Precipita in un presente assorto e alienato, scandito da gran parte delle patologie elencate nel bugiardino del Serotax, l’esistenza di Jacopo D’Alverno, voce narrante complice del lettore (gli si rivolge spesso) e quarantenne protagonista di Estate (Mondadori, 2018). Narcisista, altezzoso, pigro e viziato, è proprietario di un lussuoso Relais anni ’70 che se ne sta nascosto fra bouganvillee, orti di rosmarino e boschi di pini e lecci, a strapiombo sul mare. Siamo in un Argentario mai esplicitamente nominato – edenico “non luogo” ben riconoscibile dai nomi esotici e minacciosi di calette e dirupi, dai borghi d’epoca fascista e i porticcioli con i cabinati dei “romani” con polo Ralph Lauren d’ordinanza.
Qui, dopo una “vita felice” hemingwayanamente breve, si trova questo egoista afflitto da immaturità cronica, a tracciare un bilancio delle proprie paure e incapacità: di volare come di tollerare un futuro da separato fatto di cibi precotti, o di scrutare con sincerità dentro se stesso, almeno una volta. Limiti che non è più possibile esorcizzare a forza di fantastiche proiezioni autogratificanti e oblomoviani sogni eroici, scorciatoie canoniche di chi “trova l’umanità deludente, preferendo la compagnia dei divi del cinema o degli assi dello sport” e se deve proiettarsi in una vita di coppia scomoda Spencer Tracy e Katharine Hepburn o Alvy/Allen e Annie.
Dopo l’incendio dell’Hotel di famiglia dal nome suggestivo, da tempo in declino, a corto di stelle sulle guide che contano e di amenità a base di astice e champagne per il jet set internazionale, rimangono ombrelloni intaccati dalla ruggine, divise mal stirate, sbornie, analgesici, bagni di sole per bassisti di gruppi brit-pop, impresentabili arricchiti grossier, industriali con amante slovena al seguito, attrici, attrici-escort… solo escort.
Resta l’indecisione di chi non sa gestire nemmeno se stesso e una grave responsabilità verso la moglie Eleonora, che gli costa il matrimonio, oltre all’immagine di una bambina dal mitico nome che sorride e disegna i ricordi, prima di divenire lei stessa uno dei più strazianti e ossessivi. Poi restano solo i creditori, il commercialista, l’avvocato, lo zio squalo in cerca di rivincite sociali e il sospetto, per Jacopo, di non aver mai amato veramente nessuno.
Anaffettivo per eccesso d’amore verso le tante figure femminili (Estate è un libro di donne) a cui vengono riservati i profili più intriganti e felici: la nonna, “principessa trasognata dal lungo collo” amante dei fiori, soprattutto secchi; la madre, regina superstite di un regno in disfacimento e despota; Eleonora – occhi blu, slanciata, previdente, concreta, umorale… forse scontata, ma certamente amata; la sorella Alexandra, determinata e coraggiosa, fiera e fantasiosa complice di un’adolescenza spensierata e, infine, Astrid. Giornalista, capelli biondo cenere, occhi nocciola, intelligenza maschile, rigorosa e schietta, lei è l’amore dei 15 anni, afflitta da latente complesso di Elettra per un padre troppo perfetto e severo.
Con Astrid farà il viaggio in Norvegia per sfuggire all’angoscia della separazione ed assistere al processo intentato al terrorista Breivik, responsabile il 22 luglio 2011, della strage di 77 persone nel paese “dai cento verdi diversi e dal cielo troppo azzurro”. Un filo rosso che percorre l’intero intreccio e che, a mio avviso, non si integra perfettamente.
Incapace, per sua stessa ammissione, di amare chiunque, Jacopo D’Alverno, tranne… il Passato, di cui l’albergo è solo uno degli emblemi/feticcio, difficile da abbandonare.
“Queste donne sono la mia vita. E la consapevolezza dell’impossibilità di amarle ognuna come vorrei (come dovrei) è l’unica forma d’amore che sento di poter riconoscere”.
Colombati, classe 1970 – di cinque anni più giovane del suo personaggio (1965) e suo (in)consapevole doppio – alimenta il proustiano recupero di un’epoca intensamente vissuta e mai veramente rimossa, attraverso l’appassionata rievocazione delle sue icone filmiche, musicali, di costume. Se in 1960 (edito da Mondadori) era stato necessario un meticoloso, encomiabile apparato di riferimenti storico-documentali per ricostruire quel periodo mitizzato ma non anagraficamente attraversato, gli anni ’80 vengono invece in Estate, riecheggiati e descritti con la partecipazione di chi, pur giovanissimo, ne ha fatto diretta esperienza.
