Da questi primi due mesi, il 2018 sembra un anno cinematografico piuttosto denso: nella cinquina dei candidati agli Oscar, la cui cerimonia è attesa stasera, c’è la storia d’amore fra una donna e un uomo – pesce (La forma dell’acqua, Guillermo del Toro), l’amore fra due uomini e la scoperta dell’omosessualità in una calda estate della bassa padana anni ’80 (Chiamami col tuo nome, Luca Guadagnino, che nella competizione rappresenta – anche se non produttivamente – l’Italia), la lotta di una madre per trovare l’assassino della figlia, di fronte a una provincia americana arretrata, ferocemente razzista, omofoba, attraverso tre efficacissimi cartelloni pubblicitari (Tre manifesti a Ebbing, Missouri, Martin Mac Donagh), una storia alla Sidney Poitier, in cui un ragazzo di colore parte per conoscere i genitori della fidanzata WASP e si ritrova coinvolto in un thriller ironico dove razzismo e politica si intrecciano (Get out, Jordan Peele).
Questi i titoli più originali in lizza per la statuetta, che a guardar bene, hanno un unico comune denominatore: raccontare una realtà diversa, complessa, non normata, con toni diversi, in contesti diversi, ma pur sempre con la volontà di incrinare lo schema.
Ed è proprio di una storia “diversa”, non nella realtà quanto nel cinema nostrano, purtroppo fossilizzato su temi che spesso non stanno veramente al passo con la società, parla Puoi baciare lo sposo, la nuova commedia di Alessandro Genovesi al cinema nelle sale dal 1° marzo.
Siamo nel 2016, in maggio, in Italia viene faticosamente approvata una legge, il decreto Cirinnà, che consente alle persone dello stesso sesso il matrimonio. Nel 2003, va in scena a New York, Off Brodway, My big gay italian wedding, scritto da Anthony Wilkinson, un musical che parla di quello che precede un matrimonio fra due uomini. Fra la legge e il musical intercorrono tredici anni, anni in cui il cinema italiano ha fatto qualche timido tentativo di affrontare la tematica omosessuale. Si è parlato di sentimenti (per carità, mai di sesso), di coppie lesbo, di gay impegnati nel coming out. C’è chi, come il regista turco naturalizzato italiano Ferzan Ozpetek, ci ha costruito quasi tutta la filmografia. Ma di matrimoni neanche l’ombra. Forse ci voleva questo passo (per quanto incompleto, rispetto alle leggi degli altri paesi) per far arrivare sullo schermo una commedia, ispirata a un musical di Broadway, che parla di matrimonio gay.
Paolo (Salvatore Esposito) e Antonio (Cristiano Caccamo) vivono a Berlino e fanno gli aspiranti attori. Come tantissimi loro coetanei nella realtà, si sono trasferiti nella città progressista, ultra-liberal, underground e tradizionalmente gay friendly per eccellenza. Antonio si decide al grande passo, chiede a Paolo di sposarlo, desidera un matrimonio in piena regola, in Italia. Accompagnati dai coinquilini Benedetta (Diana del Bufalo), italiana in città per svago e Donato (Dino Abbrescia), appena trasferito a Berlino in crisi di identità trans-sessuale, decidono di affrontare la questione partendo per l’Italia per dichiarare ai genitori la loro scelta.
Si ritroveranno nel paesino di Civita di Bagnoregio, governato da Roberto (Diego Abatantuono), sindaco progressista con tutti tranne che con il figlio Paolo, sposato a BH (Monica Guerritore), decisissima a organizzare per il figlio il matrimonio del secolo, con il contributo della star del wedding planning Enzo Miccio, e officiato da un frate “riformista”, Francesco (Antonio Catania). Oltre al padre-antagonista, c’è l’ex ragazza di Antonio (Beatrice Arnera), che è decisa a riprenderselo in una serie di gag da stalker fra follia e comicità.
