Viene da chiedersi se in questo tempo post-simbolico la parola, e in particolare la poesia, abbia ancora un significato e un ruolo. Nel saggio Odiare la poesia, lo scrittore statunitense Ben Lerner propone una visione platonica e socratica della Poesia. Una buona occasione per riflettere sull’esperienza poetica.
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L’esperienza della poesia
Da due anni col Circolo dei Lettori e Presidio del libro di cui faccio parte, organizziamo un incontro mensile dedicato alla poesia. Il format è semplice: per ogni serata invitiamo tre poeti. Nessun prerequisito. Nessuna preselezione. Chiunque intende partecipare può farlo anche se noi non lo conosciamo. Ciascuno ha 25 minuti circa per condividere la sua esperienza poetica nel modo che ritiene più opportuno. L’intento è quello di creare uno spazio in cui l’ospite parli di come vive la dimensione poetica nella vita quotidiana, di quando e perché ha iniziato a scrivere versi, di quali poeti legge.
Gli altri ascoltano, interagiscono, fanno domande senza esprimere giudizi di valore. Soprattutto ascoltano. E se sono poeti, ascoltano altri poeti. Gli incontri si concludono con la lettura di alcune poesie di un autore poco noto. Da Christian Bobin a Cristina Alziati, che abbiamo anche ospitato, da Nina Cassian a Piera Oppezzo, da Simone Cattaneo a Ben Lerner.
Ecco, a uno di questi incontri mi piacerebbe invitare proprio Ben Lerner di cui abbiamo letto alcune poesie nell’ultimo appuntamento. Non so se sarà possibile ma mai dire mai. Mi piacerebbe invitarlo perché ci parli della sua poetica e ci spieghi cosa intende quando scrive, nel suo breve saggio dal titolo Odiare la poesia, che per amare la poesia occorre prima disprezzarla. Mi piacerebbe invitarlo soprattutto per ascoltare insieme poesia.
La possibilità di uno sguardo nuovo
Di solito si relega la poesia alla sfera delle emozioni che la parola poetica suscita in chi la legge e l’ascolta. In realtà, la poesia è anche pensiero. Vale a dire riflessione, se non meditazione, sul mondo e sull’atto del poetare. Gli stessi poeti, in generale, cercano di dare una risposta alla domanda cos’è la poesia, chi è il poeta, perché si scrive e si continua a scrivere poesia. Sino a porsi l’interrogativo più arrogante e antipoetico che possa esserci, cioè se la poesia possa o debba avere un’utilità. Insomma, domande meta poetiche per usare un’espressione da critico.
Senza andare troppo indietro nel tempo, poeti come Leopardi, Elitis, Bonnefoy, Walcott, Brodskij ci hanno lasciato diversi scritti che riflettono su tali questioni. Oltre alle loro poesie che, inevitabilmente, esprimono e alimentano le risposte cui sono giunti. Tutti sono accomunati dalla consapevolezza che ogni risposta è e solo un tentativo di spiegare mai definitivo né ultimo. Perciò l’interrogarsi non cessa. È infinito. Questa consapevolezza nasce dalla coscienza che interrogarsi sulla poesia e sull’essere poeta è porsi di fronte allo specchio. Vale a dire, è interrogarsi sull’essere, sulla nostra presenza nel mondo nei suoi molteplici aspetti. Insomma, è la coscienza che tra l’esperienza poetica – artistica in generale – e l’esperienza di vita non c’è distanza.
Il grande mistero
Le domande insorgono e le relative risposte sono “indigenti” perché il nostro sguardo si sofferma su una materia ambigua e sfuggente, e ciò che la rende tale è il mistero, Il grande mistero come Tomas Tranströmer, non a caso, intitolò la sua ultima raccolta.
Ciò significa che anche la nostra consapevolezza è limitata. La poesia si compone di consapevolezza e inconsapevolezza.