Così, attraverso il filtro di un raffinato gioco memoriale, svolgono un ruolo essenziale lettere, quaderni di scuola, biro blu e “guizzi romantici derubati alle antologie”, foto, vecchie case di famiglia dalle porte massicce e tarlate, l’infanzia dei giochi in cantine “ricolme di cianfrusaglie e animali impagliati, paure e segreti”.
Eccola la Roma bene con i suoi locali, il Jackie’O e il Tartarughino, il Much More e le terribili “pennette alla vodka”, gli occhiali a specchio. Ecco il Galestro “capsula blu (o era viola?)”, l’Albos di Fregene “perché solo lì fanno gli spaghetti con le telline”, il calcetto over ’40 e le feste private nelle palazzine A, B, E delle tante Via Nemea, con i tappeti Zinouzi e i genitori che compaiono all’improvviso per salutare gli amici dei figli con i quali amano pateticamente competere.
Eccola la musica degli Eagles e degli Imagination, di Charing Cross e, inevitabilmente, di Bruce Sprigsteen. Sospetto che Kari, la sorella di Astrid, sia stata creata dall’autore al solo fine di potersi accanire contro quanti non venerano il Boss.
E ancora il cinema di Walter Matthau e Jack Nicholson, Lebowski e la fuga di Steve McQueen, o il tennis, sport di riferimento del protagonista che palleggia con attempati, improbabili maestri in circoli sonnolenti e stravede per l’Agassi di Brooke Shields, McEnroe, Connors, fra Dunlop di legno e avveniristiche racchette tubolari e cemento blu come la laguna in cui nuotava la rivale sentimentale di Steffi Graf.
Agli “amati e dorati” anni ’80 subentreranno i ’90, contrabbandati come un “ritorno alla purezza e alla pace” fino a che un Boeing 767 s’infilerà nella Torre Nord del World Trade Center, in una sequenza epocale inizialmente scambiata dai più per il fotogramma di un film catastrofico assai ben girato.
Quanto accadrà a Jacopo D’Alverno lo lasciamo alla curiosità dei lettori, che si troveranno coinvolti in un plot emotivamente coinvolgente e tecnicamente impeccabile, anche per la sapiente alternanza di piani temporali. Comunque, pur con il sostegno di alcuni cocktail, lui si qualificherà ad un certo momento scrittore. Mentendo, certo…
Caro Prof. oggi pomeriggio sono stata alla presentazione di “Estate”.
Le scrivo quanto detto da Emanuele Trevi, amico di Colombati, che insieme a lui ha presentato il romanzo, perché mi sembra interessante.
Il libro parte con una felicità fatta di cocci attaccati con lo sputo.
Il protagonista pensa di passare inosservato agli dei.
Poi scoppia un incendio. Il suo albergo va a fuoco. Lui perde il suo bene e il fuoco lo rivela agli dei.
Poi compie una cosa sbagliatissima, come “Lord Jim”, e all’appuntamento decisivo col destino non fa la cosa giusta.
Come Coetzee in “Vergogna”.
Allora tutto precipita e nella sua vita entra Eros, ovvero Astrid un amore nato sui campi da tennis quando aveva 15 anni.
Ora bisogna ricominciare da capo ma a lui non gli va per niente. Vuole tornare ad essere un uomo di merda com’era prima. Non gliene frega niente che il dolore ci fa crescere. Nessuno vuole essere Agamennone sotto le mura di Troia. Ma quando le cose vanno a scatafascio bisogna cominciare a narrare e non abbiamo empatia con questo fifone.
Un uomo pigro con le unghie mangiate a sangue che ha paura di prendere l’aereo.
Con l’incendio, l’albergo perde una stella ma in realtà lui era, già prima, sull’orlo del baratro. Solo che non lo sapeva.
In questo libro Colombati scrive in prima persona per la prima volta.
Prima aveva sempre usato la terza.
L’estate “è narrativa” di per sé. E’ dotata di una sospensione. Si rompe la routine.
“Il nostro cuore cambia ed è il dolore più grande” scrive Proust citato in epigrafe. Lo stesso vale per il protagonista. Nella vita siamo risparmiati dal cambiamento ma lo pretendiamo dall’arte. Pretendiamo dall’opera d’arte che ci faccia sentire i cambiamenti del cuore.
L’altra citazione all’inizio del libro è: Odio l’estate.