Piperno e Benini hanno tenuto una lezione su quello che ritengono il tema letterario per eccellenza: il sesso e l’amore. Dopo una bellissima analisi di Anna Karenina (vedi la prima parte), stavolta tocca a Proust e Flaubert, che, a detta di Piperno, è il più “maiale degli scrittori dell’Ottocento” pur essendo assolutamente implicito.

Alessandro Piperno
Come avete visto dal bellissimo racconto di Annalena, Tolstoj viene meno a una delle più sacre leggi della letteratura che sono stata definite da André Gide, quando disse che “la letteratura non si fa con i buoni sentimenti”. Qui c’è tutto il genio tolstojano ma c’è anche il genio di un paese, che è la Russia, un paese pieno di follie e contraddizione, ma anche di grandezza.
La letteratura francese, di cui io mi sono occupato tutta la vita, è decisamente più malvagia. Ho sempre pensato che esista una relazione precisa tra la nascita del romanzo francese – alla fine del Seicento con Madame de La Fayette – e quel grande movimento a cui la Francia ha dato parecchio che è la moralistica classica. Quando io tento di spiegare cos’è la moralistica classica ai miei studenti, ho sempre qualche problema perché quando noi oggi diciamo “moralista”, subito pensiamo a giustizialisti, “manettari” e puritani, insomma il peggio del peggio.
In realtà la moralistica classica era una cosa straordinaria, che annovera tra i suoi campioni personaggi come Machiavelli, Guicciardini, La Rochefoucauld, La Bruyère, Pascal, Montaigne, il meglio dell’intelligenza e che si poneva un obiettivo antitetico rispetto a quello degli squallidi moralisti contemporanei, non quello di insegnare la morale, ma quello di capire qual era la verità.
Quelle che Proust chiamava “le grandi leggi che regolano la nostra vita” sono, anche se non ci piace dircelo, l’ipocrisia, la vanità, il narcisismo, la difesa a tutti i costi dell’amore proprio. Il romanzo francese nasce in questo humus e c’è una linea ideale che tiene insieme Madame de La Fayette e Proust, passando per Laclos, per Benjamin Constant, per Stendhal, per Flaubert e gli altri. Per capire cos’è la moralistica classica legata al concetto dell’amore, c’è una grande scrittrice del Seicento che si chiama Madame de Sévigné, che era una grande scrittrice che non sapeva di esserlo e che ha scritto delle lettere meravigliose. A un certo punto, dopo che le viene imposto, come si usava in quegli anni, il matrimonio con Monsieur de Sévigné, un uomo bellissimo ma straordinariamente superficiale, lei scrive a un’amica:
“Monsieur de Sévigné mi stima molto, ma non mi ama. Io lo amo da morire ma non lo stimo”.

Questo è il fulcro della moralistica classica. Non raccontarsi cazzate, dirsi la verità. Annalena ha parlato dell’amore romantico, io parlo dell’amore autartico, disincantato, tipicamente francese. Un antropologo francese morto pochi anni fa, René Girard, nella sua giovinezza scrisse un saggio fondamentale che si chiama Menzogna romantica e verità romanzesca in cui sostiene che da un lato c’è la menzogna romantica, per cui noi ci innamoriamo di un oggetto che è meritevole del nostro amore, il che significa che tendiamo a trasfigurarlo però allo stesso tempo ne vediamo anche le qualità oggettive. Invece il romanzo si occupa di un altro tipo di desiderio, che è appunto la verità romanzesca, che è una verità cinica e disincantata.
Noi non ci innamoriamo, dice Girard, non desideriamo ciò che ci piace realmente ma desideriamo ciò che gli altri ci inducono a desiderare.
Io feci da ragazzino l’esperienza che poi Girard mi avrebbe spiegato una ventina d’anni dopo perché nella mia classe, alle medie, c’era una ragazzina, Francesca R. come si usava scrivere nei romanzi ottocenteschi. Francesca R. era carina, ma non era niente più che carina.
A un certo punto il mio compagno di banco, che era il più bello della classe, si invaghì di Francesca R., allora io mi invaghii di Francesca R. per interposta persona e tutti si invaghirono di Francesca R. Questo perché noi non riusciamo ad amare in modo vergine, noi amiamo sempre tramite un vero e proprio mediatore; tanto più il mediatore è prestigioso, quanto più tendiamo ad amare.
