Ore giapponesi – Estetica nell’arte orientale

Ore giapponesi.

È proprio un libro straordinario scritto da un uomo straordinario. Ore giapponesi di Fosco Maraini (Corbaccio Editore), padre della scrittrice Dacia, è uno di quei libri che ha la capacità di aprire la mente e il cuore e sintonizzarli con le impercettibili vibrazioni del mondo orientale.

L’opera racconta una lunga peregrinazione attraverso il Giappone a metà degli anni Cinquanta e, pur non essendo di recente pubblicazione, rimane di una contemporaneità assoluta. Esperto viaggiatore e profondo conoscitore della cultura e del costume orientale, la sua intelligenza e le sue acute riflessioni sull’Asia mi hanno molto aiutato a capire l’Oriente fin dal mio arrivo da queste parti, 23 anni fa. Sono state le sue considerazioni a mostrarmi per la prima volta il prisma con il quale occorre leggere e decodificare il pensiero orientale in tutti suoi aspetti, Estetica delle arti incluse, che è il tema di cui voglio trattare oggi.

Spring Moon, Kawase Hasui, 1932

Il principio dell’Estetica come disciplina filosofica, storicamente, non si è mai veramente sviluppato all’interno della cultura dell’Asia orientale. La civiltà asiatica, impregnata di “evocatività” buddhista, di un propositivo fatalismo Zen e di un empirico pragmatismo confuciano, non ha mai partorito una reale distinzione tra teoria e pratica: ogni idea è già azione e ogni azione ha in sé energia e valore spirituali.

Il concetto canonico di “bellezza” in Oriente non esiste

L’Estetica, cioè la teoria della “scienza del bello”, come la intendiamo in Occidente, prevede naturalmente che vi sia una bellezza da contemplare e un soggetto che la contempla. Ma, in uno sfondo culturale così poco metafisico come quello asiatico, il concetto canonico di “bellezza” non esiste e nemmeno viene preso in considerazione. La bellezza non può mai essere oggettiva o soggettiva, e tantomeno obiettiva perché, come la realtà stessa, è relativa e dipende dalle contingenze, dai contesti, dagli stati d’animo.

Possono esistere opere, manufatti, situazioni o eventi connotabili come belli, ma in questi orizzonti di pensiero a esercitare un ruolo principale sono le zone intermedie, gli spazi indefiniti e carichi di suggestione.

Scrive Fosco Maraini, all’inizio di Ore giapponesi:

“Bisogna por mente per un istante ad alcune differenze nei pilastri fondamentali degli universi d’Asia e d’occidente. Da noi la bellezza ha un non so che d’essenzialmente solare e radioso, per cui celarla sarebbe un controsenso; essa s’accompagna quasi necessariamente ad una certa esigenza di fulgore… Il bello non solo deve splendere, ma è legato da sottili, antiche e profonde vene sotterranee con la verità.

Tutto il nostro pensiero estetico da Aristotele a Croce, verte sulle relazioni del bello col vero. E così le nostre città si proclamano in piazze e viali, colonnate e palazzi. La loro bellezza si espande al sole, è costruita, organica. Sono figlie dell’ordine sociale e della tecnica, ma anche della dialettica e della geometria.
In Giappone, per esempio, invece la bellezza è iniziatica, la si merita, è il premio d’una lunga e talvolta penosa ricerca, è finale intuizione, possesso geloso. Il bello ch’è bello subito ha già in sé molto spirito di volgarità. Le relazioni storiche di questo concetto, piuttosto che al vero e all’intelletto, ci portano all’intuizione-illuminazione, al gusto e al cuore”.

La bellezza è qualcosa di allusivo invece che esplicito
Chokosai Eisho, attivo dal 1780 al 1800.

In quell’incontro inatteso di forme, spazi, colori che chiamiamo arte, in Oriente può anche essere considerato “bello” qualcosa di imperscrutabile, di ambiguo o di malinconico, anche se non necessariamente la bellezza deve coincidere con l’imperscrutabilità, l’ambiguità o la malinconia. Di conseguenza non è formulabile una teoria estetica che faccia riferimento a questi canoni.

L’espressione artistica dell’Asia orientale è un ricettacolo di asimmetrie, di sfumature, di spazi vuoti che non vanno riempiti ma assaporati per come sono.

La bellezza è qualcosa di allusivo invece che esplicito, è empirica e non dottrinale, sentimentale più che razionale. Amante della penombra e dell’inespresso, il concetto del “bello” non contempla necessariamente la perfezione delle forme, anzi, rifugge il perfezionismo, che viene al limite perseguito solo nella creazione dell’imperfezione, che diventa a sua volta una specie di perfezione.

La bellezza bisogna prima desiderarla, cercarla, e forse finalmente scoprirla

“In Giappone”, scrive Maraini, “il bello essendo sempre recondito, è necessariamente aristocratico. Le città giapponesi sono semplici strumenti di vita e lavoro, enti provvisori che servono i loro fini meramente pratici. La bellezza naturalmente c’è, ma bisogna prima desiderarla, cercarla, e forse finalmente sarà dato scoprirla; poi una volta conquistata, essa ti disseta con raffinatezze inimmaginate altrove, tra giardini seclusi e templi, o ville, dove si realizza davvero la comunione perfetta dell’uomo con quanto lo circonda. E’ la bellezza come isola, momento, parola sussurrata, attimo; è qualità pura, ebbrezza di cui resterà poi sempre eterna nostalgia.”