“La poesia, e in generale l’arte moderna, tentano di diventare sempre più consapevolezza; sì che ogni espressione debba essere cosciente di tutti i suoi significati e delle sue relazioni. Quest’arte perciò è diventata o incomprensibile o sempre più simile al nulla”
Andrea Emo, Quaderno 254, 1962.
È impossibile avere consapevolezza di tutto. Conoscere tutto. Spiegare, dar senso e significato a tutto. Anche il poeta si ferma dinnanzi al mistero. Chi pensa di poter andare oltre finisce nel territorio dell’incomprensibile o del nulla. Chi invece fugge dal mistero o non lo riconosce finisce nell’altrettanto sterile territorio dell’autoreferenza, della rappresentazione egoica. E Ben Lerner giustamente indica in ciò il limite di gran parte della poesia contemporanea, sebbene si riferisca solo all’esperienza nordamericana. Una poesia non più capace di illuminare il mondo.
“La poesia – scrive Bonnefoy in Quel che mise in allarme Paul Celan – consiste nel prendere coscienza che buona parte di quello che è significato nel linguaggio consueto, è intrappolato nella sua formulazione concettuale, la quale comporta l’oblio del tempo esistenziale nonché del carattere assoluto insito nelle situazioni contingenti che ognuno vive. Senza indugio la poesia tenta dunque di andare oltre quello pseudo-significato, e per farlo si apre a riflessioni che affiorano dalle zone più intime della persona: il che significa vivere la scrittura come una spinta interiore continua quanto irresistibile”.
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Dunque la poesia è apertura e non chiusura. Diversamente non potrebbe neppure tentare di mostrare ciò che la ragione non può spiegare in quanto non concettualizzabile; né far emergere e comunicare l’assoluto, cioè l’universale, che pure è presente nell’esperienza di ogni essere. Ma al centro della poesia è proprio l’essere, in particolare la persona, e la sua esperienza totale. Non c’è un qualche ideale di poesia.
I presupposti critici di Lerner
Al contrario, il presupposto dichiarato da cui muove Lerner nel suo saggio, è che esista una poesia autentica, universale, capace di abbracciare e rappresentare tutto e tutti, superando le differenze che affliggono il mondo. Vale a dire, che esista un ideale poetico. Lerner cita Walt Whitman che scriveva sul suo diario: “Io sono il poeta degli schiavi e dei padroni di schiavi”. Arrogandosi così il desiderio impossibile di riconoscere e sospendere la differenza all’interno delle sue poesie. Anzi, proprio dall’erronea convinzione che Whitman abbia realizzato quell’ideale poetico sarebbe scaturito l’attuale disvalore della poesia contemporanea che sarebbe incapace di realizzare quello stesso ideale. L’ideale di parlare a tutti e a nome di tutti.
Scrive Lerner che “I poeti contemporanei americani sembrano convogliare tutta la loro energia verso un unico scopo: la creazione di una voce. Si sforzano di suonare diversi da tutti gli altri. E questo spesso significa che i poeti finiscono per mettere in primo piano ciò che hanno di più singolare e idiosincratico loro e la loro scrittura, e per ignorare ciò che hanno in comune con gli altri”.
Su quest’ultima considerazione non si può che concordare con Lerner, ma non perché esista un’immagine di Poesia ideale. Lo scenario poetico a cui Lerner guarda è ristretto al Nord America: da Marianne Moore a Emily Dickinson, da Withman a Claudia Rankine. Cita Keats ma solo per confessare che l’eufonia dei suoi versi non suscitano in lui quella potente emozione che, al contrario, gli comunicano le dissonanze di Emily Dickinson. Tuttavia secondo Lerner due poeti così diversi come Keats e Emily Dickinson esprimono in realtà il medesimo “disprezzo per le poesie semplicemente reali rendendo virtuali le loro composizioni: dissolvendo la poesia reale in un’immagine di Poesia che la forma letteraria non può raggiungere”. Quindi l’idea di Lerner è che la “poesia può lasciar intravedere uno spiraglio, necessariamente rovesciato e ristretto, del potenziale poetico”.