Girard verifica nei grandi romanzi della storia letteraria occidentale, questa sua idea dell’amore autarchico. Che cos’è l’amore autarchico? E’ l’amore che vive soltanto nel soggetto. L’oggetto d’amore è sostanzialmente un pretesto. Proust a questo ha dedicato la maggior parte della sua opera. C’è una sua frase stupenda che dice: “Noi amiamo soltanto essere di fuga”: on aimes seulement etre de fuite. C’è anche un detto: in amore vince chi fugge. Abbiamo la sensazione che la psicologia umana sia estremamente complessa ma di fronte a una donna che fugge la inseguiamo come dei cani. E’ fatale. Tutta la fenomenologia amorosa all’interno della Recherche ubbidisce a queste grandi leggi. Noi tendiamo a inseguire chi fugge, nel momento in cui ci viene incontro non ci interessa più.

E’ il caso del personaggio più famoso della Recherche, Charles Swann, e di quel suo famoso amore. Swann è un dandy, ebreo, ricco, che vive in una casa un po’ fuori Parigi piena di opere d’arte, che ormai si è talmente stufato di andare a letto con le gran donne che va a letto anche con le loro domestiche. E’ un uomo di mezza età che a un certo punto incontra questa cocotte, questa donnetta del demi monde che si chiama Odette de Crécy che lui tra l’altro non apprezza neppure fisicamente, non è il suo tipo perché lui le ama prospere, invece questa ha la pelle butterata ed è un po’ piccolina.
Inizia con lei la solita relazione, frequenta il salone dei Verdurin dove nasce questa piccola schermaglia e a un certo punto dà per scontato il fatto che Odette sia la sua amante. Dopo di che un giorno, siccome la tradisce, si attarda con un’operaia, una ragazzetta del popolo, quindi arriva tardi alla cena dei Verdurin e Odette non c’è. In quel momento scatta qualcosa in Swann. Inizia a cercarla. Lei gli ha lasciato detto che si vedranno più tardi da Prévost. Lui va da Prévost, non la trova, gira tutta Parigi, è completamente sconvolto, gira in carrozza, qualcosa sta succedendo, lui non sa che cosa sia.
Questa cosa che sta succedendo è esattamente quello che spiega Girard, cioè il fatto che noi tendiamo ad amare solo ciò che non riusciamo a possedere. E non lo riusciamo a possedere neanche quando in realtà lo imprigioniamo, come proverà a fare Swann. Poi l’amore svanisce improvvisamente nella vita di Swann. Nel frattempo Odette lo ha tradito, lo ha abbandonato mille volte, è partita per un lungo viaggio, lui ha sofferto le pene dell’inferno, è un uomo finito, ma ecco che improvvisamente qualcosa si sta risistemando nella sua vita quando Swann incontra a Parigi una signora che frequenta Odette. Swann ha talmente trasfigurato questo suo amore per Odette che crede che lei lo detesti, che lo odi, cosa tipica di un soggetto che ama e sente di non essere riamato.
“Ma Odette parla sempre benissimo di lei”, gli viene detto: “Lei è in cima alla sua classifica. Odette secondo me vorrebbe anche sposarla”.
Basta questo per far cadere tutto. La cosa straordinaria di questa storia d’amore, che è antitetica a quella di Levin e Kitty, è il fatto che l’amore finisce esattamente quando lui la sposa. La sposa nel momento in cui non la ama più. Poi, quando lui è finalmente libero e sta per andare in campagna a riprendersi da questi dolori sentimentali che lo hanno quasi ucciso, fa un commento di una bellezza e di una spietatezza degna di Proust, che dà tutto il senso della beffa della vita e della beffa dell’amore:
“E dire, pensa Swann, che ho sciupato anni della mia vita, ho desiderato morire, ho avuto il mio più grande amore per una donna che non mi piaceva, che non era neanche il mio tipo”.
E’ questa la ragione per cui si chiama Un amore di Swann e non L’amore di Swann, perché Proust vuole dirci che in realtà l’altro conta e non conta. Un amore di Swann poteva essere quello, o poteva anche essere un altro. Diciamo che Proust è troppo cinico per usare l’articolo determinativo.

Annalena Benini
Un amore intenso e disperato e respinto ispirò Stendhal, che Alessandro ha definito “un cialtrone di genio”, in un libro molto interessante che s’intitola proprio Dell’amore.
