Marzo 2012. Mentre l’aereo attraversa le nuvole che, quasi costantemente, sovrastano Belfast, comincio ad intravedere i contorni frastagliati dell’Irlanda del Nord. E’ uno spettacolo.
E’ mattina presto e i raggi di sole illuminano l’azzurro del mare ed il verde della costa, appena bagnata dalla pioggia. Sono già stato qui, ma la prima volta che atterro al George Best Belfast City Airport, l’aeroporto intitolato al padre della persona che è seduta al mio fianco: il mio amico Calum Best.
Il George Best Belfast City Airport è uno dei due aeroporti della città e il 22 maggio 2006 è stato intitolato a colui che sul finire degli anni ’60 fu definito il quinto Beatle, il mitico George Best, nel giorno in cui avrebbe compiuto 60 anni. In realtà c’era già stato un Best tra i Fabulous Four, il batterista Pete che dal ’60 al ’62 aveva suonato con i quattro di Liverpool prima di essere sostituito da Ringo Starr. Ebbe, però, solo il tempo di fare la prima tourneè ad Amburgo e lasciò il gruppo così presto, che quando si pensa ad un quinto elemento nel quartetto, tutti fanno riferimento ad uno che, pur avendo il suo stesso cognome, non aveva mai fatto il musicista.
George, infatti, portava la frangetta come tutti i Beatles,
ma faceva il calciatore
Nel 1966 George giocava nel Manchester United e, di ritorno da una leggendaria partita di Coppa dei Campioni, vinta contro il Benfica di Eusebio, scese dall’aereo indossando un gigantesco sombrero. Fu lì che stampa lo soprannominò “El Beatle”: aveva 19 anni e aveva appena dato vita ad un nuovo prototipo di calciatore.
Per capire l’effetto dirompente di quell’immagine, bisogna rivedere alcune partite di quegli anni. Sir Robert Charlton, il giocatore fino a quel momento più rappresentativo del Manchester United, scendeva in campo con mega e alquanto birichino riporto che ad ogni folata di vento si liberava dalla brillantina con cui Bobby cercava di domarlo. Oggi sarebbe stato la fortuna della Gialappa’s Band. Allora era la normalità.
George Best, al talento cristallino con cui saltava gli avversari, abbinava occhi azzurri, taglio alla moda ed un’incredibile passione per le cose belle. Fu quello che per noi oggi sono David Beckham e Cristiano Ronaldo – che pure hanno vestito la maglia numero 7 del Manchester United -, solo molto tempo prima.
Ma torniamo a Belfast. Mentre percorriamo il corridoio che separa il gate dall’uscita dell’aeroporto, vedo una gigantografia di George e chiedo al mio amico Calum di avvicinarvisi per scattargli una foto. La somiglianza tra Calum e George è impressionante. Siamo qui per fare delle ricerche. Io sto per iniziare le riprese di My Best, un documentario che completerò solo nel 2017 ma che, proprio in quei giorni stava prendendo forma.
Calum è nato in California nel 1981, quando suo padre, come molte altre star del calcio di quei tempi (Pelè, Crujff, Beckenbauer), alla fine della sua carriera era andato a giocare negli States. Il soccer, come chiamano il calcio lì, non è uno sport americano perciò Calum, cresciuto come un perfetto californiano sulle spiagge di Malibù, ha capito molto tardi ciò che il padre rappresentava per milioni di fan.
Esistevano, già da allora, decine di documentari su George Best, ma nessuno che parlasse di quegli anni americani. Per questo volevamo girarne uno noi. E avevamo deciso di partire da Belfast, dove tutto era iniziato.
Il campionato di calcio nordirlandese è il secondo più antico del mondo, ma deve fare i conti con rugby, curling e calcio gaelico. Insomma le vere star, quassù non sono i calciatori. A meno di chiamarsi George Best, ovviamente.
Questo lo scopro appena entriamo nel taxi. Il nostro driver riconosce immediatamente Calum e, dopo poche battute, inizia a citare alcuni aneddoti sulla vita di suo padre. Sono aneddoti che ha sentito da qualcun altro e vorrebbe conferma dall’unico figlio del suo mito. Ma in realtà, tutto quello che Calum sa di suo padre, lo ha letto sui giornali o visto in tv. Questo il nostro tassista non lo sa, non lo sanno in molti. A Calum basta fare il gentile per dare soddisfazione al nostro entusiasta interlocutore che si scatta un selfie con lui, prima di farci scendere davanti all’Hotel Europa.
Qui la storia si ripete. Il portiere, che lavora in quell’hotel da molti anni, accoglie Calum come uno di casa. In quel momento capisco che è arrivato il momento di filmare e che per fare questo film, dovrò catturare le scene mentre le vivo. Ripetere certe azioni davanti a una troupe, priverebbe le immagini di quella genuinità che, invece, rincorro da sempre. E così quella conversazione, girata un po’ faticosamente, è diventata parte del documentario, proprio come altre di quel viaggio.
