Non era necessaria la recente inchiesta del britannico The Guardian – secondo la quale, negli ultimi dieci anni, l’ampiezza dei libri è aumentata del 25% giungendo ad una media di 400 pagine – per confermare la sensazione che sempre più, oggi, gli scrittori tendano al romanzo lungo, inclusivo, “massimalista”, secondo la felice definizione di Stefano Ercolino. L’ultimo del redivivo Paul Auster, 4321, di pagine ne conta 940 (qui trovi la nostra recensione).
Il giunco mormorante non arriva a 70, non è troppo conosciuto né appena uscito (Adelphi 1990), ma con un’intensità lirica essenziale e struggente, tutta affidata alla miracolosa sintesi di uno stile introspettivo impeccabile, riesce a delineare ellitticamente una vicenda di amore assoluto, di ineluttabile autocoscienza dei limiti borghesi dell’esistenza, di scoperta dolorosa e, alla fine, appagante di una vita “altra” che salva chi la sa e vuole (ri)conoscere.
Questo gioiello nascosto di Nina Berberova (1901-1993) è una preziosa sinfonia in tre tempi – “2 settembre 1939”, “sette lunghi anni di separazione”, “la guerra finì” – interpretata da pochi personaggi che si muovono sullo sfondo degli ambienti europei frequentati dai facoltosi transfughi russi della Rivoluzione, loro malgrado incapaci di rimuovere la favolosa, ancestrale, mitizzata Terra Madre.
Tra questi c’è la voce narrante femminile (evidentemente autobiografica), un’amante di padre pietroburghese e sangue svedese – che sembra gelarne gli empiti impedendole di ricambiare un affetto viscerale e definitivo – l’accorta moglie “gigantessa bionda dal volto di angelo paffuto, misto di Rubens e Bellini”. Infine c’è un accademico dissidente, membro di fama internazionale dell’intellighenzia russa ed emblema della sua eccellenza culturale, di cui la protagonista curerà le ambite memorie.
Tre i momenti narrativi: la separazione, appassionata e carica di promesse, il nuovo incontro – in cui solo lei sarà pronta a compromettersi ancora, pur nella mutata condizione sentimentale di lui – il definitivo abbandono di un “giunco” che rinuncia con dignità all’umiliazione del compromesso e dell’ipocrisia.
Perde l’uomo, vince la donna che sceglie di non rinnegare la sua personale “no man’s land”, zona franca in cui si vive nella libertà e nel mistero, da soli o in compagnia, senza remore o pregiudizi. Quando abbiamo la fortuna e il coraggio di abitarla, ci fa rischiare tutto di noi senza calcolare le incognite, scegliendo di ascoltare solo la voce delle Emozioni, delle pulsioni più intime e inconfessate, dei sentimenti più istintivi e sinceri messi in gioco gratuitamente. Per poi provarci ancora se, come è facile accada, si perde.
Una sorta di seconda vita “invisa all’Inquisizione e agli Stati totalitari” perché sfugge ad ogni controllo, induce a gesti clamorosi/imprevedibili. Invisa ai mediocri, agli arroganti, ai timidi che privilegiano le consolatorie sicurezze dell’esistenza comune. Del resto, così recita Silentium, la lirica più nota di Fëdor Tjutčev cui appartengono i versi del “giunco mormorante” che aprono questo testo assolutamente poetico nella struttura :
Può palesarsi il cuore mai?
Un altro potrà mai capirti?
Intenderà che tu vivi?
Pensiero espresso è già menzogna.
Sappi in te stesso vivere soltanto.
Tre anche le città che scandiscono gli eventi, ciascuna magicamente legata ad una cifra cromatica: il verde scuro della “buia, morta Parigi” 1939, con i suoi “lampioni azzurri, i libri, le lapidi di marmo, la sofferenza russa”. Nel suo spesso vetro “che aveva imprigionato tutti”, vivono – silenziosi e impalpabili come spettri timorosi, gli amanti capaci solo, prima dell’addio, di barattare sguardi, promesse, allusioni reticenti, gesti impercettibili tanto vicini alle atmosfere minimaliste delle liriche di Anna Achmatova: “una porta accostata, l’alone giallo di una lampada, il guanto di sinistra infilato nella mano destra” e “un amore disperato per chi mi impediva di costruire il mio destino”.
Poi c’è il grigio, assolutamente simbolico, della “austera e granitica” Stoccolma, dove “l’uva non si trova” e il ritrovarsi svela angosciosamente chi dei due ha scelto la normalità invece dell’infrazione.
Sino al rosa pallido di una Venezia aerea e leggera come un merletto, dal “ritmo rallentato e sottomarino” che dissolve “l’irrimediabile in gioiosa tristezza”, il pesante nel leggero miracolo di “chiese che si sciolgono nell’oscurità” e ipnotiche piazzette senza nome, mussole alle finestre e iridescenti cristalli di un crepuscolare interno lagunare. A lei spetta il ruolo di sancire spazialmente la fine di un legame che la protagonista non intende sacrificare all’incoerenza e al perbenismo… Venezia che «quando si parte scompare in un attimo, non agita a destra e sinistra il capo come fanno le altre città quando le lasci. Svanisce in un solo istante, come se non esistesse, come non fosse mai esistita». Come la Procida di Arturo.
kkk
Buongiorno, lessi questo libro tanti anni fa, questa bellissima recensione mi ha fatto venire voglia di rileggerlo, anche perché non me lo ricordo, allora mi piacque, spero ancora; recentemente ho letto la sua autobiografia” Il corsivo è mio”, anche questo molto bello. La Berberova è stato un mio grande amore letterario, come quasi tutti i russi del resto. Grazie di averci ricordato la sua grandezza.
Gentile Dianella Bardelli, la ringrazio anzitutto dell’apprezzamento riservato alla mia recensione. Non capita frequentemente oggi di leggere una prosa tanto raffinata e profonda come quella del “Giunco”, che mi auguro possa essere (ri)scoperto. Parla di un sentimento unico ed essenziale con parole definitive e preziose. Auguro ogni bene alla sua sensibilità di lettrice, a presto con nuove Emozioni. Marco Camerini
Mi trovo d’accordo con lei riguardo l’insolenza del romanzo moderno, come avrebbe detto Cioran. Oggi si crede che un romanzo sia interessante e professionale in base al numero di pagine. Aleggia ancora da decenni, soprattutto in Italia, l’idea secondo cui scrivere un racconto o una novella faccia di te uno scrittore svogliato, Dovrebbe essere il contrario. Il romanzo postmoderno voleva parodiare questo principio, ma in realtà faceva parte – e lo fa tutt’ora – della stessa struttura del potere che condanna, atta ad annegare il lettore in oceani di informazioni inutili. In ogni caso, grazie per avermi fatto scoprire quest’autrice.
Grazie Luca per la condivisione, hai perfettamente ragione sul romanzo postmoderno divenuto, a tutti gli effetti, autoreferenziale e perfettamente integrato nella tradizione. Marco Camerini