Che cos’è dunque questo amore – si chiede Stendhal – che può tormentare, trasformare, travolgere l’esistenza? Lui non voleva soffrire, voleva salvarsi, quindi ha individuato quattro tipi di amore per schematizzare e forse anche un po’ ridimensionare la portata dell’amore. Quattro tipi d’amore che sono in realtà molto vicini l’uno all’altro e anche variamente intersecabili, con cui si può giocare e soffrire. E c’è anche la possibilità che un solo amore li contenga tutti e quattro.
Questi amori sono: l’amore passione che è quello di Levin per Kitty, di Gatsby per Daisy. E’ l’amore che va anche oltre il proprio interesse, come succede anche ad Anna e a Vronskij.
Poi c’è l’amore capriccio, che secondo Stendhal regnava a Parigi nel 1760, ma che non ha mai smesso di esistere e Alessandro ne è la prova perché è “quando ti piace quella che piace a tutti”, o almeno la fidanzata del tuo migliore amico. Oppure quando ti intestardisci su quella che prima non ti interessava tanto, ma adesso vi siete scambiati un po’ di messaggi su Whatsapp, tu hai visto che lei è lì, sta scrivendo, lo vedi che sta scrivendo e invece lei smette ed esce dalla chat. E tu t’innamori perché lei è uscita dalla chat. Non sai perché. Stendhal non lo scrive così ma quasi. Dice però che è un amore piccolo, che non trasporta lontano, un amore povero a cui, se si toglie la vanità, resta ben poco.
Poi c’è l’amore vanità. Stendhal scrive: “Una duchessa ha sempre trent’anni per un borghese”. L’amour vanité è quello che ti fa innamorare di chi possiede qualcosa che tu vorresti conquistare, almeno per interposta persona. Quindi fama, nobiltà, successo, una Ferrari, una villa a Capri, molte ville, l’ampia fortuna dello scapolo di Jane Austen. La vanità, dice Stendhal, fa nascere degli slanci simili alla passione e può anche trasformarsi in passione perché la vanità aspira a reputarsi grande passione: così ci si convince, ci si illude di amare.
E poi, finalmente, c’è l’amore fisico. Mi vergogno a leggere cosa intenda Stendhal per amore fisico: “una bella contadina fresca che fugge nel bosco”.

Alessandro Piperno
Non c’è avventura più complicata, per chi fa il mio mestiere – cioè scrivere romanzi – che scrivere di sesso. E’ difficile perché è una di quelle poche cose che è meglio fare che scrivere e allo stesso tempo anche perché ti espone immediatamente al ridicolo. Parlandone con Annalena, abbiamo pensato che in realtà esistono due metodi potabili e uno assolutamente sconveniente di narrare il sesso in letteratura. Uno è il modo ellittico, quello elaborato soprattutto dalle scritture dell’Ottocento che è un secolo puritano, dove il sesso viene abolito. Se a qualcuno dovesse capitare di leggerlo consiglio vivamente il libro di Berlin sull’origine del Romanticismo (Le radici del romanticismo) perché dà proprio il senso di come nasce questo sentimento in cui noi ancora siamo immersi. Questa cosa così importante però ha prodotto anche dei dissensi, tra cui appunto il puritanesimo.
Che sia il Secondo Impero, quando scrivono Baudelaire e Flaubert, che sia l’Inghilterra vittoriana in cui scrivono Oscar Wilde e Dickens, il sesso viene abolito nell’Ottocento, almeno dalla letteratura. Però, a pensarci bene, i due grandi protagonisti dei romanzi dell’Ottocento sono il sesso e il danaro. L’uno viene continuamente tematizzato, l’altro invece viene continuamente eluso. Ma quella sensazione di vaga eccitazione che abbiamo nel leggere certi romanzi d’amore dell’Ottocento, deriva dalla sensazione che il sesso sia ovunque anche se non si vede e quindi accende la nostra pruderie.
L’altro modo di trattare il sesso è una franca, spietata esplicitezza di cui vi parlerà Annalena perché io sono un uomo pudico. Ma non essendo pudico fino in fondo dirò che tutto ciò che è eufemistico o vagamente allusivo, come nei romanzi rosa, è disgustoso. E’ come quelli che non dicono “stronzo” ma “strombolo”. Scartabellando tra i romanzi rosa che leggo di nascosto della mia compagna, ho trovato: “Un fiotto caldo proruppe dal suo membro turgido e palpitante”. Ecco questa è una tipica immagine che non bisognerebbe mai utilizzare perché è meglio che lo chiami “cazzo” che “membro”.
