L’amore e il sesso sono al centro del grande romanzo. Per quale ragione? Perché sono l’unica cosa che conta. In un incontro al teatro Piccolo Eliseo di Roma (dopo quello sugli incipit), Alessandro Piperno e Annalena Benini hanno parlato di amore e sesso in letteratura e del perché finiamo per amare i personaggi di un romanzo o di una serie tv, più delle persone reali.
Alessandro Piperno
“Una delle più grandi tragedie della mia vita è stata la morte di Lucien de Rubempré”.
Questo è un famoso aforisma di Oscar Wilde. Per chi non lo sapesse Lucien de Rubenpré è l’eroe di un paio di romanzi balzacchiani: Illusioni perdute e Splendori e miseria delle cortigiane. E’ interessante interrogarsi su questo aforisma. Che cos’è, la solita affettazione di snobismo estetizzante tipica di Oscar Wilde come per dire che la cosa importante è l’arte mentre la vita non ha alcun senso? O la si può prendere più seriamente e dire che in realtà l’arte è l’unica cosa che conta e il ruolo che i personaggi hanno nella nostra vita è molto più importante di quanto pensiamo?
La morte di Ned Stark
Devo confessarvi che io capisco perfettamente cosa intende Oscar Wilde, nel senso che l’importanza di un personaggio che ti entra nella vita, che te la cambia, che ti accompagna per molto tempo, quando viene meno lascia un vuoto che spesso non lasciano le persone. Riflettevo, mentre preparavo la lezione, che quando nel Trono di spade a un certo punto muore Ned Stark, cosa che ci ha lasciato tutti sgomenti, ho pensato di aver sofferto molto di più di quando il fioraio mi disse che la madre novantenne era passata a miglior vita.
Credo che esattamente questo intendesse Oscar Wilde, oltre a metterci in guardia dal rischio di confondere un personaggio reale con un personaggio letterario. Il rischio è quello di fare la fine di Don Chisciotte, o della Bovary, oppure può succedere come nel bellissimo racconto di Stephen King, da cui è strato tratto il film, dove una donna credeva talmente in Misery, che alla fine rapisce lo scrittore perché Misery non deve morire (leggi anche qui).
Pensando alla dialettica tra la verità di una persona esistente e l’irrealtà di un personaggio letterario, mi sono ricordato di uno stupendo saggio di Forster che si chiama Aspetti del romanzo, che raccoglieva alcune sue lezioni in cui a un certo punto lui si interroga in un modo molto spiritoso sugli aspetti del romanzo. Cosa più distingue la persona reale, ovvero l’homo sapiens, dal personaggio letterario?
Forster individua cinque momenti: nascere, morire, il sonno, il cibo e l’amore. Quindi dice che della nascita, sebbene abbia un’importanza così sostanziale nella nostra vita, non ricordiamo niente. Della morte, per definizione non possiamo sapere niente perché quando lei c’è noi non ci siamo più. Un terzo della vita, forse anche di più, per alcuni anche metà, lo passiamo dormendo. Il cibo poi occupa gran parte della giornata. Gli uomini occidentali pingui come me mangiano anche tre volte al giorno. L’amore nella vita di persone modeste e normali come me – anche se immagino che tra voi ci siano dei libertini –occupa uno spazio estremamente risicato, per non dire il sesso.
Invece vediamo cosa succede al personaggio letterario
Allora la nascita ha un’importanza sostanziale, molto più che nella vita vera. Dickens, ad esempio, è fissato con le nascite. La morte pure, pensiamo alla morte di Bergotte in Proust, o La morte di Ivan Il’ič.
Noi moriamo in modo banale e squallido, mentre gli eroi dei grandi romanzi muoiono sempre in modo magniloquente. Il sonno poi non esiste. I personaggi non hanno bisogno di dormire come noi. Notava qualcuno che i personaggi di Dostoevskij possono parlare per ottanta ore consecutive. Per quanto riguarda il cibo, occupa soltanto un ruolo mondano. I personaggi non hanno bisogno neanche di mangiare. Si mangia solo per poter dire altre cose.
L’amore e il sesso sono al centro del cosiddetto romanzo borghese. La domanda che si fa Forster è: per quale ragione? La risposta è tra le più banali. Perché sono l’unica cosa realmente interessante. Quello che è straordinario è che i grandi romanzi borghesi si occupano di tre cose che nella vita di noi comuni mortali occupano invece uno spazio risicatissimo che sono la gloria, a cui pochi possiamo aspirare, il denaro, che pochi abbiamo, e soprattutto l’amore. E’ esattamente da qui che vorremmo partire.