Chi conosce la storia di George Best sa che le sue frasi sono diventate più famose dei suoi gol. Una su tutte è quella che non ha mai inventato. Nel corso delle riprese abbiamo appreso dal suo migliore amico Phil Hughes, che George l’aveva sentita dal pugile John Conteh:
“Ho speso la maggior parte dei miei soldi in donne, alcol e macchine veloci, il resto l’ho sperperato”
Insomma, a quei tempi, avere George come ospite doveva essere un bell’evento per gli hotel di tutto il mondo. Calum questo lo sa bene: “Quanti problemi ti ha dato George durante i suoi soggiorni?” è la prima domanda che rivolge all’affabile concierge. La risposta la dice lunga sul livello di venerazione che Belfast ha per il suo campione: “Nessuno, mai, qui è sempre stato un gentleman!”.
Anche Calum, però, ha qualche ricordo del tempo passato in quell’hotel. Una mattina lui e la madre furono svegliati di soprassalto per l’allarme di un attentato. Perché Belfast non è solo la città di George Best e l’Hotel Europa gode di un primato davvero poco invidiabile. Sulle scale che portano al pub, al primo piano, c’è una targa che ricorda con un pizzico di macabra ironia: “The most bombed Hotel in the world”. L’hotel più bombardato del mondo.
Non era facile vivere a Belfast. La città è stata teatro di una tremenda guerra di religione che dagli anni ’60 agli anni ’90 ha causato almeno 30 mila morti. Sono gli anni raccontati da film come Nel nome del padre di Jim Sheridan e Hunger di Steve McQueen, o da canzoni come Sunday Bloody Sunday degli U2.
C’erano, e in alcuni tratti ci sono ancora, muri che separano i quartieri cattolici da quelli protestanti. Per molti anni, essere al momento sbagliato nel posto sbagliato poteva significare la morte. Mentre l’Europa si gettava alle spalle la Seconda Guerra Mondiale, a Belfast ancora si sparava per strada, le bombe esplodevano nei pub e l’odio si respirava ovunque.
La prima volta che sono arrivato qui era il 2006. Il 28 luglio 2005 l’I.R.A. (the Irish Republic Army) aveva dichiarato il definitivo “cessate il fuoco”, ma ai bordi delle strade c’erano ancora i gate con i metal detector come negli aeroporti.
Belfast è la città ideale per un documentarista. Ogni angolo ha una storia. Come quella di Angelo Fusco, figlio di emigrati italiani in Irlanda, nato e cresciuto in un quartiere cattolico di Belfast. Come tutti i suoi amici, scelse di entrare nell’IRA, accettando le conseguenze di una vita fatta di violenza e carcere.
Insieme a tre amici Angelo Fusco componeva la M60 gang, dove M60 sta per la mitragliatrice americana con cui compivano le loro azioni. Angelo ha trascorso in carcere la maggior parte della sua vita, ma nel 2000 ha ricevuto la Royal Mercy, ovvero la grazia dalla regina ed è tornato ad essere un uomo libero. Io l’ho conosciuto nel 2014 grazie ad amici comuni, ma questa è una storia ancora tutta da scrivere.
Così, mentre George Best tirava i primi calci al pallone nel parco in fondo a Burren Way, la sua città viveva l’inferno. Suo padre era protestante, ma lui non prese mai una posizione. La prima tappa del mio viaggio con Calum è proprio nella zona dove era cresciuto il padre. A pochi passi dall’Ulster Rugby stadium c’è ancora la casetta dei Best. Ora è un Bed&Breakfast, dove per 70 sterline a notte si può dormire circondati dai ricordi di George.
Riguardando alcune immagini d’archivio, si nota che le uniche cose cambiate da allora, sono i murales che celebrano George. Mentre Calum sbircia fuori dalla finestra di quella che un tempo fu la casa dei suoi nonni, una donna in macchina lo riconosce e lo saluta con affetto. E’ un volto noto qui il mio amico Calum. Ha lavorato per anni come fotomodello sia negli States che a Milano. E’ spesso in Tv e le notizie che lo riguardano finiscono di frequente sui tabloid. Per le figlie o le nipoti di quelle donne che lanciavano le mutandine al padre, non fa molta differenza il fatto che lui non abbia mai giocato a calcio.
Nella concert hall del nostro albergo c’è un concerto di Van Morrison – anche lui nato a Belfast – la sera dopo il nostro arrivo. Le signore che fanno la fila per ritirare il biglietto, notano Calum e, a dispetto della differenza d’età che c’è tra loro e le sue abituali giovanissime fan, si comportano esattamente allo stesso modo. A un certo punto arriva anche un ragazzo. Avrà poco più di vent’anni. E’ venuto in hotel a mostrare a Calum il suo nuovo tatuaggio. Su tre righe lungo l’avambraccio si legge: “Ho speso la maggior parte dei miei soldi… “, insomma la solita frase di George che tutti adorano citare.
