Elogio della giovinezza, dei piaceri e delle sofferenze amorose che procura, romanzo sulla rapidità con la quale la si perde e si raggiunge la grigia età adulta con le sue responsabilità, le delusioni, la noia. Due di Irène Némirovsky ruota intorno alla realtà del desiderio che per sua stessa natura non si sazia mai. Ma che perde energia e infine si annulla con il raggiungimento del suo oggetto.
“Negli esseri giovani il desiderio si nasconde dapprima sotto la maschera del gioco, poi sotto quella della lotta. Disprezzo, crudeltà, sofferenza costituivano le loro più segrete delizie. Non conoscevano la tenerezza, non volevano conoscerla: la giudicavano indegna di loro; provavano piacere a dilaniarsi. I loro cuori erano nuovi; le ferire si rimarginavano in fretta”.
E’ il caso di Marianne e del suo amore per Antoine. Lui le sfugge e le fa soffrire le pene dell’amore non pienamente corrisposto.
“Maledetta libertà maschile”, pensava Marianne “sei la mia peggior nemica”. Ah trattenerlo, tenerlo stretto, imprigionarlo! Sposarlo, insomma! Solo questo le avrebbe dato pace. Addormentarsi al suo fianco sapendo di ritrovarlo ancora lì al mattino… […] Avere il diritto di chiedergli: “Ma dove andate? Quando tornate?”.
Salvo che, una volta conquistato con il matrimonio, Antoine perde via via ai suoi occhi di interesse fino ad arrivare a dire: non lo amo più.
I protagonisti di questo romanzo, che si svolge nell’arco di una decina d’anni a partire dal 1920, sono un gruppo di amici che si frequentano fin da giovanissimi e che non smetteranno di farlo per tutto il corso della storia. Fanno parte dell’alta borghesia parigina e godono di una grande libertà di movimento, visto che i genitori sono a loro volta troppo impegnati a vivere le loro passioni e la loro libertà, per occuparsi seriamente dei figli.
Il romanzo si apre con la descrizione sublime di una nottata passata dal gruppo dei cinque giovani protagonisti, Marianne, Antoine, Solange, Dominique e Gilbert, in una locanda fuori città a bere, ballare, fare l’amore fino all’alba.
“Si baciavano. Erano giovani. I baci nascono in modo così naturale sulle labbra di una ragazza di vent’anni! Non è amore, è un gioco; non si insegue la felicità, ma un attimo di piacere”.
Quelle raccontate dalla Némirovsky sono storie di coppie che finiscono sempre per coinvolgere terze persone, ovvero gli amanti. C’è il fidanzamento, c’è il matrimonio, ma il vero piacere, la vera felicità infelice la danno solo gli amanti. Con loro la vita è sempre sul filo dell’abbandono. Ogni incontro è pregno del piacere che solo la passione sa dare, anche se dopo si soffrono le pene della separazione. Il matrimonio è la sicurezza che però sprofonda nella noia e nella mancanza di quelle sensazioni che danno solo gli amori precari.
“Lui pensava che per tutti e due il tempo della passione non era ancora finito, che non avevano l’età in cui ci si mette il cuore in pace, che entrambi avrebbero cercato, inseguito per anni quello stato quasi di pazzia dell’amore, mentre, l’uno per l’altro non provavano né tormenti né estasi”.
Il tema fondamentale di Due è dunque la contrapposizione tra l’essere amanti e l’essere sposi. Quando è possibile si cerca di ottenere entrambe le cose. Come fa Antoine che, passato con Marianne dal ruolo di amante a quello di marito, diventa l’amante della sorella di lei Evelyne.
A rompere il tono tutto sommato leggero del romanzo ci sarà il suicidio di Evelyne per amore di Antoine che non è intenzionato a lasciare Marianne per lei. A mio parere questo dà una sferzata fin troppo melodrammatica alla trama. Fino a questo tragico evento infatti le feste, i viaggi, gli incontri, l’essere perennemente vestiti da sera, fra sete sgargianti e pettinature leggiadre, hanno fatto sì che anche le pene d’amore – le uniche di cui soffrono i personaggi – si mantenessero sul piano di qualcosa di passeggero. Ma un suicidio è qualcosa di definitivo, anche se la scrittrice ci delizia con queste delicate parole:
“Antoine entrò in una camera incantevole, rivestita di cretonne rosa, in cui il piccolo letto di ottone era stato spinto davanti alla finestra. Evelyne era distesa in quel letto, e in un primo momento, poiché il volto era nascosto dal cuscino, lui vide solo la massa dei suoi capelli sciolti. Li prese in mano, li sollevò: erano così tiepidi, così morbidi, così vivi che per un attimo una folle speranza lo invase. Ma la pelle era già fredda. Girò il volto di Evelyne, lo tenne contro di sé contemplandolo con un misto di incredulità e orrore, poi lo lasciò ricadere all’indietro, si mise la mano davanti agli occhi e fuggì via”.
Evelyne e gli altri personaggi risultano come di passaggio rispetto alla centralità dello spazio psicologico dato a Marianne e Antoine. C’è ad esempio Solange che è promessa sposa di Dominique ma ama Gilbert. Rimasta incinta di quest’ultimo abortirà per sfuggire alla riprovazione sociale, ma infine sarà proprio lui che deciderà di sposare.