A me pare uguale agli dèi
chi a te vicino così dolce
suono ascolta mentre tu parli
e ridi amorosamente. Subito a me
il cuore si agita nel petto
solo che appena ti veda, e la voce
si perde sulla lingua inerte.
Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle,
e ho buio negli occhi e il rombo
del sangue alle orecchie.
E tutta in sudore e tremante
come erba patita scoloro:
e morte non pare lontana
a me rapita di mente.Saffo, VII secolo A.C.
Che sia l’amore tutto ciò che esiste
È ciò che noi sappiamo dell’amore;
E può bastare che il suo peso sia
Uguale al solco che lascia nel cuore.Emily Dickinson, (n.1765)
Penso che forse a forza di pensarti
potrò dimenticarti, amore mioPatrizia Cavalli, 1990
Annalena Benini
Queste sono alcune dei milioni di parole che hanno cercato di descrivere l’amore dall’inizio del mondo ad oggi. Stiamo parlando di amore romantico che in letteratura ha due possibili declinazioni: l’amore delle favole, in cui vivono per sempre felici e contenti e a noi immediatamente non ce ne importa più nulla. Oppure l’amore impossibile, incompiuto, reso eterno proprio dalla sua impossibilità e dalla infelicità. L’amore di Frederic Moreau per Madame Arnoux ne L’educazione sentimentale di Flaubert. Il romanticissimo e spaventoso amore di Heathcliff e Catherine in Cime tempestose di Emily Brontë del 1847.
Un romanzo d’amore ma anche di odio in cui loro due che non si sono potuti amare compiutamente in vita si tengono per mano nella brughiera dopo morti. Ma anche l’amore impossibile della contessa Ellen Olenska per Newland Archer ne L’età dell’innocenza di Edith Wharton del 1920, dove è in gioco non solo l’amore ma anche la grandezza femminile, la libertà e dove c’è il senso altissimo di una rinuncia. Insomma un amore romantico per essere immortale, per essere eterno, dev’essere infelice perché letterariamente non si adatta alla vita quotidiana, alla vita coniugale, non si adatta all’abitudine di qualcosa di già conquistato, alla serenità dei giorni tutti uguali, non si adatta alla compiutezza.
E qui invece, ancora una volta sta la grandezza di Tolstoj che è riuscito a offrirci forse l’unica meraviglia di un amore romantico e felice in Anna Karenina. Naturalmente non Anna e Vronskij che sono perduti, ma Levin e Kitty. Levin è un amico d’infanzia del fratello di Anna Karenina, è un aristocratico di campagna aitante, con la barba, ingenuo, con in testa un grosso colbacco di montone. E’ campagnolo, è prestante ma non è Heathcliff di Cime tempestose. Kitty invece è una principessa raffinata di diciotto anni che aspetta la proposta di matrimonio da un altro uomo, dal conte Vronskij. Tolstoj ci ha regalato la scena di innamoramento forse più bella di tutta la letteratura.
L’incontro di Levin e Kitty sulla pista di pattinaggio in una limpida giornata di gelo. Levin è stato via da Mosca per quasi un anno e adesso è tornato proprio per Kitty, perché è innamorato di lei da sempre e vuole chiederle di sposarlo, anche se non si sente all’altezza di Kitty che è così bella, luminosa, raffinata. Noi aspettiamo questo incontro. Tolstoj crea la suspense, ci fa aspettare, ce lo fa pregustare costringendoci prima a conoscere Levin. Lo fa parlare con il fratello, lo fa parlare con l’amico, ci fa capire che nessun male potrà venire da un uomo così, nessun tradimento, nessun tormento. Ci fa capire anche che chissà che cosa sarà di Levin se Kitty rifiuterà di sposarlo.
Levin arriva al giardino zoologico, dove c’è la pista di pattinaggio, alle quattro del pomeriggio in una limpida giornata di gelo e sole. Il fatto che siano le quattro del pomeriggio, che sia tutto intorno bianco e candido, ci aiuta ancora di più a comprendere, a sentire la purezza di questo sentimento. Ci sono perfino le betulle, con tutti i rami piegati dal peso della neve, che accompagnano Levin nel suo cammino verso la pista di pattinaggio e danno alla scena un’idea di solennità quasi religiosa. A Levin basta vedere la carrozza di Kitty per farsi venire il batticuore.
