Negli anni ‘70, gli autori americani cominciano a disfarsi di tutta la paccottiglia del thriller. Insieme ai gangsters assetati di sangue e potere scompaiono i doppi whisky e le bionde mozzafiato che hanno finito per prendere il sopravvento negli anni ’60. La narrativa si fa più attenta alla realtà quotidiana e una svolta decisiva riguarda le scrittrici (leggete a questo proposito la prima parte). Attraverso l’analisi dei cambiamenti nella collana dei Gialli Mondadori negli anni ’70, si può comprendere l’evoluzione dell’intero genere.
E’ il caso, ad esempio, di Collier Young – pseudonimo di un vecchio grande dell’horror, Robert Bloch, l’autore di Psycho. Con Una questione di cuore (1971) narra una storia quasi profetica di traffico clandestino di organi da trapiantare, con un ritmo frenetico e una profondità che non ci si aspetta da un’opera di puro intrattenimento. Non meno bravo è John Miles, autore di due romanzi capaci di posare definitivamente la pietra tombale sul “sogno americano” di provincia: il primo, Cacciatori nella notte (1975), è claustrofobico nell’ambientazione che ricorda lo Stephen King di I figli del grano; il secondo, Una rapina non tutta da ridere (1978), è amaro e condito da un sarcasmo feroce.
Donald Westlake e Gli inneffabili cinque
In Donald E. Westlake, il compito di rendere l’idea dell’alienazione nelle grandi città, tocca addirittura a un ladro, John Dortmunder, protagonista di una serie che si apre nel 1971 con Gli ineffabili cinque (da cui sarà tratto il film di Peter Yates La pietra che scotta) in cui l’apparente leggerezza di tono – battute e gags si sprecano – maschera una visione molto critica della moderna civiltà urbana e delle sue ossessioni.
Un grande autore del noir classico, Bruno Fischer, tornando a pubblicare nel 1974, un ultimo titolo, Quei sette maledetti giorni, a oltre dieci anni dal precedente, abbandona anche lui le vecchie atmosfere di gangsters spietati e detectives in trench, per mettere in scena una storia urbana al centro della quale ci sono le pulsioni nascoste che covano sotto la facciata rispettabile di una famiglia apparentemente perfetta.
Ma il miglior romanzo americano del decennio è opera di uno scrittore anziano e vicino alla fine, John Roeburt, che, dopo una vita spesa come figura di second’ordine nel mondo dei pulps, realizza con L’hai uccisa tu, Monna Leeds? (del 1971) una impietosa denuncia delle collusioni tra l’ordine costituito e il mondo dei quattrini, dove mostra l’incapacità di reagire della “cultura” quando è messa di fronte alle imposizioni del “potere”.
Nameless, l’investigatore solo come un cavaliere medievale
La classica detective story all’americana con l’investigatore solo come un cavaliere medievale in un mondo marcio, trova nuova linfa nell’opera di Bill Pronzini che, a partire da Undici anni di grazia (1972), propone la serie con il detective privato Nameless (senzanome), in cui la solitudine del protagonista non è più attribuita soltanto a una scelta etica, ma appare come il riflesso di una più assoluta solitudine esistenziale di un’umanità che comunica sempre meno. Le storie con Nameless tengono distinta la nostalgia per “i bei tempi che furono” – che, invece, infesta in modo deleterio le opere di altri pur bravi scrittori, come James Crumley – dalle vicende dell’intreccio.
Vicende che alla lunga pagano il debito alla natura realistica del personaggio, al punto che alcune sono inutilmente appesantite da digressioni personali che servono a tenere il filo tra una vicenda e l’altra, ma annoiano il lettore. Ecco perché i migliori romanzi di Pronzini – ancora attivo e spesso pubblicato anche oggi – sono quelli senza personaggi fissi. Un’altra serie che si afferma in questo periodo è quella di Travis McGee, creata da John D. Macdonald: ma pur comprendendo buoni romanzi come La sirena reticente del 1970, costituisce un passo indietro nello standard qualitativo dell’autore che aveva firmato ottime opere senza personaggi fissi nei due decenni precedenti.
L’inglese Miles Tripp e l’americano Eliot Asinof
Un romanzo che si segnala per la sua originalità, per molto tempo l’unico tradotto in Italia dell’inglese Miles Tripp (autore di un importante libro di memorie sulla sua esperienza di aviatore in guerra, intitolato L’ottavo passeggero), è Un uomo senza amici (1971).
Narra, in prima persona, di un soggetto tanto egocentrico, tronfio e antipatico da cacciarsi in guai irrimediabili per pura presunzione e che grazie alla sua fine patetica riesce perfino a destare un impeto di solidarietà nel lettore.
Pure originalissimo e sorprendentemente attuale è L’unico gioco che conta (1971) dell’americano Eliot Asinof, dedicato alla corruzione nel mondo dello sport, il football, in questo caso, ma Asinof ha scritto anche un testo mai tradotto in Italia sullo scandalo degli “otto uomini fuori” nel baseball del 1919, divenuto anche un famoso film.
La serie dell’87° distretto
Mentre prosegue, mantenendo quasi sempre alto il livello qualitativo, la celebre serie dell’87° distretto di Ed McBain – in questo periodo escono alcuni dei migliori titoli, come Una questione di pane per l’87° distretto del 1976 e Dal passato, incubi per l’87° del 1979 -, alcuni autori tentano di imitarne il modello, come Collin Wilcox e la sua serie di Frank Hastings. Ma, anche se i risultati non sono male, il confronto con l’originale è improponibile.
