Gabriela Galati, argentina che vive a Milano, è un’esperta di arte contemporanea. Ha ottenuto un BA e MA in Storia dell’Arte presso l’Università di Buenos Aires e un dottorato di ricerca presso l’Università di Plymouth.
Dopo aver maturato una esperienza quindicennale come direttrice di galleria e curatrice, prima a Buenos Aires, sua città natale, poi a New York e Milano, all’inizio del 2016 Gabriela ha fondato ECCENTRIC Art & Research, una piattaforma dedicata alla diffusione di pratiche artistiche che sono il frutto di un percorso di ricerca. Da luglio 2017 è anche direttrice della galleria d’arte contemporanea aA29 Project Room.
L’abbiamo intervistata per capire in quale direzione stia andando l’arte contemporanea, a fronte dei numerosi cambiamenti a cui le nuove tecnologie la sottopongono.
Duchamp Meets Turing, il tuo libro appena pubblicato per Postmedia Books è il frutto di una lunga ricerca nel campo dei cambiamenti dell’arte in epoca contemporanea. Partiamo dall’inizio: come nasce la tua passione per l’arte e da quando è diventata il tuo lavoro?
La mia passione per l’arte penso sia nata da piccola, principalmente grazie a mia madre. In particolare ci sono due momenti legati all’arte che, da bambina, mi rendevano molto felice. Ricordo che mia madre prendeva lezioni di scultura presso l’atelier di uno sculture molto rinomato in quel momento in Argentina, Leo Vinci. Sì! Si chiamava Leonardo Vinci! Io avevo 4 o 5 anni e lei mi portava con sé. Adoravo quel posto anche se d’inverno era freddissimo. Giocavo con l’argilla e mia madre mi spiegava tutte le tecniche che vedevo applicate. Il secondo momento si colloca più o meno nello stesso periodo. Mia madre comprava dei fascicoli sulla scultura in edicola, dove venivano pubblicati i lavori dei più famosi scultori della storia dell’arte occidentale, da Nicola Pisano ad Anton Pevsner, Picasso o Jean Arp. Quasi tutto il fascicolo era in bianco e nero tranne le ultime pagine che invece erano a colori. Ricordo il piacere di arrivare a quelle ultime e più importanti opere. Poi mia madre mi portava a tutte le inaugurazioni! Da mio padre invece ho ereditato la passione per l’architettura.
L’arte è diventata il mio lavoro prima che terminassi gli studi in storia dell’arte in Argentina. Come primo impiego, ho lavorato alla catalogazione delle opere di Naum Knop per la Fondazione che curava il suo patrimonio artistico. Dopo qualche anno ho iniziato a lavorare come gallery manager di uno spazio al centro di Buenos Aires, gestito da uno storico gallerista argentino, Alvaro Castagnino. Ho iniziato anche a insegnare come assistente all’Università di Buenos Aires. Da quel momento in poi l’arte è sempre stata la mia area di ricerca e il mio lavoro.
Nel tuo libro affermi che il POSTUMANO, categoria filosofica di cui oggi sembra impossibile non parlare, ha avuto origine concettualmente nel Ready-made di Marcel Duchamp. Vuoi spiegarci perché?
Considerare il readymade come “origine” del postumano è un po’ impreciso. Sono d’accordo con Cary Wolfe e altri, che il postumano non sia tanto una questione cronologica ma sia piuttosto un problema ricorsivo, ovviamente in senso molto ampio. Quello che propongo, per quanto riguarda la teoria dell’arte del modernismo e del postmodernismo, è che il readymade sia ciò che permette il vero superamento del modernismo nelle pratiche artistiche e concettuali, nonché funzioni come un “link” che ricostruisce la rottura tra pratiche artistiche che erano già postumane e quelle dell’arte più mainstream. Sostengo anche che il readymade contenga quella che poi sarà la logica dell’arte cibernetica e della new media art. Duchamp stesso è stato una soggettività postumana a suo tempo.