La prova dell’innamoramento è questa. E’ il cuore che batte e sente che lei è lì anche se lui non l’ha ancora vista, ma gli manca il respiro, quindi lei deve essere lì. E’ tutto ghiacciato, ci sono i bambini che giocano con gli slittini, non c’è nessuna macchia sulla purezza di Levin e Kitty.
Tolstoj scrive: “Si accorse che lei era lì dalla gioia e dal terrore che gli aveva afferrato il cuore”. Lui capisce che Kitty è lì perché ha paura. Noi sentiamo la sua agitazione, le pulsazioni, lo stomaco in subbuglio. Mentre arriva alla pista di pattinaggio Levin dice: “Bisogna che non mi agiti, bisogna che mi calmi. Che cos’è? Che cosa vuoi? Sta zitto stupido”.
E tanto più cerca di tranquillizzarsi, tanto più gli si ferma il respiro. Per questo noi siamo con lui, perché è l’incarnazione romanzesca di tutti gli imbranati come noi che però credono di meritare il lieto fine. E subito, tra tutti quelli che pattinavano – questa folla linda ed elegante, piena di bambini, tutti felici nel sole – Levin riconosce Kitty. E la riconosce perché, scrive Tolstoj, tutto risplendeva di lei. Lei era il sorriso che illumina tutto intorno a sé. Non c’è qualcosa di più romantico, o forse solo la frase successiva: “Levin, per andare da Kitty, discese giù, evitando per un po’ di guardarla, come si evita di guardare il sole, ma come il sole la vedeva senza guardarla”.
“Come il sole la vedeva senza guardarla”: non so se vi hanno mai detto qualcosa del genere. Quindi anche noi non possiamo evitare di innamorarci di Kitty. L’adoriamo perché gli occhi di Levin ci insegnano ad adorarla. Siamo trepidanti e imbarazzati, abbiamo paura che Levin faccia una brutta figura. In effetti Levin, inselvatichito anche da mesi di campagna, dà prova di una grandiosa imbranataggine. Arrossisce per tutto il tempo. Lei invece è disinvolta.
Sta per debuttare in società, è una principessa, quindi sa flirtare con naturalezza, per diritto di nascita. Gli porge la mano, gli chiede “Siete qui da molto?”. Gli dice: “So che siete un bravissimo pattinatore” e lui balbetta, lui non fa che turbarsi e arrossire. Le dice: “Io da poco, ieri… ossia oggi, sì sono arrivato. Volevo venire da voi”. Non è in grado di parlare con Kitty. Ma poi succede una cosa che lui non si aspetta che gli fa raggiungere il massimo dell’imbarazzo e della felicità.
Lei, che sa come si fa, gli dice: “Su, andiamo a pattinare insieme” e lui pensa: « “Questa è vita, questa è felicità”. “Insieme” ha detto, “Andiamo a pattinare insieme”. Glielo dico adesso? Ma è proprio per questo che ho paura di dirglielo perché adesso sono felice, felice almeno di speranze, e poi? Ma devo, devo, devo, al diavolo la debolezza! »
Levin, lo vedete è un imbranato. Non si sente mai all’altezza. Gli sembra un miracolo che lei sia gentile con lui ma allo stesso tempo ha un’urgenza di dichiararle il suo amore perché la vuole con sé per sempre. Quindi imbranato, ma ostinato e meritevole di lieto fine. Loro due finalmente pattinano insieme, lui è un uomo dei boschi e quindi è una specie di campione di pattinaggio. Lei si appoggia a lui, gli dice: “Mi date sicurezza”. Lui risponde: “E voi la date a me quando vi appoggiate”. Ed è un continuo arrossire e inciampare sui pattini. E’ come una prima volta, è la loro prima volta goffa e pura.
Questo è l’amore puro e romantico fra due ragazzi non perduti, che stanno per attraversare un dolore, ma si troveranno al di là di quel dolore, insieme. Meritano il lieto fine. Quando Kitty gli chiede se si tratterà a lungo a Mosca, lui esita un po’ e risponde: “Dipende da voi” e subito è terrorizzato per quello che ha detto. Lei finge di non aver sentito però inciampa anche lei con i pattini e si allontana.