Una cosa che stupisce in questo romanzo è che, tranne una sola eccezione, la guerra appena terminata da due anni non viene mai evocata. Vi si accenna nelle prime pagine, alla fine della nottata nella locanda fuori città. Si dice tra una frase e l’altra della descrizione dell’alba nebbiosa che sopraggiunge :
“Solo pochi mesi prima stavano sdraiati tutti e tre, Gilbert, Dominique, e lui stesso (Antoine) nel fango delle trincee della Piccardia o nelle sabbie delle Fiandre… […] Ah, come era felice di essere vivo!”
Ecco perché i personaggi di questo romanzo non parlano mai di guerra. Sono troppo felici di essere vivi. Questo è il taglio che la Nemirovsky ha voluto dare. Guardare dentro questo piccolo mondo di giovani privilegiati che la guerra appena terminata ha toccato sì, ma non in modo irrimediabile.
Il suo è un narratore esterno onnisciente che non giudica e non si identifica nei personaggi, non sta dalla parte di nessuno di loro, non sta dalla parte degli uomini né da quella delle donne. Anche se la simpatia che suscita nel lettore quel tormentato mascalzone di Antoine forse non è casuale.
In un periodo di moralismo e revanscismo femminista, in cui anche da noi si rischia di farsi travolgere dalla marea del politicamente corretto, la Némirovsky in Due, scritto alla fine degli anni ’30, è di un ammirevole ariosa libertà. Tutto è raccontato con leggerezza, non ci sono il male e il bene, i buoni e i cattivi, ogni personaggio vive la sua storia intrecciata ma nello stesso tempo separata da quella degli altri, in una sostanziale solitudine spirituale che non si può condividere per convenienza, riservatezza, per amore di sé. Questo atteggiamento della scrittrice si rivelerà in altri suoi romanzi e con una chiarezza al limite della crudeltà in Jezabel (leggi qui la nostra recensione).
Breve biografia letteraria e umana di Irène Némirovsky
La sua storia divenne nota anche in Italia, dopo la pubblicazione per le edizioni Adelphi di un gran numero di suoi romanzi fino a Suite Francese, rimasto incompiuto e pubblicato per la prima volta nel 2004, dopo che la figlia Denise ha avuto il coraggio di leggere il manoscritto conservato per tanti anni, convinta che si trattasse di un diario della madre.
La sua storia possiamo riassumerla dicendo che, nata a Kiev nel 1903, morì ad Auschwitz nel 1942. Figlia di una ricca famiglia ebrea, la scrittrice visse in Russia fino alla rivoluzione bolscevica. Dopo la famiglia emigrò in Scandinavia e nel 1919 in Francia. Irène si dedicò alla scrittura fin da giovanissima. Il primo romanzo, Il malinteso, lo ha pubblicato a 23 anni.
Avere vent’anni negli anni Venti
La scrittrice si trovò a Parigi nei ruggenti anni Venti e condusse quell’esistenza inebriante, piena di feste e balli che ha raccontato nei suoi romanzi come Il ballo, o Jezabel. Questi ripercorrono fatti della sua vita, tra cui i suoi difficili rapporti con la madre anaffettiva e narcisista. La Némirovsky faceva parte di quella borghesia ricca e colta che per tradizione non si occupava dei figli, affidandoli a governanti ed educatori. Un tipo di educazione che però non si addiceva alla sua sensibilità proustiana.
“I suoi compagni della Sorbona, ai quali doveva sembrare una ragazza un po’ troppo ricca, un po’ troppo viziata, spensierata e frivola, non avrebbero certo mai immaginato che Irene, tornando da un ballo o da una gita in motocicletta a Deauville, si chiudeva in camera sua e, all’insaputa di tutti, scriveva”.
Così racconta la figlia Élisabeth Gille nella biografia della madre, dal titolo Mirador: mia madre.
La scrittrice era una donna colta che parlava sette lingue: ucraino e francese come lingue madri, la seconda imparata dalla sua governante, e poi il russo, l’inglese e le altre. Far parte dell’intellighenzia parigina era il suo status; prima ancora di sentirsi ebrea era di questa “casta” raffinata che faceva parte e dalla quale si sentiva protetta.
Saul Dibb e Andrea Cornwell, rispettivamente regista e produttrice del film Suite Francese, raccontano del ritrovamento del manoscritto del romanzo dopo 60 anni.
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Negli anni Trenta diventa una delle maggiori scrittrici del suo tempo
Con l’inasprirsi delle leggi razziali si fece battezzare, divenne cattolica e si trasferì in campagna con la famiglia. Nel luglio 1942, dopo aver messo al sicuro le due figlie piccole, fu arrestata. Sembra che il giovane poliziotto che l’ha fermata, le abbia proposto di fuggire per evitare di consegnarla ai tedeschi che l’avrebbero portata ad Auschwitz. Ma pare che lei gli abbia risposto: “Non andrò due volte in esilio”.
Questo episodio lo racconta la figlia nella sua biografia e la mancata fuga resta un piccolo mistero. Elisabeth Gille non le perdona di aver sottovalutato il pericolo nazista e le rimprovera questa cecità. Ma non fu la sola a mostrare una simile ingenuità verso il nazismo. Sembra che molti degli ebrei deportati non sapessero dove portavano i treni e ci sono testimonianze di donne che si truccavano e si mettevano in ordine prima dell’arrivo nei campi di sterminio, del tutto ignare del destino che le aspettava.