Però torniamo all’Ottocento che è il secolo che più mi somiglia, ipocrita e puritano. Torniamo al più maiale degli scrittori dell’Ottocento francese che è sicuramente Flaubert. Che è un maiale lo capisci dai suoi romanzi in cui è estremamente implicito, ma anche dai suoi epistolari che invece sono estremamente espliciti e anche estremamente scurrili, se non addirittura sboccati. Lui usa una tecnica fantastica per descrivere il sesso che è quella dell’ellissi. Cioè ci gira intorno e nel momento in cui il sesso sta per arrivare, punto e a capo, e tu capisci tutto.
Mi ricorda quella tecnica un po’ squallida che però aveva un suo senso, che c’era nelle commedie erotiche degli anni Settanta, all’epoca in cui non c’era YouPorn quindi noi adolescenti dovevamo accontentarci di quello che passava il convento, di solito alle quattro di mattina. Succedeva che l’eroina si spogliava, Lino Banfi o chi per lui le andava dietro, i due finivano a letto, la scena si chiudeva; mattina e c’era un bricchetto di latte sul fuoco da cui usciva il latte. Di una straordinaria volgarità ma dava il senso delle cose.

La scena a cui alludo è forse il momento più felice della triste vita di Emma Bovary. E’ il momento in cui lei e suo marito Charles Bovary, da cui è già delusa, vengono invitati a una cena di gala da persone molto più abbienti e altolocate di loro, in una bellissima tenuta in Normandia. Il padrone di casa munifico in realtà vive a Parigi ma va lì in vacanza. E la Bovary impazzisce. Impazzisce perché siamo proprio nel cuore del bovarismo, anche se lei non può saperlo: boiserie, tappeti, caviale, champagne, il meglio del meglio. Queste persone lei le percepisce non migliori di lei ma molto più ricche, molto più eleganti, molto più privilegiate. Impazzisce. E’ la prima volta che la Bovary parla al marito e lo rimprovera: “Stai zitto” gli fa. E’ la prima volta che sentiamo la sua voce ed è l’epitome di tutte le mogli.
Lei inizia a ballare, perché a lui è stato proibito: “Non devi renderti ridicolo”. Lei balla con vari uomini e a un certo punto arriva un visconte. La cosa geniale è che non abbia un nome. Quello che nella mia generazione è l’avvocato, nella generazione della Bovary è il visconte – un uomo bellissimo, elegantissimo – e iniziano a ballare. Non c’è quasi bisogno che io commenti, basta leggere queste poche righe per capire quello che Flaubert sta facendo da vecchio maiale qual è.
“Cominciarono lentamente, poi si lasciarono. Volteggiavano, tutto volteggiava intorno a loro, le lampade, i mobili, le pareti di quercia, il pavimento, come un disco ruotante su un perno. Passando davanti all’apertura della porta il vestito di Emma si avvolgeva in basso ai calzoni di lui, le loro gambe si incrociavano; lui abbassava lo sguardo su di lei, lei alzava il suo ad incontrarlo. Si sentiva invadere da un senso nuovo di languore. Lei si fermò. Ricominciarono. Il visconte la guidò in un ritmo più rapido e scomparve con lei in fondo alla galleria dove trafelata e sul punto di cadere Emma dopo un attimo appoggiò la testa sul petto di lui. E poi sempre volteggiando ma più lentamente, lui la riportò al suo posto. Lei rovesciò il capo contro la parete e si mise una mano sugli occhi”.
E’ evidente che qui sta mimando un coito.
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Se ti interessa l’argomento “Sesso e amore in letteratura” puoi leggere qui anche la prima e la terza parte dedicata a questo tema
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È verissimo: la letteratura non si fa con i buoni sentimenti, ma con tanto sesso, violenza, passioni torbide e forti…. Leggete il più grande best seller di tutti i tempi, la Bibbia, e vi accorgerete che gli ingredienti sono soprattutto questi. Scrivere dell’amore è un impresa antica e praticamente infinita…. Descrivere il sesso è estremamente difficile, anche perché il pericolo di cadere nella pornografia è sempre dietro l’angolo. Ma è indubbio che la descrizione del coito può diventare alta letteratura e vera arte!!!