Sono arrivato a New York la prima volta a settembre del 2013. Avevo degli appuntamenti di lavoro, ma non potevo immaginare come si sarebbe trasformato il mio viaggio di lì a pochi giorni. Sì, perché io allora non lo sapevo, ma ottobre del 2013 è stato un mese molto particolare per New York. Il mese in cui Banksy aveva deciso di trasformare la Grande Mela nel terreno di gioco della sua personale caccia al tesoro.
In cosa consisteva la caccia? Lo street artist britannico dall’identità misteriosa aveva annunciato attraverso i social che avrebbe realizzato, per tutto il mese, un’opera al giorno per le vie della città. Gli indizi per trovarle li avrebbe divulgati solo tramite social. Se si voleva arrivare primi sul posto, bisognava essere attenti, furbi, ma soprattutto velocissimi. Non so quanto ci fosse di programmato in quello che poi accadde, ma il suo progetto funzionò alla grande. La reazione dei newyorkesi fu talmente esplosiva che divennero parte integrante in quello che, per me, rimane il suo capolavoro assoluto.
Ma facciamo un passo indietro. Come dicevo, io ero arrivato qualche giorno dopo l’inizio della performance e non avevo la più pallida idea di cosa stesse accadendo.
Avevo un appuntamento di lavoro a Manhattan, per la precisione davanti al Chelsea Hotel (il mitico albergo degli artisti dove per molto tempo hanno vissuto Bob Dylan, Janis Joplin, Patty Smith, Leonard Cohen, in cui John Lennon e Andy Warhol erano di casa e dove fu trovata morta Nancy, la fidanzata di Sid Vicious… insomma un pezzo di storia).
Mentre stavo camminando a passo veloce sulla 6th Avenue in direzione Lower Manhattan, senza un apparente motivo ho imboccato la 24th Street, che in realtà è la la parallela della strada in cui avrei dovuto svoltare. Si tratta di una via secondaria, non particolarmente trafficata, una di quelle in cui probabilmente negli anni ’80 non sarebbe stato consigliato passare. Qui, su un muro, sotto centinaia di tag, scorgo uno stencil: un cane che fa pipì su un idrante dal quale esce il fumetto: “You complete me”.
“Secondo me è di Banksy”: è stato il mio primo pensiero. Non ero affatto sicuro, ma con un gesto impulsivo lo postai ugualmente su Instagram.
Probabilmente, se avessi visto lo stesso stencil da qualche altra parte, non lo avrei associato a lui. Se vedi un Picasso nel retro cucina di casa di tua nonna, non ti sfiora nemmeno il pensiero che possa essere un originale, ma metti un brutto disegno dentro la teca di un museo… stai sicuro che tutti i turisti gli daranno la caccia per fotografarlo!
Le strade di New York non sono un museo, ma cinema e televisione ci hanno talmente abituato a queste ambientazioni, che siamo portati ad associarle a qualcosa di speciale. Come il fumo che esce dai tombini che inevitabilmente ti ricorda Taxi Driver o C’era una volta in America. Nel caso del mio Banksy però la magia fu reale. Ve lo assicuro.
Il giorno dopo sono andato nel Queens. Un giornalista italiano che vive a New York mi ha portato a vedere 5Pointz, un complesso industriale dove i graffiti sono permessi. Agli inizi degli anni ’90 i proprietari dell’area, i fratelli Wolkoff, lo avevano trasformato in una enorme tela a cielo aperto. Quando, nel 2000, il writer Meres One ne ha assunto la curatela, il palazzo dei graffiti è diventato famoso in tutto il mondo.
5pointz sta per i cinque distretti di New York – Manhattan, Brooklyn, Queens, Bronx e Staten Island – e quelli in cui io ho visto il complesso, sarebbero stati i suoi ultimi giorni. Poco più di un mese dopo, esattamente nella notte tra 18 ed il 19 novembre, l’edificio è stato imbiancato e qualche mese dopo, completamente demolito. Al suo posto arriveranno 1300 appartamenti. Anche questa è New York. Sempre in movimento. Niente rimane uguale a se stesso, troppo a lungo.
Ma in fondo questa è anche la storia della graffiti art. Una forma d’espressione eterea, non pensata per essere eterna. E visto che siamo in tema, vi consiglio un documentario su Banksy che indaga proprio questo aspetto.
Mentre mi godo la mia visita alla Mecca della street art, il discorso, di graffito in graffito, scivola sul mio presunto Banksy. Così scopro che non solo l’aura delle strade di New York non mi aveva ingannato, ma quello che ho visto è solo parte di un progetto più grande. Dal primo ottobre, Banksy aveva deciso di postare ogni mattina sul suo Instagram un indizio di dove avrebbe realizzato la sua opera. Ore dopo, sul suo sito appariva una foto del lavoro finito, senza la minima indicazione di dove fosse.
