American Vandal è stato uno dei titoli più attesi del 2017 per tutti gli abbonati di Netflix. Una produzione originale che il New York Times ha inserito tra le dieci serie migliori del 2017. A motivare la grande attesa, il fatto che American Vandal sia la prima serie mockumentary prodotta dal network.
Per chi non lo sapesse, il mokumentary è un genere che usa il linguaggio della ricostruzione proprio del documentario, ma si basa su un fatto inventato. Sapendo sin dal principio che la storia che stiamo per vedere è falsa, ci predisponiamo alla visione in un modo preciso: non ci domandiamo cosa potrebbe succedere basandoci sui fatti, ma aspettiamo di essere stupiti da un originale punto di vista. Il mockumentary, quindi, per le sue caratteristiche di base, ci fa esplorare la realtà in modo innovativo e viene usato per farci riflettere su suoi risvolti in modo ironico e leggero. Nato in ambito radiofonico, il mockumentary deve il suo successo soprattutto all’audiovisivo. In questo settore, la sua nascita viene fatta risalire al primo aprile del 1957 quando venne mandato in onda The Swiss Spaghetti Harvest (di C. de Jaeger), un reportage sulla raccolta degli spaghetti dagli alberi in Canton Ticino. Sebbene la data del rilascio dell’audiovisivo avrebbe dovuto insospettire sulla sua veridicità, non mancarono schiere di spettatori che presero letteralmente d’assalto i centralini della BBC per sapere dove si potesse acquistare una pianta che producesse spaghetti.
Come il documentario, anche il mockumentary presenta diversi filoni: sociale, storico-politico, horror, meta-cinematografico, satirico, ecc. Non esploreremo qui le loro peculiarità. Vi consigliamo piuttosto un testo interessante se volete approfondire: Cristina Formenti, Il mockumentary. La fiction si maschera da documentario. Di fatto, per ciò che qui ci interessa, il file rouge che li accomuna tutti è proprio la vena ironica che viene utilizzata per esplorare la realtà. E American Vandal ne è un esempio calzante. La serie, creata e diretta da Tony Yacenda, snoda i suoi contenuti in 8 puntate e viene concepita come una parodia delle serie true crime, ovvero quei titoli che raccontano vicende di cronaca e provano a scovare attraverso il documentario verità mai scoperte fino a quel momento (un esempio tra tutti, la serie Making a murder, di cui tempo fa ho scritto qui). Vediamo meglio.
La storia
La serie racconta dell’adolescente Dylan Maxwell (Jimmy Tatro), il tipico buffone della classe, accusato di avere commesso un atto vandalico nel parcheggio della scuola. Le auto di 27 insegnanti sono state imbrattate con disegni fallici per un ammontare di 100.000 dollari di danni. Il ragazzo viene espulso dalla scuola sulla base di una testimonianza. L’evento spinge un suo compagno di classe, Peter Maldonado (Tyler Alvarez), convinto dell’innocenza di Dylan, a realizzare un documentario in cui investiga per scoprire chi è il vero colpevole.
Peter si comporta da vero detective. Grazie alle attrezzature della scuola, si dota di assistente e cameraman e approfondisce ogni dettaglio della storia per riuscire a venirne a capo. Intervista i suoi compagni, piazza spie nei vari uffici, si intrufola in corsi diversi da quelli del suo anno per mettere alla berlina il comportamento del corpo docenti, va a fondo sulla questione dell’atto vandalico, analizzando ogni minimo aspetto del disegno. Di quanto tempo aveva bisogno il colpevole per la realizzazione dei peni sulle macchine? Combaciano quei disegni con quelli che il presunto colpevole era solito fare a scuola?
Questioni apparentemente surreali, ma stilisticamente rese in modo ineccepibile, che contribuiscono ad offrirci, con la scusa del falso documentario, uno spaccato piuttosto realistico della vita liceale di una piccola scuola di provincia. Il target della serie, rappresentato evidentemente da teen-ager, ha davanti a sé un prodotto davvero ben confezionato, che esplora delle dinamiche a loro ben note. Uno fra tutti, ma che ritengo cruciale, per esempio, il tema della condivisione.
Durante le sue indagini, Peter asseconda il desiderio naturale legato alla sua età, di condividere on line le sue ricerche durante le riprese (questo un regista adulto probabilmente non lo fa…). Questa scelta comporta una deviazione dal tema centrale della storia. Dalla ricerca del vero colpevole dell’atto vandalico si passa al fatto che la scuola è costretta a piegarsi ad alcune volontà dei protagonisti, essendo diventata la storia virale. I video che Peter condivide durante le indagini, infatti, esplodono in rete, dividendo i commentatori e incuriosendo gli stessi media nazionali, che presentano l’evento come un vero e proprio “caso americano”.
I fatti sono chiaramente esasperati in vista della costruzione del genere televisivo scelto, ma le intuizioni della produzione sono intelligenti, tanto che essa riesce ad imbastire sul nulla un prodotto innovativo, al di là del suo contenuto. In ballo ci sono i social media, l’esagerata attenzione posta a fatti non per il valore in sé, ma per quello che viene loro attribuito dalla rete, l’ossessione di alcuni genitori nella protezione dei figlie e tanto altro ancora.
In questo senso, la serie mi ha fatto riflettere anche a livello personale, avendo a che fare, per mestiere, con giovani di età compresa tra i 20 ed i 25 anni, praticamente ogni giorno. Anche per loro, come per i giovanissimi protagonisti della storia, CONDIVIDERE risulta ormai una parola d’ordine. Un comando quasi interiorizzato. Ed è secondo me esattamente il punto centrale su cui riflettere per capire dove stiamo andando e dove questi giovani ci porteranno. Analizzare i punti deboli di questo fenomeno, ma anche e soprattutto educare ai suoi punti di forza. Cosa che oggi manca. Manca in Italia. Manca in assoluto. Perché necessita lungimiranza di visione, cosa che la nostra classe dirigente, ahimè, non ha da troppo tempo.
Insomma, tenete duro durante i primi episodi ed andate fino in fondo. Visione davvero consigliata.