Il collegamento tra Ready-made e postumano sembra dirci che, al contrario di quanto molti tecnici sembrano volerci far credere, c’è ancora spazio per fare Arte con la A maiuscola, anche quando ad essere creativo è un Soggetto Digitale. Ho interpretato bene?
Si, hai interpretato bene. L’arte con l’A maiuscola, secondo me esisterà sempre, non credo nella morte dell’arte, neanche della pittura, semplicemente perché creare mondi illusori e paralleli fa parte dell’essere umani. Tuttavia, credo che la produzione di senso, e in una certa misura di alcune produzioni artistiche, non sia esclusiva dei soggetti umani. In questo seguo con fiducia Peirce e Deleuze. In ogni modo, il Soggetto Digitale non è necessariamente un soggetto artificiale.
Puoi provare a spiegarci in modo semplice cosa intendi per Soggetto Digitale? Quali sono le caratteristiche innovative che gli riconosci?
Il soggetto digitale è una soggettività postumana, un soggetto che vive e si con-forma nell’intreccio con le nuove tecnologie, con entità umane in ambienti digitali e non digitali; è un cyborg, anche se non necessariamente in senso letterale. L’uomo è sempre stato modificato dalle tecnologie che utilizzava in un determinato momento e le modificava e creava a sua volta. La particolarità del soggetto digitale, come ben dice Katherine Hayles, è il fatto di trovarsi costantemente in circoli viziosi con le tecnologie digitali, il che fa di noi dei cyborg, senza necessariamente avere degli impianti meccanici o elettronici nel nostro corpo. La logica del codice sottostante a queste tecnologie inizia a far parte della nostra vita. Ed è fondamentale ricordare che questo soggetto è sempre embodied, incarnato, non è un’entità immateriale senza corpo. Ha sempre un corpo!
Parte del tuo percorso teorico è ancorato, mi sembra, ad un nuovo significato che dai al cosiddetto INCONSCIO TECNOLOGICO. Un concetto non nuovo, di cui si parla già negli anni ’70, ma che secondo te oggi acquisisce senso nuovo anche a causa dei social media. E’ così? Cos’è per te l’inconscio tecnologico?
Si, è così, col solo chiarimento che il concetto d’inconscio tecnologico acquisisce nuova importanza a causa delle tecnologie digitali in generale, tra cui i social media. Questo concetto è in rapporto stretto con quello del soggetto digitale. Le tecnologie, i loro codici e algoritmi, sono creati da soggetti. Questo fa sì che nelle tecnologie ci sia, in qualche forma, incorporata una parte delle loro soggettività. Così come è incorporata nelle tecnologie una parte della nostra soggettività che si sviluppa nel momento in cui entriamo in relazione con loro, siano esse videogiochi, social media, o camere fotografiche. Questo strato di soggettività incorporato nelle tecnologie e di cui spesso noi non siamo consapevoli, è quello che definiamo “inconscio tecnologico”.
Si tratta di uno strato solo minimamente accessibile ai soggetti, che si forma in modo collettivo e quindi può essere un modo – e fornire una chiave – per accedere a un immaginario collettivo, condiviso. Questo è importante perché l’inconscio tecnologico ha un ruolo rilevante nella produzione di conoscenza e nella costituzione delle soggettività, appunto, dei soggetti digitali. Per questo bisogna stare attenti al tipo di tecnologie, e anche di archivi, con cui interagiamo. Come propongo nel libro, molti archivi digitali che conservano le tracce della nostra soggettività e quindi maturano in inconscio tecnologico, si sviluppano sfruttando cliché – il classico esempio è Facebook, ma anche Amazon – altri, invece, si sviluppano invitando all’incontro con lo sconosciuto e l’inaspettato – tra gli esempi che analizzo c’è il complesso progetto artistico di Katie Patterson The Future Library, o la Camera Restricta dell’interaction designer Philip Schmitt. I loro risvolti sono molto differenti.
Puoi farci un esempio di opera d’arte che, secondo te, è il frutto emblematico di questa nostra epoca?
Una delle mie opere preferite degli ultimi anni, anche se non ne parlo nel libro, è il Random Darknet Shopper (2014-ongoing) della coppia svizzera !Mediengruppe Bitnick.