L’operazione, per come la vedo io, era, senza mezzi termini: geniale.
Un misterioso inglese irriverente stava trasformando la città più dinamica del mondo nel suo personale parco giochi e i newyorchesi avevano accettato di buon grado di rincorrerlo nel “guardia e ladri” più surreale della storia. Una caccia al tesoro con l’incognita del tempo perché i primi graffiti non sarebbero rimasti a lungo al loro posto. Per vedere un Banksy originale bisognava fare in fretta. Nessuno sa chi sia Banksy. Certo ci sono delle teorie e per la complessità di quello che ha messo in scena a New York, mi sembra difficile pensare che agisca da solo. In ogni caso lui ha un istinto davvero speciale nel metterci davanti le contraddizioni della nostra epoca con una semplicità disarmante.
Decisi di far parte del suo gioco e come premio ricevetti un tour alternativo di una città dalle mille facce.
Appena Banksy postava qualcosa, immediatamente la gente cominciava a twittare e la notizia diventava virale. In breve tempo, collegando le informazioni che gli utenti condividevano con l’hastag #banksyny era possibile individuare il luogo dove era stata realizzata l’opera. La reazione delle persone stava diventando parte integrante dell’opera d’arte. La maggior parte dei newyorkesi ne era entusiasta, il tono dei tweet era “wow il mio primo Banksy”, o “finalmente ho visto un Banksy”. La gente correva sul posto a scattare selfie prima che l’opera, nel caso si trattasse di un graffito, seguisse… diciamo così, il suo corso nella strada.
Nel caso di “You complete me, io ero arrivato quando già qualcuno aveva “taggato” l’idrante con una “V” verde. Perciò mi sono sentito come quando perdi la metro per un soffio.
Ma scrivere su un graffito non è come scarabocchiare la Gioconda, anzi fa parte del gioco. Un writer, quando tagga un muro ne reclama la proprietà, proprio come un fanno appunto i cani con gli angoli delle strade. Con quello stencil, Banksy aveva voluto dire al mondo: “Ciao New York, ci sono anche io”. E ovviamente qualcuno aveva risposto. Il mio “you complete me” era stato fatto il 3 ottobre e con il passare dei giorni stava subendo quello che in gergo viene definito spotjoking: artisti meno famosi, scrivono il proprio nome vicino all’opera che attira più attenzione, per aumentare la loro visibilità.
Banksy se lo aspettava e aveva trasformato anche i suoi rivali, che in questo caso giocavano in casa, in una componente fondamentale del suo progetto. Eravamo tutti protagonisti di un storia interattiva che capitolo dopo capitolo, giorno dopo giorno, veniva scritta sui muri. Da spettatore occasionale di questo spettacolo in divenire, mi resi conto che stavo assistendo ad nuovo poderoso modo di portare in scena un messaggio.
Qualche giorno dopo, andai per la prima volta a Bushwick, un quartiere di Brooklyn in predicato di diventare la nuova Williamsbourg (Hypsterlandia per intenderci), ma dove vi consiglio di non fare troppo tardi la notte.
Qui vive Zoe, un’italiana che di street artist se ne intende, ed il discorso non può che cadere su Banksy (puoi vedere qui il mio servizio realizzato per Rai Italia su di lei).
Nella comunità dei graffittari newyorkesi underground sono in molti a pensare che Banksy sia uno sbruffone, uno che in qualche modo è riuscito a fare business con quello che per loro è una forma di pura espressione libera. Passatemi il gioco di parole, c’è proprio un muro che divide i writer dagli street artist! Ai writers interessa solo il riconoscimento degli altri writers. I loro lavori sono quasi sempre provocatori, tanto che, più che lo stile, conta il coraggio necessario per effettuarli. Lo loro unica arma è la bomboletta spray, a differenza dello street artist che non si pone limiti ed usa gli Stickers, lo Stencil e le installazioni.
Nel suo mese newyorkese, Banksy ha esplorato ogni forma di comunicazione: dal video in cui dei militanti dell’Isis abbattono Dumbo, ad un furgone aperto pieno di animali di peluches.
E nell’ottobre del 2013 era lui la star di New York. Il pubblico era dalla sua parte. Chi arrivava in ritardo, spesso rischiava di non vedere nulla perché le mura venivano riverniciate o, molto più di frequente, ricoperte da tag e quindi, da bravo newyorkese, postava il suo disappunto. La convinzione generale era semplicisitica: i writers imbrattano, gli street artists abbelliscono. Ma questo Banksy non poteva non immaginarlo, anzi, avevo l’impressione che, a modo suo, stesse cercando di instaurare una forma di dialogo.
