la spiritualità di questi popoli lontani, non considerano per niente la possibilità di disfarsi di elettrodomestici e comodità per tornare alle usanze dell’antichità, molto più spirituali, poetiche e pittoresche.
Effetti della globalizzazione: un enorme numero di umani in grado di emanciparsi dalla miseria
In tale assurdo e ipocrita contesto, si chiede agli asiatici di restare miserabili al solo scopo di incarnare quella sfera culturale e sentimentale che è stata sbaragliata dalla nostra apprezzatissima modernità e della quale, a tempo perso, sentiamo la mancanza.
Negli ultimi due decenni di residenza in uno di quei Paesi “a rischio di modernizzazione”, ho visto intorno a me una trasformazione epocale, sia a livello sociale che economico. Forse non ce ne rendiamo conto, ma la fame, l’indigenza, gli stenti nelle città decrepite e stagnanti, sono una bruttissima cosa! E se rimpiangiamo a nome di quei popoli i “tempi andati”, è solo perché non le abbiamo mai vissute, grazie al Cielo…
Mai era accaduto prima, nella storia dell’umanità, che in un solo quarto di secolo vi fosse un numero così enorme di esseri umani in grado di emanciparsi dalla miseria.
Però, non appena la pancia ha meno di cui riempirsi, come purtroppo è successo da noi in Occidente negli ultimi anni, non pensiamo di avere un terreno più fertile dove sviluppare la nostra spiritualità e le nostre tradizioni, anzi… siamo tutti lì ad appellarci alla mitologia moderna della “ripresa economica”, a cercare una qualche soluzione affinché le basi dell’economia possano ripartire. Oppure c’è qualcuno che richiede a gran voce quella redistribuzione della ricchezza di ispirazione comunista, non comprendendo che proprio quella è stata una delle cause della miseria (o, per meglio dire, quel sistema ne è stata la sua razionalizzazione, seppur nato con buoni propositi). E il Paese dove vivo ne è stato, in passato, testimone.
La Cina
All’inizio degli anni Novanta, dopo le proteste di piazza Tienanmen e durante una crisi ideologica ed economica della Cina, il presidente cinese Deng Xiaoping aveva capito che il sistema rischiava di collassare, come è collassato quello sovietico, e aveva quindi sdoganato la celebre massima di Confucio “Non importa se il gatto è bianco o nero, l’importante è che acchiappi i topi”, mostrando di fatto di essere disponibile a liquidare il socialismo reale pur di ottenere risultati migliori dal punto di vista del benessere sociale. Il suo motto “Arricchirsi è glorioso: arricchitevi, compagni!”, ha dato poi il via a quella forma di reinterpretazione del marxismo, coniando quello che i cinesi amano chiamare “Socialismo con caratteristiche cinesi”, poi adottato anche dai politici vietnamiti.
Per giustificare l’uso (e l’abuso) del sistema capitalista nei Paesi come la Cina e il Vietnam, dove falce e martello vengono ostentati orgogliosamente, ma dove vige una sorta di capitalismo selvaggio e quasi senza regole (quel “quasi” è direttamente proporzionale alla qualità delle proprie “relazioni sociali”), mi sento spesso rispondere che noi occidentali pensiamo che dopo il capitalismo ci sarà ancora il capitalismo, mentre loro, cinesi e vietnamiti, sono convinti che dopo questa fase capitalistica si finirà per tornare al comunismo e che la ricchezza che stanno generando oggi verrà poi immancabilmente redistribuita. Sarà vero o sarà solo un modo per assolversi?
Bah, io qualche dubbio ce l’ho: quella redistribuzione mi sembra più che altro un sogno… anche se è vero che il cinese non ha sogni: ha progetti, non sogni!
uiuiu
“Però quelle stesse persone che tanto si angustiano per la spiritualità di questi popoli lontani, non considerano per niente la possibilità di disfarsi di elettrodomestici e comodità per tornare alle usanze dell’antichità, molto più spirituali, poetiche e pittoresche” Quanto è giusto questo brano! Ho apprezzato molto questo articolo, che non parla per sentito dire ma per esperienza e studi personali
Grazie per il suo ottimo articolo, signor Valenti! Naturalmente i radical chic delle nostre parti le obietteranno che la globalizzazione non ha distribuito la ricchezza in maniera uniforme in paesi come India, Cina o Vietnam. A questi campioni nostrani della giustizia e dell’eguaglianza su scala planetaria risponderei: se conoscete un sistema migliore, proponetelo! Non solo. Gli farei notare che l’Italia è un paese, che, sebbene ricco e industrializzato, ha una pessima pessima distribuzione del reddito! Prova ad essere una donna o un giovane diplomato nel sud Italia (ma anche nel nord non si scherza…) e poi vienimi a raccontare qualcosa sull’ingiustizia della globalizzazione! Prima di giudicare come viene distribuito il reddito in casa altrui, penserei a dare un’occhiata agli stipendi da fame che ci sono in Italia e che sono da fame per via di tutto quello che lo Stato si prende in forma di tasse, contributi, previdenza, etc. etc.