E’ turbata perché crede di amare Vronskij, aspetta che lui la chieda in sposa ma comincia a vacillare. Intanto Levin quasi cade per far lo sbruffone davanti a lei, per farsi amare da lei. Lei deve andare via, è turbata, teme di aver civettato e in effetti ha civettato ma è contenta e allegra anche se ripete: “No, non lo amo”.
Raggiunge la madre che è molto fredda con Levin perché pensa che non sia un partito all’altezza di sua figlia e Kitty lo sa e vuole subito cancellare quell’impressione di freddezza. Quindi sorride a Levin dicendogli “Arrivederci” e in quel sorriso ci sono molte promesse che lei non sa di fargli, ma che non riesce a trattenere. Ma poiché l’amore è soprattutto infelice, quando Levin le fa per la prima volta la sua proposta di matrimonio, Kitty nonostante quel pomeriggio sul ghiaccio lo rifiuta perché pensa a Vronskij, perché pensa a sua madre.
Lo guarda disperata e gli dice: “E’ impossibile, perdonatemi”.
E sbaglia ma tutti subito la perdoniamo. Anche Levin la perdonerà. Levin dà in questo momento la risposta più mite, rassegnata, innamorata che esista. Lui rivolge tutto contro di sé e dice, quando lei lo rifiuta: “Non poteva essere altrimenti”. E in questo modo si guadagna il lieto fine.
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Fine della prima parte
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Grazie per questo prezioso resoconto! I romanzi, la finzione, il mito, la poesia sono FONDAMENTALI, perché gli umani modellano la loro realtà sulla base di queste “finzioni”. Hölderlin scriveva: “Ciò che dura lo fondano i poeti”. Caspita se aveva ragione! La realtà squallida, che viviamo oggi, è proprio il risultato diretto della pessima “fiction”, che la gente consuma tutti i santi giorni: tv, cinema, social… Se non tornano i grandi miti, le grandi leggende, la grande letteratura, saremo condannati a vivere in un mondo di tronisti, di talents, di casalinghe o carrieriste frustrate, di impiegati dalle squallide doppie vite… In una parola: saremo condannati alla banalità e alla noia!
Ciò che dura lo fondano i poeti… ma che bello Vincenzo!
Sì questo incontro, questo scambio tra PIperno e Benini, ha conquistato tutti noi presenti. La scena tra Kitty e Levin è una delle mie preferite e qui viene ri-raccontata dalla Benini in modo ispirato.
Da sempre mi insterrogo sul rapporto tra la letteratura e la vita. E’ una relazione complessa da afferrare ma più stretta e intrecciata di quanto si possa pensare perché anche noi siamo metafore e siamo fatti della stessa stoffa di cui son fatti i sogni.
Sulla fiction contemporanea, io sono meno elittaria, penso che anche un giallo, o un rosa posano essere strumento di crescita e conoscenza. Sul resto non mi pronuncio.
Vabbè, sul fatto che un bel giallo ti possa insegnare e dare molto sono completamente d’accordo. Su quello che ti possa dare un rosa non saprei che dire, perché non ne ho mai letto uno…. Sul resto, invece, mi pronuncio di nuovo, eccome! Non ho fatto dichiarazione di neutralità come la Svizzera! La realtà contemporanea è squallida, monotona e pure noiosa – e la colpa forse ce l’hanno proprio tutta quella schiera infinita di mediocri creatori di “fiction” insignificante e banale, che riempie le nostre case e le nostre povere testoline….
No, non voglio fare come la Svizzera, è che il panorama televisivo è talmente composito e poi bisogna distinguere tra paese e paese, ma oggi possiamo vedere quello che c’è in ogni paese e scegliere solo quello che ci piace. E poi la tv generalista ormai la guarda solo un certo target, forse risicato… insomma il discorso si fa complicato…
La tv generalista ha un target risicato? Berlusconi si riaffaccia sulle SUE televisioni generaliste e fa incetta di consensi! E a 24 anni di distanza dalla sua “discesa in campo” è ancora al centro della vita politica italiana! La tv generalista ha avuto ed ha ancora un peso enorme nella vita politica e sociale del NOSTRO paese, che è poi quello che ci riguarda. Comunque, intendevo “fiction” in senso lato e non in senso strettamente televisivo….