Jim Thompson, James Hadley Chase
e Day Keene
Dato che il pubblico si mostra disponibile ad accogliere le novità, dalla fine degli anni ’60 vengono proposti alcuni titoli che, in precedenza, erano stati scartati per una sorta di autocensura, in quanto reputati troppo cinici e violenti. Di fatto, questi romanzi, perlopiù firmati da autori come Jim Thompson, James Hadley Chase e Day Keene, non erano più cinici e violenti della realtà quotidiana, ma potevano apparire tali perché il pubblico era abituato a vicende e personaggi molto più “di maniera”, secondo i canoni “edificanti” imposti al cinema hollywoodiano dal codice Hays, che avevano giocoforza influenzato anche la narrativa.
Non è un caso che, oggi, Thompson e Chase (non Keene, geniale ma troppo discontinuo) siano diventati scrittori cult, ristampati in edizioni per lettori dal palato fino e oggetto di dotti studi. Tuttavia, i titoli dati alle edizioni di questo periodo fanno spesso pensare alla volontà di solleticare i più bassi istinti del lettore, Tornerò per farti fuori, La belva che è dentro di me, Fammi un piacere, crepa!, etc. Il clou era stato già raggiunto dal raccapricciante Bionda cerca killer inflitto nel 1968 all’ottimo Home is the Sailor (il marinaio è di casa) di Keene, titolo che sinceramente, non fa onore ai responsabili della collana.
I titoli non anglofoni
Un’altra importante novità del decennio è la graduale apertura a scuole di giallisti non anglofone: in precedenza, infatti, erano stati presentati solo rarissimi titoli francesi e uno solo tedesco, a parte gli italiani, che fanno storia a sé. Tra il 1970 e il 1979, esce qualche altro romanzo francese, tra cui si segnala, nel 1977, Il testamento americano di Francis Ryck, un grande autore di spionaggio. I suoi titoli pubblicati in Segretissimo sono assolutamente da non perdere.
Poi c’è un secondo romanzo tedesco, della stessa autrice del primo, L.A. Fortride; uno spagnolo, Don Manuel e le gemelle scomparse, di Francisco Garcia Pavon (1972); uno cecoslovacco, Dalla sera alla mattina, di Anna Sedlmayerova (1972); uno danese ma pubblicato originariamente in Gran Bretagna, La ballata dell’impiccato, di Torben Nielsen (1978); due danesi tradotti dalle versioni originali, Buon appetito, Borck! (1971) e I soldi e la vita, (1978) di Anders Bodelsen; uno svedese, Il momento della verità, di K.Arne Blom (1978); due polacchi, Qui Radio Polonia di Jadwiga Woytillo (1977) e Chi ha paura di Stefan Szalej? di Anna Kormik (1979); uno giapponese, La morte è in orario di Seicho Matsumoto (1971). Infine uno russo, forse “taroccato”: l’edizione originale è francese: Cinque bottiglie di vodka di Youri Vetrov (1976).
I migliori, tra questi, sono probabilmente il Matsumoto – autore conosciuto anche come “il Simenon giapponese” – e quelli scandinavi, che pure non sono ancora all’altezza dei loro conterranei Mai Sjowall e Per Wahloo tradotti, tra il 1972 e il 1978, nella quarta serie dei Gialli Garzanti. Forse non è un caso che in seguito siano comparsi nei Gialli Mondadori diversi altri autori di queste due scuole.
Infine, dopo vent’anni di assenza, nel 1977 anche gli autori italiani ricompaiono nella collana: il primo è Secondo Signoroni, con Petrosino e i baffi a manubrio.
In conclusione
A distanza di decenni, il bilancio dell’attività svolta in questo periodo è sicuramente positivo, da ogni punto di vista. Ciò che appare negativo, invece, è che, salvo rare eccezioni – di Chase e Thompson si è già detto, poi la Rendell, Ross Macdonald, Westlake, la Tey, Blake e pochi altri -, gli autori e i libri di cui si parla in questo articolo non siano mai stati ristampati.
In pratica, il lettore che voglia farsi una cultura sull’argomento deve solo rassegnarsi a sgobbare e “mangiare polvere”, in senso letterale, tra bancarelle dell’usato, fondi di deposito e biblioteche dismesse. Oppure può rincorrere faticosamente i testi tra siti in cui qualche intenditore li propone in ottime condizioni a prezzi scoraggianti o qualche profano ne vende qualche copia malridotta a prezzo di realizzo. Ma anche questo, se vogliamo, è in armonia con lo spirito di libertà che caratterizzò il decennio degli anni ’70. Non perché faccia tanto “vintage”, ma perché permette di arricchire la propria libreria senza pagare alcun pedaggio alle esigenze del “mercato”, alle mode passeggere e a tutto quanto allora veniva combattuto, mentre ora si va affermando inesorabilmente in ogni campo.
Mi permetto di dissentire, pur cominciando col farle i complimenti per l’originale saggio e la scelta di ingolosire con accenni di libri di autori semi-sconosciuti. “The killer inside me” (La belva che è dentro di me) di Jim Thompson, fa tutto meno che solleticare i bassi istinti del lettore: forse l’opera migliore del suo autore, è un’impietosa discesa nella mente deviata di uno sceriffo di provincia, dove non contano tanto gli scatti brutali quanto il lavorio interiore che distorce la percezione del mondo, la capacità di occultare i propri istinti e di scegliere vendette “arbitrarie” quali l’essere tremendamente prolisso nei dialoghi, il ripetere a forza cose ovvie. Si tratta di un volume magistrale, tra i più importanti mai usciti nella storica collana, più volte poi ristampato anche in hard-cover. L’unico neo sta nel titolo, era meglio lasciare “assassino” piuttosto che renderlo con “belva”. Mi perdoni l’appunto, unico disaccordo in un articolo davvero ben fatto e assai interessante, cordialità.