Il giorno dopo, andiamo al cimitero dove è sepolto George. Avevo visto le immagini del funerale. C’era così tanta gente che sembrava un concerto. Una città profondamente divisa trovò in quel momento un motivo per camminare insieme. L’ultimo saluto a George Best fu trasmesso in diretta tv. Cattolici e protestanti in religioso silenzio accompagnarono “The Belfast boy” fin al luogo esatto in cui ci troviamo noi ora.
E’ arrivato il momento di lasciare a Calum la privacy di cui spesso è costretto fare a meno. George si è spento il 25 Novembre del 2005, corroso da quell’alcol che aveva spesso celebrato. Qualche giorno prima della sua morte, aveva chiesto al suo amico e agente Phil Hughes di fargli una foto per lanciare un messaggio. E così il 20 Novembre, il domenicale “News of the world” pubblicò una foto di George all’ultimo stadio con un titolo: “Don’t die like me”, “Non morite come me”.
L’immagine è straziante. Nessuno aveva avvisato Calum della sua pubblicazione. Non si sono mai parlati molto lui e George.
Sta piovendo e io lo aspetto vicino al taxi, fuori dall’ingresso del cimitero. Quando arriva, mi dice qualcosa che mi fa capire quale è la storia che devo raccontare.“Quel ragazzo ieri sarebbe dovuto venire qui, prima di farsi quel tatuaggio”. Il percorso che ci separa dall’hotel lo trascorriamo in silenzio.
La gente va al lavoro, le mamme aspettano i figli davanti alle scuole. Sembrano lontani anni luce gli scontri e la violenza. Eppure a ben vedere non è proprio così. Nel 2010 un’autobomba è esplosa a Newry, l’anno dopo, nel quartiere di Short Strand, a Belfast Est ci sono stati degli scontri con bottiglie molotov, razzi e qualche colpo d’arma da fuoco. Addirittura nel 2017, è stato ritrovato un ordigno esplosivo davanti ad una scuola elementare a Nord di Belfast. Ma l’impressione è che la pace sia inarrestabile.
Belfast ha voglia di cambiare
I vecchi cantieri navali sono stati trasformati nel più vasto progetto di riqualificazione d’Europa. Lo chiamano Titanic Quarter perché qui, agli inizi del ‘900 fu costruito il Titanic. E se ovunque questa parola evoca una tragedia, qui è sinonimo di rinascita. Nel 2012, a un secolo dal tragico viaggio del transatlantico, è stato inaugurato il Visitor Centre: l’architettura ricorda una prua e al suo interno un percorso multimediale ricostruisce la sua prima ed ultima crociera.
Tornati in hotel, ci fermiamo nel pub della Lobby. In Irlanda bere è un rito collettivo. Non per me che ho già avuto modo di verificare i miei limiti al riguardo. Non per Calum, dopo la tempesta emotiva a cui si è appena sottoposto. O per lo meno così suggerirebbe la logica. Invece, dopo pochi minuti siamo circondati da aneddoti e bicchieri.
Se sei il figlio di George Best, non è facile dire di no. Senti la pressione di dover essere all’altezza di tuo padre, almeno in questo. Rifiutare, alzarsi e andare via sarebbe la cosa più giusta da fare. Ma è chiaro che verrebbe visto da tutti come un atto ostile.
Dopo quella notte ci sono voluti un paio di giorni per farmi passare il mal di testa, ma in quel momento ho capito quale sarebbe stata la fine della storia che avrei dovuto raccontare.
Una storia che oggi è un film.
Il mio commento è di parte ma forse l’emozione che ho provato leggendo il racconto non è dovuta soltanto al fatto che l’autore è il mio primo figlio. Sono un grande appassionato del gioco dal calcio e spero di no. Magari è la stessa sensazione che avrebbe avuto Best padre
Gran bella storia. Ti fa venire voglia di andare a Belfast. E di approfondire la conoscenza di quel periodo. E di vedere il tuo doc: dove lo trovo?
ciao Maria Paola, il film sarà presentato a Roma, il 1 marzo presso il cinema Apollo 11.
Articolo bellissimo, mi ha fatto venir voglia di tornare a Belfast! Ne abbiamo parlato a lungo, sai la mia passione per l’Irlanda e per i fatti che hanno sconvolto la parte nord di quel paese.
Conosci anche la mia sconfinata passione calcistica, a tinte diverse rispetto alla tua!
Sarà un onore e un gran piacere godermi la proiezione del 1 marzo, anche perché ho avuto la fortuna di vederti lavorare, in un contesto differente ma in una terra altrettanto difficile e controversa, proprio come l’Irlanda del nord! Ho tante aspettative e sono convinto dell’ottima riuscita del documentario…dopo questo articolo ancora di più!
Ti aspetto a braccia aperte! 🙂
Thank you ever so for you post.Much thanks again.
🙂