Ci sono tanti modi di essere diversi, ma il migliore è esserlo insieme a qualcun altro. È questo il messaggio, solo apparentemente semplice, che Guillermo del Toro sembra voler mandare al mondo con il suo The Shape of Water – La forma dell’acqua.
Il regista messicano non è nuovo a questo tipo di riflessioni, basti pensare all’intreccio di storie d’amore disfunzionali e ambigue presente nel suo film precedente, il gotico Crimson Peak. Stavolta, però, alza l’asticella e realizza un lungometraggio fiabesco e avvincente dalla messinscena raffinatamente metacinematografica.
Sally Hawkins, attrice inglese divenuta famosa con Happy Go Lucky di Mike Leigh, interpreta con grande sensibilità e misura Elisa Esposito, una giovane muta che lavora come donna delle pulizie nel turno di notte in un centro governativo dove si fanno esperimenti top secret. Il suo vicino di casa e migliore amico Giles – Richard Jenkins, caratterista meraviglioso finalmente assurto al ruolo di comprimario – è un illustratore senza posto fisso, un sognatore omosessuale con una passione per i musical in bianco e nero e per il biondo commesso di un diner specializzato in torte piene di coloranti. La sua migliore amica è una collega di colore con un marito pesante e la parlantina sciolta e graffiante – una sempre bravissima Octavia Spencer.
La vita scorre sempre uguale in quel tragitto casa-lavoro, come in un acquario. E non a caso la storia è ambientata a Baltimora, sede di uno degli acquari più famosi degli USA. Un giorno, però, arriva una capsula con al seguito un funzionario dispotico interpretato da Michael Shannon, inappuntabile nell’affrontare questo personaggio apparentemente freddo, ma, in realtà, attraversato da sotterranee correnti di crudele brutalità. Curiosa e senza pregiudizi, Elisa si avvicina alla capsula e contro il vetro dell’oblò compare una mano artigliata e squamata. Da quel giorno, Elisa inizia ad interessarsi alla creatura misteriosa che il perfido Strikland (Michael Shannon) cerca senza successo di “domare”. Perché l’ominide acquatico – sotto le cui squame e branchie si cela Doug Jones, attore abituato a parti “mascherate” che già aveva dato vita a una creatura acquatica nei due Hellboy sempre di del Toro – è un essere libero, selvatico. È tanto curioso da imparare da Elisa la lingua dei segni, ma al tempo stesso è capace di ferire spietatamente se attaccato.
Come Elisa, non può parlare ma può sentire: la musica con le orecchie e i sentimenti con il cuore. Quest’ultimo è celato da qualche parte sotto la doppia serie di polmoni che lo rendono appetibile per un possibile invio nello spazio. Sì, perché i militari americani sono in cerca di un modo per battere i sovietici nella corsa allo spazio – il film è ambientato negli anni ’60 – e intendono trovarlo anche a costo di vivisezionare la creatura. Ed ecco che nell’atipica storia d’amore tra freaks dal contorno fantascientifico si inserisce la spy story da Guerra Fredda e la corsa contro il tempo per liberare l’uomo-anfibio, prima che venga sacrificato agli interessi militaristici.
Tra spie russe e militari americani, però, a spuntarla è Elisa che è animata da un amore puro, disinteressato, pronto al supremo sacrificio di dire addio alla creatura amata pur di saperla al sicuro perché: “Se non facciamo niente, siamo niente”.
The Shape of Water racchiude tanti spunti, seminandoli nella narrazione con intelligenza – senza mai essere didascalico o banale – sia nelle citazioni dei musical, che nella nostalgica bellezza del cinema sopra cui abita Elisa: una sala sempre vuota spettro di quella crisi del cinema tradizionale paventata da tanti specialisti, ma che per fortuna sembra non arrivare mai.
Nel film c’è una scelta sapiente dei colori, con una dominante del blu e del verde addirittura ironicamente esplicitata quanto Strikland va a comprare la sua Cadillac nuova, “turchese, non verde”, e nel ricorrere dell’elemento acquatico, presente virtualmente in ogni scena. Elisa si fa il bagno e bolle le uova, la vasca nel centro dove è incatenato l’uomo-anfibio quasi straborda e l’acqua viene usata da Elisa e la sua amica Zelda anche per le pulizie. Addirittura lo stesso Strikland ricorre sempre ad un bicchiere d’acqua per inghiottire gli antidolorifici.
Del Toro costruisce un universo conchiuso perfetto come una miniatura, visivamente coinvolgente e zeppo di rimandi interni, in cui ogni dettaglio ha un significato preciso. Come il manifesto affisso nello spogliatoio delle donne con scritto “Loose Lips Sink Ships” (Le labbra scucite affondano le navi), un beffardo invito al silenzio che per Elisa sembra superfluo mentre sarà proprio lei a tradire il segreto del suo lavoro con Giles. The Shape of Water è una fiaba quasi fuori dal tempo che proprio per questo finisce con il creare una risonanza potente con la contemporaneità. Del Toro, regista e sceneggiatore, lo ha costruito sulla tensione tra opposti, un meccanismo già di per sé tipico dei nostri tempi.
Ecco, dunque, delinearsi l’avversione o, al contrario, l’empatia per il diverso, il disinteresse per la conoscenza – le spie russe lo dichiarano esplicitamente: “Non ci interessa imparare, ci importa solo che gli americani non imparino” – l’amore generoso e poetico o quello prevaricante delle molestie sul lavoro, l’incapacità di parlare e la contemporanea facilità a condividere e accettare. Come in tutte le fiabe, la fantasia e l’intrattenimento celano, insomma, una morale importante, ma più centrali ancora restano i sentimenti. Non è un caso se in una sceneggiatura intelligente e piena di frasi significative, spesso affidate al Giles di Richard Jenkins, la protagonista si esprima per lo più a gesti: una scelta coraggiosa del cinefilo del Toro che sembra riportare alle coppie romantiche dei film di Chaplin, incontri di outsider dalle grandi anime.
Le molte candidature e i tanti premi arrivati a The Shape of Water nell’awards season, sembrano sintomatici del bisogno di riflettere sulla contemporaneità da un punto di osservazione altro. O forse sono solo il giusto riconoscimento ad un prodotto maturo di un grande cineasta che, con consapevolezza e caparbietà, ha costruito negli anni un percorso che dal capolavoro de Il labirinto del fauno lo sta portando verso un lirismo romantico capace di parlare ad un pubblico più ampio.
In ogni caso, la corsa verso l’Oscar 2018 è quanto mai aperta e appassionante…