Cultural combat Virginia Woolf contro James Joyce

La formula dei Cultural Combat si usa a Londra ormai da qualche anno. Si tratta di incontri-scontri, ad esempio Grecia contro Roma, Shakespeare contro Milton, Vermeer contro Rembrandt, Fleming contro le Carré, Verdi contro Wagner. Dei sei duelli tra scrittori che Valerio Magrelli presenta al Piccolo Eliseo di Roma, il primo è stato quello tra Virginia Woolf e James Joyce.

Cultural Combat. Woolf contro Joyce
“Ritratto di Virginia Woolf”, 1917, Roger Fry

Noi, dice Magrelli, esamineremo il cannibalismo che regna fra creatori, il loro mimetismo predatorio, i loro autentici crimini letterari. Sì, perché tra scrittori c’è una totale mancanza di rispetto per la vita dei rivali e gli attacchi sono di una volgarità senza limiti. “Gli unici odi sono quelli letterari. Al loro confronto quelli politici non valgono niente”: parola di Victor Hugo.
Si arriva fino ai duelli veri e propri, come quello che nel ’26 oppose Ungaretti e Bontempelli sulla via Nomentana a Roma. Il poeta fu leggermente ferito al braccio destro e tutto finì con una riconciliazione. Oppure c’è il duello tra Marcel Proust e uno sconosciuto e curioso personaggio di nome Jean Lorrain.

Il tempestoso incontro tra Woolf e Joyce in realtà non ebbe mai luogo benché loro frequentassero gli stessi luoghi e siano nati e morti lo stesso anno, perciò qui si tratterà di quello che scrissero l’uno dell’altro.
Allora, mentre Virginia Woolf, incantata e rapita, leggeva Proust, Thomas Eliot – premio Nobel per la poesia – le passò l’Ulisse e il miracolo proustiano svanì in un attimo.

Lettera a Gerald Brenan del 5 giugno 1922:

“Oh che fastidio Joyce! Proprio mentre stavo dedicandomi a Proust. Ora devo mettere da parte Proust e il mio sospetto è che Joyce sia uno di quei geni non partoriti, che non si possono trascurare, o costringere a tacere, ma che si devono aiutare con grande fatica personale. Portamelo sabato”.

Qui c’è già tutta la chiave del loro rapporto. Non lo tollera però non può farne a meno. A riprova di questo, il 3 ottobre dello stesso anno Virginia Woolf confessava:

“La mia più grande avventura in realtà è Proust. Be’ – cos’altro resta da scrivere dopo di lui? Sono solo al primo volume e immagino che si possano trovare dei difetti, ma sono stupefatta: come se si compisse un miracolo davanti ai miei occhi. Com’è riuscito finalmente qualcuno a cristallizzare ciò che è sempre sfuggito – e persino a trasformarlo in questa sostanza stupenda e perfettamente duratura? Si deve posare il libro e restare a bocca aperta. Il piacere diventa fisico, come se si combinassero sole, vino, uva, perfetta serenità e profonda gioia di vivere. Con Ulisse non è affatto così. Mi incateno a quel libro come un martire al palo del supplizio ed ora, grazie a Dio, l’ho finito. Il mio supplizio è terminato. Spero di venderlo per quattro sterline e dieci scellini”.

Cultural Combat: Woolf contro Joyce
James Joyce in un’illustrazione di Esteban Serrano

Va detto che ad eccezione di Gente di Dublino, Joyce non si deve leggere ma studiare. Va preso come una spedizione in Nepal, per cui bisogna mettere da parte soldi e tempo ma come una spedizione in Nepal, veramente ne vale la pena. Non tutti possono leggere Joyce, ma nessuno può leggere Finnegans Wake, neanche Joyce stesso. Finnegans Wake è sostanzialmente una poesia di un poeta sperimentale. Non vi fate ingannare dalla mancanza degli “a capo” perché ogni parola è un’invenzione. La mia personale idea è che Joyce, e specialmente l’Ulisse, senza note non si possa leggere.

Ora passiamo alla scrittura: Virginia Woolf

Ne’ La signora Dalloway pubblicato nel ’25 ma iniziato nel ’22, un aereo disegna lettere di fumo bianco nel cielo che compongono il nome di una caramella – è una epifania all’interno della pagina della Woolf. Vent’anni dopo, l’immagine dell’aereo torna in maniera ben più minacciosa al momento dei bombardamenti tedeschi.

“I tedeschi sono passati sopra casa ieri sera e la sera prima. Eccoli un’altra volta. E’ una strana esperienza, questa di stare sdraiata nel buio e ascoltare il ronzio di un calabrone che in qualsiasi momento può pungerci mortalmente”.