Viene da chiedere a Lerner che cosa intende per poesie semplicemente reali, quale sia il fondamento di una tale distinzione, quale sarebbe quell’immagine di Poesia con la P maiuscola che addirittura la forma letteraria non può raggiungere. In realtà, credo che vada rimessa in discussione proprio la distinzione platonica tra una Poesia con la P maiuscola e le poesie scritte che sarebbero menzogne perché impossibilitate a realizzare quella Poesia. Queste sono concettualizzazioni, astrazioni estranee alla poesia, il cui risultato storico è stata una postura interiore e mentale che ha allontanato l’uomo dalla natura, dalle cose semplici e immediate, e dalla sapienza basata sull’intuizione libera da sistemi di pensiero predefiniti.
La bellezza non è in un’idea ma nella realtà così com’è
Nell’introduzione a Le figure di Lichtenberg, la raccolta di poesie di Ben Lerner che precede il saggio Odiare la poesia, Francesco Pacifico scrive che secondo Lerner è impossibile fare poesia con la poesia. La si può solo difendere ma non scriverla. Solo attraverso la prosa si può scrivere poesia. In questo senso, secondo Lerner la poesia sarebbe sempre e inevitabilmente un fallimento. Il punto di partenza è il poeta visto come la persona ideale, il Mensch, che attinge alla fonte dell’umanità. Il poeta come mito, insomma.
Pacifico suggerisce la lettura consecutiva dei due testi di Lerner che sarebbero l’uno il compagno dell’altro. Ho seguito questo suggerimento. Applicando alle poesie di Lerner lo stesso metro che lui adotta in Odiare la poesia potrei esprimermi negli stessi termini in cui egli critica ad esempio i versi di Claudia Rankine: autoreferenziale, incomprensibile, tutt’altro che empatico. Sono poesie volutamente provocatorie come sostiene Pacifico? Forse sì, forse no. Ma non credo che oggi abbiamo bisogno di tali provocazioni per amare la poesia.
Tutti poeti?
Invece credo che oggi non si possa rinvangare una figura mitica del poeta, né della poesia come fonte dell’umanità. Il poeta non è depositario di una conoscenza esoterica. Men che mai fondativa. La poesia non è fonte dell’umanità. La figura mitica del poeta è da tempo superata nella poesia europea, ma anche in quella orientale (vedi la poesia cinese e giapponese). Queste poetiche si ritrovano invece accoumunate nel sottolineare che l’esperienza poetica è sì una forma in cui si può esprimere la tensione tutta umana a porsi domande e cercare risposte riguardo alla propria presenza in questo mondo, ma è totalmente svincolata da ogni idealismo.
L’idea di Lerner che il poeta dovrebbe ambire a una poesia che abbracci tutto l’universo e riveli una verità che sia tale per tutti è impossibile. Quindi, secondo Lerner, la poesia è destinata al fallimento.
L’ironia con cui Lerner ricorda che “fin da piccoli ci hanno insegnato che siamo tutti poeti in virtù del fatto di essere umani” pare rivelare un malinteso senso dell’essere poeta, un errore di prospettiva storica e di visione. E infatti Lerner aggiunge: “La nostra capacità di scrivere poesie è quindi, in un certo senso, la misura della nostra umanità”. Inferenza del tutto gratuita.
La visione del mondo e quindi poetica non è e non può essere antropocentrica. Semmai, si è umani nella misura in cui si è capaci di guardare alle cose del mondo e vivere la propria vita con un atteggiamento interiore poetico. Vale a dire, celebrando la bellezza consapevoli che la bellezza di questo mondo è luce e ombra, amore e odio, individuo e collettività, e illuminandola nel senso in cui diceva Bonnefoy: con un incondizionato sì alla vita nella sua totalità che permetta di andare oltre questi dualismi.
Si può essere poeti anche senza scrivere un solo verso sulla carta.
Quest’atteggiamento poetico può indicare quella che lo stesso Lerner chiama la via negativa della poesia.