La pittura non deve confrontarsi con il paesaggio reale perché già dispone di una quintessenza propria. Non è mera rappresentazione di luoghi o di avvenimenti, ma un insieme più o meno calibrato, a seconda della sensibilità dell’artista, di pennellate, toni di colore e composizione. Un paesaggio non si prefigge di apparire come un paesaggio, bensì come il disegno, o la riproduzione, di un paesaggio.
Mentre in Occidente si ha la pretesa che il linguaggio, la tecnica, la ragione umana possano cogliere e coincidere con l’essenza della realtà, il pensiero orientale ha sempre sottolineato l’inadeguatezza del linguaggio e del pensiero logico a esprimere la realtà ultima, e di conseguenza l’opera d’arte stessa viene avvicinata più all’istinto che non all’intelletto e alla cultura.

Rifiuta ogni eccesso e rispetta il “giusto equilibrio”

Inconsciamente convinti che ogni volta che una situazione si sviluppa fino alle sue estreme conseguenze, essa sia costretta a invertire il proprio corso trasformandosi nel proprio opposto, gli orientali sono amanti della dottrina che possiamo definire “Aurea mediocritas”, che rifiuta ogni eccesso e invita a rispettare il “giusto equilibrio”. Meglio avere poco che avere troppo, ed è meglio lasciare un’opera incompiuta che compierla in eccesso: forse in questo modo non si va lontano, però si è sicuri di andare nella direzione giusta. Il tocco supremo dell’artista è sapere quando fermarsi.

In questo strano universo dell’irrisolto e dell’asimmetrico, la bellezza è equilibrio fra esteriore e interiore, non è perfezione di forma ma armonia, anche inconscia. E il gesto del creare è spesso più importante dell’opera creata. Non viene particolarmente esaltata l’estetica finale, ma soprattutto lo sforzo dell’artista e la sua dedizione e umiltà nei confronti del proposito.

Anche copiare va bene se nell’atto del duplicare c’è rispetto e tensione verso l’apprendimento. La tradizione confuciana celebra l’imitazione come adulazione e come un benevolo omaggio verso l’artista originale, segno di devozione e reverenza.

La storia dell’arte in Cina reca proprio questa impronta e in effetti quella che consideriamo la civiltà più antica del mondo ha lasciato ben poco di “antico” nel senso in cui lo intendiamo noi, essendo così concentrata sulla duplicazione più che sulla creazione. Non per niente, applicando il concetto all’economia e alla società contemporanea, può essere considerato un atto di stima e di ammirazione nei confronti della produzione mondiale quella spudorata contraffazione e falsificazione dei prodotti originali, perpetrata da una parte dell’Asia orientale, Cina in testa.

Imitazione e copia sono forme di devozione.

Questo porta noi occidentali all’esasperazione, a urlare al ladrocinio delle proprietà intellettuali, non essendo noi, come dice Fosco Maraini, “imbevuti di quell’olio confuciano necessario a lubrificare le ruote della convivenza civile”, non vediamo che dietro alla cannibalizzazione e al plagio c’è, in un certo senso, acclamazione e lode, espressione artistica e manifatturiera di un intero popolo che, nella sua faziosa inconsapevolezza, non percepisce quel misfatto sotto forma di fraudolento e sleale opportunismo commerciale, ma come devozione e reverenza.

Paul Valenti

Paul Valenti

Piemontese di nascita e, malgrado le raccomandazioni di chi mi diceva “Gira pure il mondo ma non uscire mai dall’Italia”, dal 1995 residente in Vietnam, confine ultimo dell’intangibile logica orientale, dove ho avviato alcuni ristoranti italiani, consuete zattere di sopravvivenza per italici in cerca di fortuna o in fuga da se stessi.

2 commenti

  1. Grazie P. Valenti. Riflessioni stimolanti. Mi permetto solo di osservare che sarebbe più opportuno non usare un’espressione come “fatalismo” riferita allo Zen. Un modo d’essere a cui è estraneo un termine simile.
    Da parte mia consiglio di leggere il discorso di Kawabata Yasunari all’assegnazione del Nobel nel 1968, dal titolo emblematico: Il Giappone, la bellezza e io. Lo si può trovare in “Racconti in un palmo di mano” edizioni Marsilio.
    Un altro autore che è riuscito a intuire il senso della bellezza giapponese è Igort nelle due graphic novel Quaderni Giapponesi, ed. Oblomov.

    • Grazie per il commento e per le interessantissime citazioni, Roberto.
      In effetti, il termine “fatalismo” poco si associa allo Zen. Forse questo vocabolo può indirizzare la nostra rappresentazione mentale verso una parte della sua essenza, ma mi rendo conto che può essere fuorviante… Complimenti per la sensibilità e grazie per la precisazione.

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