Virginia Woolf. Cultural combat
Cultural combat: Woolf contro Joyce

Mercoledì 2 ottobre 1940

Non dovrei guardare il tramonto invece di scriver questo? Un’onda di rossore nell’azzurro. Il fienile sulla palude trattiene lo splendore. Dietro di me le mele sono rosse sugli alberi. Fino alle otto e mezza, quando comincia sopra di noi la cadaverica vibrazione. Gli aerei vanno a Londra. Be’, c’è ancora un’ora. Mucche al pascolo. L’olmo spruzza le foglioline contro il cielo. Il nostro pero è sontuoso di pere e sopra c’è il segnamento, sulla torre triangolare della chiesa. Perché tentare di stendere ancora il famigliare catalogo da cui qualcosa sfugge? Dovrei pensare alla morte? Ieri sera un grosso, greve tuffo di bombe sotto la mia finestra. Così vicino che saltammo entrambi. Un aeroplano era passato, lasciando cadere questo frutto.

La scrittura: James Joyce

Il testo è Ulisse e cambia tutto rispetto a quella specie di folle scioglilingua onirico, ipnotico, post surrealista, di Finnegans Wake. Qui abbiamo una storia, abbiamo una crudezza, una trivialità, una scurrilità che scandalizzerà Virginia Woolf.

Questa pagina deriva da un breve soggiorno romano, tra il luglio 1906 e il febbraio 1907, quando Joyce lavorava come corrispondente estero di una banca e a Roma ebbe l’idea di accrescere Gente di Dublino, i racconti dublinesi che vi invito a leggere immediatamente perché sono di una lettura trasparente e non vanno studiati, vanno veramente goduti. Joyce ebbe l’idea di aggiungere un racconto, intitolato appunto Ulisse e che doveva parlare di un ebreo dublinese tradito dalla moglie.
Le parole scritte in corsivo, sono in italiano nel testo. La traduzione è di Enrico Terrinoni.

Adiacente all’oratorio per gli uomini, Bloom sentì che girava una specie di carrello di gelati con un gruppo di italiani presumibilmente, i quali discutendo in maniera calorosa facevano librare in aria la garrulità del loro idioma vivace, in modo particolarmente animato, essendovi alcune divergenze tra le parti in causa.
– Puttana madonna, che ci dia i quattrini! Ho ragione? Culo rotto!
Intendiamoci. Mezzo sovrano più
Dice lui, però.
Farabutto. Mortacci sui!
[…]

Mr. Bloom, avvalendosi del diritto alla libertà di parola, non avendo tuttavia una conoscenza del linguaggio in questione, in verità piuttosto incerto su quel “vojo”, commentò con un suo protégé, usando un tono di voce udibile a apropos della disputa accesa per strada che tuttora infuriava a più non posso:
– Lingua bellissima. Intendo dire, a scopo canoro. Perché le tue poesie non le scrivi in quella lingua? Bella poetria! Così melodiosa, così piena. Belladonna vojo.
Stephen, che sarebbe morto pur di sbadigliare, se solo avesse potuto, soffrendo in un genere di spossatezza mortale replicò:
– Buona a farsi sentire dagli orecchi di un’elefantessa. Litigavano per una storia di soldi.
– Sul serio?” domandò Mr. Bloom.

Ovviamente soggiunse pensieroso, riflettendo tra sé e sé sul fatto che tanto per cominciare esistevano più lingue del necessario, magari è solo il fascino del Sud che avvolge tutto.
Il gestore del ritrovo nel bel mezzo di tale tête-à-tête, poggiò sul tavolo una tazza bollente, stracolma di un intruglio di prima qualità definito caffè, insieme ad una sorta di piccolo dolce antidiluviano, almeno all’apparenza, dopo di che si ritirò al bancone.
[…]

– Il suono è un impostore, disse Stephen, dopo qualche attimo di pausa. Come i nomi, Cicerone, Podmore, Napoleone, Mr Goodbody, Gesù, Mr Doyle, giravano tanti Shakespeare quanti Murphy. Cosa c’è in un nome?
– Proprio così, concordò spontaneamente Bloom. Ovvio.

Al di là dei “fuochi d’artificio”, il passo è bellissimo. E’ un’interrogazione di uno studioso di San Tommaso sulla lingua, sul fatto che le lingue sono troppe, su che cos’è il nome, su che cos’è il suono, su che cos’è una poetria.
Insomma Ulisse di Joyce è nato qui a Roma. Sarebbe divertente scoprire la via, la strada. E’ vero che poi verrà steso a partire dal ’14 a Trieste, ma Roma è il luogo seminale del capolavoro.
Arriviamo al cuore della serata che è un cuore fatto di noia e di scandalo perché vedremo Woolf nel giro di vent’anni, interrogarsi decine e decine di volte su questo libro che la tormenta e che lei non vuole leggere. Rapidamente una scarica di sei lettere, tutte del ’18.