Ce la faranno i nostri eroi? Tutto sta, non nel quando, ma nel come viene raccontata e interpretata una storia che ha un duplice rischio: il diventare eccessivamente moralistica o eccessivamente macchiettistica. La commedia di Genovesi evita entrambi i rischi, mantenendosi delicata, ironica, per nulla facilona. “Ho cercato di fare un film che non offendesse nessuno” dice Genovesi in conferenza stampa. Certo, non è il politicamente scorretto che ci aspettiamo noi spettatori nutriti a cinema americano e battute feroci degli stand up comedian, ma l’importanza del tema e la resa, nel panorama decadente del nostro cinema, si fanno notare. E qui, oltre alla regia e alla scrittura, occorre menzionare il fatto che il cast non sbaglia un colpo: innanzitutto Cristiano Caccamo – attore di fiction al suo primo ruolo da protagonista al cinema – e Salvatore Esposito – il Genny Savastano di Gomorra – hanno poco meno e poco più di trent’anni e affrontano un ruolo a rischio caricatura senza sbavature, divertendo e convincendo sempre e comunque. Abatantuono, segnato per tutta la vita dalle sue maschere comiche, non cerca la risata facile, non gigioneggia. Unica nota fuori sincrono è la Guerritore, attrice di calibro ma forse qui un po’ troppo solenne, teatrale, di qualche tono sopra la “leggerezza” degli altri. Ai tre comprimari Del Bufalo, Abbrescia e Arnera va un plauso speciale, soprattutto al ruolo dell’aspirante travestito Abbrescia, sinceramente in grado di strapparci risate di pancia.
Dispiace forse che non si sia riusciti a fare un musical e che la struttura del film sia quella della commedia classica. Ma da questo punto di vista, per gli amanti del genere ci sarà una piccola sorpresa.
Ci spostiamo di una ventina d’anni. Siamo sempre in Italia, è estate, ma siamo al nord, nella pianura lombarda. Ci immaginiamo l’arsura, stemperata da bagni di fiume e gelati Algida. Sono gli anni ’80 e spopolano i jeans a vita alta, le Superga, gli Psychedelic Furs. In questa cornice estremamente evocativa si consuma la storia d’amore di Elio e Oliver, di 17 e 24 anni. Oliver è ospite della famiglia di Elio – il padre professore di cui Oliver è brillante allievo con un miscuglio di origini, americano francese e italiano – tra passatempi altolocati (letture di Wittgenstein, siti archeologici, sonate di Bach dopo cena). Elio non ha ancora un’identità precisa, è molto giovane, in crescita, Oliver è il più grande, è spavaldo, indipendente, entra e esce da casa come fosse sua. I due cominciano a passare le lunghe giornate afose assieme e l’attrazione diventa viva, alimentata dalla fascinazione, dalla condivisione di un tempo estivo che è sempre scoperta, abbandono, sospensione. Di Chiamami col tuo nome, diretto da Luca Guadagnino, regista molto apprezzato all’estero, scritto da James Ivory, tratto a sua volta da un romanzo di Andre Aciman, si è detto di tutto (vedi il trailer). La critica l’ha osannato, stroncato o è rimasta tiepida. Fra il pubblico “gay” ci sono state vere e proprie battaglie di opinione. C’è chi si è immedesimato, chi l’ha trovato stereotipato, chi ci ha visto solo il racconto di un amore, di che “genere” fosse non importa.
Si può definire Call Me by Your Name un film gay? È difficile rispondere. Non è un film che “affronta” la tematica, come Puoi baciare lo sposo, piuttosto è un film che parla della scoperta di sé, del sentimento. C’è una differenza fondamentale. La famiglia di Elio, bobo chic fino al midollo, lo comprende. In silenzio, fino alla fine, accettano che Elio scopra la sua omosessualità sotto il loro stesso tetto. Non c’è conflitto, non c’è coming out, ma ci sono sensualità e sesso senza pudori.
Ci vuole un po’ di coraggio, per fare certi film. Sembra paradossale, perché di storie simili a quella di Paolo e Antonio, di Elio e Oliver, uscite al cinema a poco più di un mese di distanza, ce ne sono molte. I due film, seppur diversi per toni e stile, forse potranno lanciare una nuova tendenza, quella di affrontare temi nuovi, una cosa che ultimamente il nostro cinema sembra essersi dimenticato.