In fondo siamo a New York. Dove tutto ebbe inizio.
Durante una partita delle world Series 1977 allo Yankee Stadium nel Bronx, la ABC, che trasmetteva l’incontro, mandò in onda delle immagini da un elicottero. Una macchia rossa avvolge il South Bronx. È talmente evidente che il telecronista non può fare a meno di commentarla coniando una frase divenuta famosa:
“There it is, ladies and gentlemen, the Bronx is burning” (È così, signore e signori, il Bronx sta bruciando).
La narrativa filmica degli anni ’80 ha raccontato al mondo il Bronx di quegli anni. Il quartiere era in mano alle gang e chi poteva se ne andava. Questo fuggi fuggi, svalutò totalmente il valore delle abitazioni che i palazzinari che ancora non erano riusciti a disfarsi delle proprietà infruttuose, iniziarono a bruciare gli edifici per riscuotere l’assicurazione. In quel vero e proprio inferno, se avevi qualcosa da dire, l’unico modo di farlo era attraverso i muri o ancora meglio i treni, che attraversando la città portavano a spasso il tuo messaggio. Quegli anni sono ben raccontati anche da una serie televisiva scritta da Baz Luhrman e trasmessa su Netflix lo scorso anno: The Get Down.
https://youtu.be/NEZgtVS80VA
Nacque così la graffiti art e se Basquiat e Keit Haring erano riusciti a portarla dalla strada alle gallerie di Manhattan, a distanza di 30 anni Banksy stava portando la gente della gallerie per strada. L’intera New York era diventata la galleria di una sua personale. Quando i giornali iniziarono a parlare con insistenza del fenomeno, i proprietari dei muri cominciarono a difendere quello che avrebbe potuto rappresentare un valore, visto che la gente iniziò letteralmente a tagliare i muri per portarsi a casa i graffiti.
Il 18 ottobre, sono andato a mangiare un’aragosta al Chelsea Market e poi ho deciso di tornare in hotel passando per Meat Packing. Qui un tempo, prima di diventare il quartiere dell’arte, c’erano i mattatoi. Gli animali arrivavano su una ferrovia sopraelevata che è stata dismessa da molti anni e ora è un lungo giardino panoramico. Lì ho notato un gruppo di persone che stava scattando selfie sotto un ponte e sono andato a vedere. Da quattro robuste catene pendevano due quadri. Ovviamente c’era lo zampino di Banksy.
Esporre all’aperto, in un quartiere pieno di gallerie rientra nel suo stile. L’emozione era forte. Ero finalmente lì dove qualcosa stava accadendo. Ma l’euforia è subito svanita. Non avevo con me né la camera, né il telefono che avevo lasciato in carica. No iPhone, no pictures.
In quei giorni soggiornavo al New Yorker, un hotel un po’ vecchiotto ma pieno di storia (nella stanza 3327 visse e morì Nikola Tesla). Non ero lontano, ma avrei potuto trovare fila agli ascensori. Ero indeciso se tornare a prendere lo smartphone o restare a vedere che succedeva. Un gruppo di ragazzi aveva un cartellone che assomigliava all’interfaccia di Instagram. Ho fatto amicizia con altri curiosi come me e ho scoperto che il progetto era ispirato a Occupy Wall Street ed era una collaborazione tra Banksy e gli Os Gemeos, dei graffiti artist brasiliani che in patria sono considerati una sorta di super eroi.
Quando ho finalmente deciso di correre a prendere il telefono, ho incontrato una coppia di amici che lavora in una galleria poco distante. Fanno parte di quel mondo dell’arte che ha deliberatamente deciso di ignorare quello che sta accadendo. I loro sorrisetti ed i commenti stridevano con il cocktail di euforia e frustrazione con cui ero alle prese, ma incontrarsi per caso a New York non è una cosa banale. Così siamo finiti a bere una birra, in un locale li vicino. Così ho scoperto che per chi vive il sistema dell’arte dall’interno, l’ottobrata banksiana non era qualcosa di troppo interessante. Mentre la gente, appena sveglia, controlla i social di Banksy prima ancora di leggere il giornale, i professionisti dell’arte si dicono scettici sulla reale portata artistica di una operazione che, in effetti, li scavalca completamente.
Sarà. Però io rimpiango di non essere più tornato a prendere il mio iPhone quel giorno.
Se volete conoscere tutta la storia di Banksy a New York vi consiglio il documentario della Hbo, Banksy does New York. Qui invece trovate tutte le tappe compiute da Banksy, riassunte dal Ny Times.