La via negativa della poesia
La poesia, l’arte in genere, è il canto della salvezza; il canto della trasparenza delle parole e delle immagini, la trasfigurazione della negazione, la negazione come purificazione.
Andrea Emo, Quaderno 331, 1970.
Solo autonegandosi come soggetto – quindi spezzando le catene dell’ego e dell’autoreferenzialità – l’uomo può scrivere poesia e ristabilire il contatto con ciò che è semplice, con ciò che è immediato per usare le parole di Bonnefoy. Può lasciare che si riveli quella ricchezza di significato insita nelle cose e da cui le rappresentazioni astratte del pensiero analitico ci hanno allontanato. In questo senso l’atteggiamento poetico è riconoscere che non esiste un io individuale indipendente e autosufficiente, ma che esso è parte di un tutto che vivifica con la sua specificità e da cui è vivificato.
Così il poeta può ridare alle parole luminosità e trasparenza, e il lettore può vedere attraverso le parole stesse. Cosa?
“Quindi noi siamo la rappresentazione, siamo l’atto in cui tutte le cose sono e vivono (e viceversa aggiungo io), cioè l’attualità, in quanto siamo autonegazione. La negatività è l’universalità dell’atto”.
Andrea Emo, Quaderno 340, 1971.
E questa negazione può assumere anche una dimensione politica, rivoluzionaria come insegnano Majakowskij e Brodskij. La poesia è atto di disobbedienza nel momento in cui non si ferma all’ordine dato, diverge dal solito atteggiamento di obbedienza come diceva Brodskij. Il poeta può essere portatore di una cultura rivoluzionaria quando non accetta un modello culturale antropocentrico, scientista, concettuale, che separa e non unisce.
A questo punto credo sia evidente che la poesia non abbia bisogno di difendersi né di essere difesa. Chi l’attacca accusandola di essere inutile o persino morta muove da una visione antipoetica assolutamente estranea ai poeti che non odiano, né disprezzano, ciò che scrivono (né loro né gli altri). Semmai s’allontanano da ogni mitizzazione e astrazione. E’ la stessa ragione per cui le persone odiano la poesia: la sentono lontana dalla realtà delle cose.
Se si disprezza ciò che si scrive – come ha affermato Lerner nell’incontro alla Scuola Holden – perché non corrisponde alla poesia che si aveva in mente di scrivere, ebbene questo è parte del percorso creativo. Ma è un argomento veramente debole per poterne inferire l’assoluta impossibilità di scrivere poesie vere e sostenere che la poesia sia un fallimento per sua natura.
Più che un fallimento la poesia è un misterioso inno di vittoria, “un epinicio” per citare ancora Andrea Emo. È la rappresentazione e la spiegazione di come l’uomo possa riportare a una dimensione più umana e universale la cieca legge delle cose. Non l’unica, certo. È la salvaguardia dell’impossibilità, del mistero senza il quale non sarebbe possibile nessuna visione, nessuna immaginazione e nessuna scrittura, dato che è possibile scrivere solo pensando l’uomo e le cose in un contesto alternativo all’attuale. Fosse anche utopico.
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interessante. la poesia come genere circoscritto nei vari tempi storici è esistita nella funzione spesso terminologica della sua funzione e pluralità. non ha senso darle un valore assoluto e circoscriverla in una sua valenza autosufficiente. si può ben dire che tra le tante parole che si scrivono ne esistono alcune che si formano che lasciano intravedere qualcosa di inspiegabile e splendido.
più vicina alla mistificazione e al rito primordiale, un auto psicoanalisi un emergere del sogno. una rivelazione che la mente non percepisce ma che si avverte. una specie di volontà inconscia tesa al miglioramento dell’individuo. un parassita che si ciba della sua carcassa perchè morente e in entrambi i casi nella negazione dei concetti quello che si può definire è valido in tutte le sue contraddizioni. Come per dire citando Lao : il tao che può essere nominato non è l’eterno tao