“Quanto al signor Joyce non capisco cosa voglio, anche se avendo speso cinque scellini per lui ho fatto del mio meglio, mi sono arresa solo perché sono stata assalita da una noia terribile”.

Cultural combat: Woolf contro Joyce

Sempre questa storia degli scellini…
Bisogna dire che Leonard Woolf e Virginia hanno un’importantissima casa editrice, la Hogarth Press, e attraverso una sua mecenate Joyce prova a pubblicare con loro. Vi anticipo che il libro non verrà mai pubblicato per tre motivi. La lunghezza. Obbiettivamente questo è il motivo che poi verrà utilizzato nella lettera ufficiale. Poi ci sono lo scandalo e poi il timore di processi perché alcuni tipografi dicono a Leonard: “Guarda che tu finisci davanti a un tribunale”.

Altra lettera:

“Poi c’è un tuo compatriota di nome James Joyce che vuole stampare il suo nuovo romanzo. Questo libro io esiterei a darlo in mano a Barbara anche se è una donna sposata. Il tono esplicito del linguaggio e la scelta degli avvenimenti, peraltro ripetitivi, hanno fatto arrossire persino me. Sarà mica una qualità degli irlandesi?”

La Woolf scherza sulla cosa.

“Ci hanno chiesto di stampare Joyce, il romanzo che tutti i tipografi di Londra hanno rifiutato. Per cominciare c’è un cane che piscia, poi c’è un uomo che si masturba, e si può essere monotoni anche sull’argomento. Inoltre credo che il suo metodo, che è molto elaborato, voglia poi dire soltanto tagliare via le spiegazioni e mettere i pensieri tra virgolette. Perciò non penso che lo stamperemo”.

James Joyce e la sua editrice Sylvia Beach nell’ufficio di lei a Parigi

Attenzione vi anticipo che questa irritazione, questo disgusto, piano piano lasceranno il passo a una posizione ben diversa.

“Ho letto il romanzo di Joyce. E’ interessante come esperimento. Elimina le descrizioni e cerca di comunicare i pensieri ma non mi sembra che abbia qualcosa di interessante da dire e, dopo tutto, il modo di far pisciare un cane non è molto diverso da quello di un uomo. Trecento pagine di questa solfa possono anche risultare noiose”.

Oh guardate, per chi non lo avesse ancora letto, non è vero! E’ uno dei libri più appassionanti che esistono.

“Comunque è troppo lungo perché ci proviamo. Anche se meriterebbe di essere pubblicato almeno un pezzettino”.

Mi fermo con l’ultima delle sei lettere che racconta la conoscenza stretta con Thomas Stearns Eliot, l’autore de La terra desolata, dei Quattro quartetti, grande autore anche teatrale, diventato non solo famoso ma anche ricchissimo. Lui nasce in America e si trasferisce in Inghilterra dove diventa più inglese degli inglesi. Proprio si trucca da inglese, diventa un po’ caricaturale in questo. Immenso critico letterario, oltre che scrittore, Eliot è diventato più ricco di quanto avesse mai immagino grazie a un’operina che aveva scritto per i suoi nipoti: Cats, un musical famoso in tutto il mondo.

“Eliot dice che il romanzo di Joyce è l’opera più grande della nostra epoca. Lytton Strachey (un altro dei grandi intellettuali del Circolo di Bloomsbury) dice che non ha la minima intenzione di leggerlo”.

Questo si diceva anche di Proust che ha scritto sette romanzi. Molti dicevano: il romanzo di Proust è troppo lungo e la mia vita troppo breve.

I classici più abbandonati secondo Goodreads

A parte lo scandalo fermiamoci ancora un momento sulla noia. Su internet ho trovato addirittura una classifica dei libri più noiosi fatta dal sito Goodreads. Dicono che hanno interpellato 20 milioni di persone – anche se mi pare difficile – e hanno stilato un elenco con il titolo: Psicologia dell’abbandono. Lista dei Top five abandoned classics. Nella top five degli abbandonati l’Ulisse risulta al terzo posto. Questo perché lo leggono: ripeto, va studiato, non va letto. Se lo studiate vi appassionerete!

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Fine della prima parte
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che vede Virginia Woolf contro Joyce

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Tiziana Zita

Tiziana Zita

Se prendessi tutte le parole che ho scritto e le mettessi in fila l'una dopo l'altra, avrei fatto il giro del mondo.

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