Si tratta di un bot – un programma che accede alla rete attraverso gli stessi canali usati dagli utenti umani – che compra in maniera completamente random nel deep web – il lato oscuro del web!- tramite 100 dollari in bitcoins (la criptomoneta più importante del momento) forniti settimanalmente dagli artisti. Ogni oggetto comprato dal bot viene esposto in una galleria o in un museo. Comprando random, il bot a volte compra delle cose relativamente innocenti, come delle istruzioni per non essere rintracciati se si comprano delle cose illegali sul deep web, a volte, però, compra delle cose meno innocue.
Ad esempio, in una mostra presso il Kunst Halle di St. Gallen sono state esposte delle pastiglie di ecstasy acquistate dal bot, cosa che ha scatenato, prevedibilmente, la reazione della polizia che ha confiscato il materiale. Al di là del risvolto potenzialmente ironico, l’opera genera evidentemente delle domande che segnalano dei buchi giuridici sulla responsabilità degli algoritmi.
L’esempio paradigmatico che discuto ampiamente nel libro è Excellences & Perfections di Amalia Ulman, una performance che ha preso vita su Instagram del 2014. Artista argentina, Amalia Ulman ha usato il social per crearsi una vera e propria vita parallela. Si è trasformata da ragazzina di provincia a it girl, tra hotel a 5 stelle, colazioni da sogno, abiti da principessa e sfarzo senza limiti. Ha finto di fare interventi di chirurgia estetica – anche se alcuni li ha fatti davvero, si è tinta i capelli, comprava e restituiva vestiti, si intrufolava negli alberghi e così via. L’account, perfettamente studiato, ha raggiunto con il tempo circa 90 milioni di follower.
Svelato che si trattava di una performance, Amalia ha convinto esperti e galleristi e la sua opera artistica è stata esposta in diverse gallerie molto importanti. Una performance davvero interessante, sebbene debba dire che il fatto che l’artista abbia permesso che parte delle foto fossero tolte dal contesto per essere mostrate come semplici fotografie, cioè stampate e incorniciate, mi ha fatto dubitare che lei abbia veramente capito la rilevanza e attualità del suo lavoro.
Parlaci di ECCENTRIC Art & Research. Com’è nato il progetto e l’idea di unire l’arte e la ricerca? Di cosa vi occupate?
ECCENTRIC Art & Research è il logico risultato del mio percorso professionale… un poco “eccentrico”. Non “eccentrico” nel senso di stravagante, ma nel senso che è stato un po’ “fuori dal centro”. Infatti, avere una carriera accademica, di docente e ricercatrice, e lavorare nel mercato dell’arte, invece che in un museo per esempio, non è considerato un percorso “classico”. Queste due aree si guardano con parecchio sospetto, o almeno così era fino a poco tempo fa. Questo da un punto di vista più “personale”, mentre da un punto di vista più teorico/professionale, ECCENTRIC nasce dal mio interesse a collaborare per ri-unire il “digital divide”, cioè quel divario che si è venuto a creare tra le varie forme d’arte con l’avvento del digitale, lavorando con artisti in cui credo. In tutti i casi, sia che dipingano sia che lavorino con le nuove tecnologie, il lavoro degli artisti di ECCENTRIC è supportato da una ricerca profonda.
Come osserva Axel Straschnoy, uno degli artisti di ECCENTRIC, si potrebbe dire che “non c’è arte senza ricerca”. Questo in un certo senso, è vero, ma io mi riferisco ad una ricerca metodologica e consapevole. I temi di cui si occupano la maggior parte di questi artisti, hanno a che vedere con il rapporto tra uomo e tecnologia e/o con il vivente, in altre parole con il postumano. Trattano questi temi senza “medium specificity”, intendo dire che non c’è un innamoramento incondizionato verso le nuove tecnologie. Puoi parlare di new media con la pittura, come fanno Brian Montuori e Gabriele Di Matteo, ad esempio; o viceversa puoi fare come Axel Straschnoy che investiga temi rinascimentali come i sistemi di rappresentazione nell’arte occidentale, creando film per planetari, o tramite la realtà virtuale.
