Laura Silvia Battaglia è giornalista professionista e documentarista, oltre che autrice del programma Cous-Cous TV (per TV2000). Siciliana di origine, vive tra Milano e Sana’a, nello Yemen. In questa intervista a Cronache Letterarie, si racconta e condivide le sue esperienze e opinioni sul mondo arabo di cui è esperta conoscitrice.
Nel 2017 ha pubblicato La sposa yemenita, opera basata sulla sua esperienza di soggiorno nello Yemen, dove peraltro, ha conosciuto suo marito.
La graphic novel, illustrata da Paola Cannatella, tocca con ironia vari aspetti della cultura yemenita: dalla magia di antiche tradizioni e riti che precedono il matrimonio, a questioni religiose affrontate in un intenso dialogo con uno Sheikh (sceicco), dal terrorismo ai rapimenti degli stranieri, fino alla vendita di minori per cui il Paese è tristemente noto. Visto con gli occhi di una giornalista italiana, lo Yemen ci appare in tutto il suo fascino e le sue contraddizioni.
Come è nato questo tuo interesse per il mondo arabo?
Direi che folgorante fu un viaggio a Istanbul quando avevo 17 anni, anche se non si trattava di mondo arabo, ma turco e islamico e, comunque sia, del luogo dove Oriente e Occidente si incontrano. Poi, durante gli anni dell’università a Catania, ho deciso di studiare arabo privatamente. Era il 2000. Sono siciliana e tracce arabe sono dappertutto in Sicilia, dalla lingua al cibo. Quindi il mio DNA ha parlato e io gli ho semplicemente dato ascolto.
Veniamo al tuo libro La sposa yemenita: la scelta di una graphic novel è stata per raggiungere un bacino di utenza più ampio, per parlare di temi scottanti con maggiore leggerezza, o per quale motivo?
L’idea è stata della mia partner in crime, Paola Cannatella. Con Paola lavoravamo a forme di graphic journalism, di cui sono appassionata, già dal 2012. Abbiamo pubblicato tavole online sul mio sito battgirl.info, dedicate a storie dall’Iran, dall’Iraq e dallo Yemen. Ci siamo accorte che funzionavano, che le visualizzazioni erano alte. Qualcuno ci ha anche chiesto di farne un libro. Quando la mia professione e la mia vita sono diventate abbastanza atipiche per diventare una storia, Paola ha colto la palla al balzo e mi ha proposto di scrivere a quattro mani La sposa yemenita.
Nello Yemen, quale aspetto della cultura ti attira di più, o senti più vicino?
Mi piace molto il senso della famiglia e della comunità che non è molto diverso da quello Mediterraneo. La capacità di aiutare gli altri senza sapere chi siano, senza fare differenze. Certo, l’appartenenza al clan può essere una questione ingombrante, ma la molecolarità a cui stiamo riducendo le nostre vite in Occidente, soprattutto nelle grandi città, è eccessiva. In Yemen nessun anziano è lasciato solo e nessuno muore solo, neanche nella povertà più estrema. Questa per me è cultura, è profonda umanità. Quella che noi abbiamo dimenticato, perdendo il contatto con le cose della vita che contano davvero e che sono pochissime e per nulla materiali.
Il tuo programma Cous Cous TV propone approfondimenti di vari aspetti della vita nel mondo arabo, dalla cucina alla satira, dalla moda alla televisione. Si può dunque parlare generalizzando di un mondo arabo, a dispetto delle differenze tra i Paesi?
Cous Cous TV parla solo di ciò che appare in televisione, parla dei programmi televisivi e quindi della rappresentazione dei diversi Paesi arabofoni sul mezzo televisivo. Come è accaduto per l’Italia del dopoguerra, la televisione egiziana prima e le panarabe poi (al Jazeera e al Arabjia) hanno contribuito, nel bene e nel male, a unificare con la lingua e i programmi televisivi, la cultura di Paesi molto distanti. E per cultura intendo tutto: lingua, prodotti di consumo, religione.
Si può generalizzare la posizione della donna nel mondo arabo, o le differenze tra i Paesi sono troppo grandi? Ci puoi fare qualche esempio di queste differenze?