Quindi ECCENTRIC cerca di promuovere il lavoro degli artisti che rappresenta sia a livello teorico, accademico e critico, sia nel campo e nel mercato dell’arte.
Come vedi il futuro dell’arte? Su cosa si dovrà concentrare un critico d’ora in poi per comprenderla appieno ed accettare la sua provocazione?
Nell’arte, in generale, vedo la rilevanza che ci vedevano McLuhan e Jack Burnham, tra molti altri, e cioè la capacità di capire prima degli altri, anche in maniera inconsapevole, le principali problematiche della contemporaneità e di presentarle in un modo critico. L’esempio precedente di !Mediengruppe Bitnick penso sia tra i più evidenti. I critici, come sempre, devono studiare e vedere tanto, facendo ricerche approfondite senza conformarsi a quello che si presenta nel mainstream. Penso che il critico si debba un po’ separare dal ruolo del curatore ed essere sempre di più un vero ricercatore.
Che libro consiglieresti ai lettori non esperti che avessero voglia di approfondire questi argomenti?
Consiglierei d’iniziare sicuramente dai libri di Antonio Caronia, prima di tutto da Il corpo virtuale. Dal corpo robotizzato al corpo disseminato nelle reti in cui già nel 1996 sviluppò delle idee che Hayles avrebbe approfondito alcuni anni più tardi in How We Became Posthuman (1999). E quello di Giovanni Leghissa Postumani per scelta. Verso un’ecosofia dei collettivi (2015).
Per quanto riguarda più strettamente la new media art e la teoria dell’arte, purtroppo non tutti i titoli di rilevanza vengono tradotti. Direi d’iniziare con MediaArtHistories (2007) a cura di Oliver Grau, e continuare con il più recente aggiornamento sui temi e le opere Mass Effect. Art and the Internet in the Twenty-First Century (2015), a cura di Lauren Cornell ed Ed Halter.
Come sai, la nostra testata si occupa di cultura contemporanea a 360 gradi, so che sei una appassionata di cinema e di serie tv oltre che di arte, c’è un film che hai particolarmente apprezzato che vuoi consigliare ai nostri lettori? O una serie televisiva?
Consiglierei per quanto riguarda questi temi un libro (e NON il film che hanno recentemente fatto su di esso!!) Il cerchio di David Eggers. Il libro è del 2013 e anticipa con grande chiarezza tante problematiche che si stanno discutendo adesso e che penso continueremo a discutere, anche se il finale sembra un po’ frettoloso. Per quanto riguarda i film direi che The Square di Ruben Östlund è uno dei migliori che ho visto negli ultimi tempi.
Invece nell’ambito serie televisive, devo confessare un interesse molto tiepido per prodotti come Black Mirror, una serie che, anche se ha delle grandi intuizioni, finisce sempre per deludermi per come vengono sviluppati gli argomenti. Consiglierei quella che più mi ha interessato negli ultimi tempi, molto meno banale di quello che potrebbe sembrare: Mindhunter, su Netflix.
Un consiglio a chi ha voglia di vedere una mostra interessante nei prossimi mesi?
Per chi abbia la possibilità di andare in Germania in questo momento al ZKM di Karlsruhe ci sono almeno tre mostre che vorrei tanto vedere: The Art of Immersion II, Feminist Avant-Garde of the 70’ e Open Codes. In Italia, direi che sarà sicuramente interessante Manifesta, la biennale europea, quest’anno dal 16 giugno a Palermo. E più modestamente, vi invito a visitare la mostra collettiva che curerò nella galleria di cui sono direttrice, aA29 Project Room di Milano, Domande sul vivente in cui, attraverso le opere di Tiziana Pers, Brandon Ballengée, Ivana Adaime Makac, Matilde Sambo, Muriel Rodolosse e Camilla Alberti, e una performance del collettivo SEEDS, cercherò di ampliare le riflessioni sul postumano esposte già nel mio libro.