Sicuramente un dato comune c’è ed è l’applicazione del diritto di famiglia a tutti i sistemi legislativi di questi Paesi, diritto di famiglia che ha qualche differenza ma tendenzialmente ha base sharaitica, islamica. E’ proprio l’applicazione del kanuun, ossia l’insieme delle leggi del codice civile parallelo, che fa la differenza.
Paesi che hanno applicato altri codici di riferimento – l’Egitto quello inglese, il Marocco quello italiano, la Tunisia quello francese – presentano alcune sensibili differenze. Ad esempio l’Iraq, fin dai tempi di Saddam ha una legge molto precisa che vieta i matrimoni dei minori (maschi e femmine), mentre lo Yemen non li vieta. Infine, l’Iran da una parte – che non è un Paese arabo ma islamico – e l’Arabia Saudita dall’altra, sono i due Paesi che certamente tengono di più al controllo del corpo delle donne. L’obbligatorietà per legge dell’hijab nel primo e dell’abaya nel secondo, sono un segno chiaro di restrizione e imposizione del modello statale.
Qual è la tua posizione riguardo all’indossare il velo nella società occidentale?
Trovo giustissimo che una donna musulmana possa portarlo, se lo vuole, visto che l’Islam lo consiglia, pur non obbligandola. E credo che non debba essere discriminata in Occidente per questa scelta. Così come non dovrebbe essere discriminata né in Occidente né in Oriente per il fatto di NON portarlo. Bisogna ricordarsi che il velo NON è uno dei cinque pilastri dell’Islam, anche se è fortemente consigliato. Bisogna anche sapere che l’invelamento, dalla rivoluzione iraniana del ’79 in poi, ha una forte componente identitaria e politica. Esattamente come dal ’68 in poi, lo hanno avuto, nelle proteste delle femministe francesi, lo svelamento, la minigonna, la carne scoperta. Per queste ragioni la scelta di invelarsi non è neutra, né solo spirituale.
Spesso cerco di spiegarlo con le risposte che molte ragazze di seconda generazione, in Francia, in Italia, ma anche in Tunisia, mi danno. Dicono: “Il velo è il mio orgoglio e la mia identità” e lo dicono perché vogliono esplicitamente rendere nota la loro specificità che di di solito è in contrasto con un uso – opposto – dominante. Si pensi, ad esempio, alla storia della Tunisia, dove le madri di queste ragazze non lo portavano perché forzate a non portarlo, cosicché le figlie oggi si sentono in diritto di riscattare la loro identità negata.
Allo stesso modo, molte convertite all’Islam, in Europa, lo portano soprattutto per statement e addirittura portano il velo integrale: poche lo fanno per una profonda scelta spirituale, esattamente come mia nonna portava il saio di sant’Antonio, in Sicilia negli anni Quaranta, perché aveva fatto voto per una grazia ricevuta, salvo poi toglierlo perché tutto il paese le rideva dietro, compreso il marito.
Qual è allora la motivazione più frequente per indossare il velo?
La maggior parte lo portano per dimostrare di essere musulmane più che perfette, per essere accettate dalla nuova comunità di fedeli in cui si riconoscono e sono state appena riconosciute, oppure per ribellione al modello occidentale della donna-oggetto carnale, esposta al mercato del sesso libero. Però se non si è consapevoli di questi meccanismi, che sono eminentemente socio-politici e che, a mio parere, negli aspetti più estremi andrebbero sradicati, o quantomeno spiegati e svelati, si rischia di fare il gioco di chi usa le donne in funzione dell’establishment.
D’altro canto, è importante che le donne musulmane difendano la loro libera scelta in merito, esattamente come prescrive l’Islam. Che lo portino o non lo portino, debbono essere rispettate dai membri di ogni comunità, a partire dalla propria, ed è importante anche che si ripromettano di difendere le sorelle che fanno la scelta opposta. Ma non avviene così frequentemente, purtroppo. Anche nell’Islam vale il detto che l’abito non fa il monaco. Una donna velata non è automaticamente più musulmana e pia di un’altra, per intenderci, ma socialmente parlando si sente protetta dal giudizio di Dio, e soprattutto dal giudizio sociale, se ha l’abito più regolamentare, conforme e meno eccentrico possibile.
Laura Silvia Battaglia, La Sposa Yemenita, Becco giallo.