
E’ il 25 marzo del 1370 quando una violenta tempesta colpisce una nave catalana in rotta verso l’Italia. Quando il capitano capisce che non c’è più nulla da fare, cerca di salvare l’equipaggio ordinando di gettare in mare tutto il carico. Tra le casse in stiva ce n’è una di cui tutti ignoravano l’esistenza, è molto pesante e decidono di buttarla in mare per ultima.
Appena la cassa finisce tra le onde, immediatamente la tempesta si placa. I marinai, che ormai si davano per spacciati, vedono il misterioso contenitore riemergere dai flutti e, lentamente, approdare sulle coste della Sardegna. La cassa tocca terra alle pendici del monte Bonaria, un’altura nei pressi dell’attuale città di Cagliari. I frati che la recuperano, la portano fino al convento e trovano al suo interno una statua lignea della Madonna col Bambino, con in mano una candela accesa.

La Madonna prende il nome di Nostra Signora di Bonaria. “Bonaria” è l’italianizzazione delle parole catalane “Bon Ayre”, ovvero aria buona, e, per una interessante concatenazione di eventi, il contenuto di quella cassa, qualche secolo dopo darà il nome alla capitale culturale del Sud America.
La prima volta che ho sentito questa storia è stato grazie a Carlos, un tassista argentino a cui avevo chiesto di portarmi a un certo indirizzo di Buenos Aires. A distanza di anni, ricordo ancora il suo nome, ma non dove stessi andando. Che strana la memoria! Ricordo solo che la mia destinazione era vicino ad un incrocio con Avenida Juan de Garay.
Carlos di giorno faceva il professore e di notte guidava il taxi. Correva l’anno 2006 e lui era una delle tante persone costrette al doppio lavoro dalla crisi che aveva sconvolto il Paese nel 2002.
Come il 60 per cento della popolazione argentina, anche Carlos aveva un nonno italiano, quindi conosceva l’italiano e aveva tanta voglia di parlarlo. Mi chiese se sapessi chi fosse Juan de Garay, a cui era intitolata la via verso cui mi stavo dirigendo, ma prima che avessi il tempo di rispondere, la storia della cassa in mare era già iniziata. E, guarda caso, non sarebbe finita prima del mio arrivo a destinazione. Si sa, tutto il mondo è paese e i tassisti di qualsiasi latitudine hanno quello strano rapporto con lo spazio e con il tempo, che tende a dilatarsi a piacere.
Juan de Garay è l’esploratore spagnolo che nel 1536, risalendo il Rio della Plata, costruì – o meglio “ricostruì” – il porto dal quale i tesori del Perù partivano per la Spagna. Nell’area in cui sarebbe stata costruita la capitale argentina, prima della colonizzazione vivevano i Querandi, un popolo molto fiero che non aveva nessuna intenzione di lasciarsi governare dagli spagnoli. Tanto che, dopo la colonizzazione, i Querandi impiegarono solo pochi anni per distruggere il primo nucleo abitativo della futura città di Buenos Aires. Le rovine della città restarono abbandonate per alcune decadi. Fu necessaria una seconda spedizione e tutta la risolutezza di Juan de Garay per permettere la rinascita della città che, in onore della Madonna di Bonaria, chiamò: Ciudad de la Santísima Trinidad y Puerto de Nuestra Señora de los Buenos Aires. Buenos Aires appunto.

Fin da allora, per il popolo argentino il tema della rinascita rappresenta una costante. Il secolo scorso milioni di europei hanno cercato una seconda vita in Argentina, generando una cultura che ha prodotto uomini straordinari: da Che Guevara a Maradona, da Borges a papa Bergoglio.
L’aria buona… qui non c’è
Nonostante il suo nome di “battesimo”, l’aria buona non è certo una caratteristica di Buenos Aires. Il fiume che la bagna, il Rio de la Plata, ha un colore fangoso e gli anni della crisi hanno dato un bella mazzata ai suoi palazzi sgarrupati.

Eppure, nonostante il senso di pomposa decadenza che avvolge quasi tutto, l’atmosfera è unica e, per un italiano, è quasi una seconda casa. Il 60 per cento dei “portenos”, come vengono chiamati gli abitanti di Buenos Aires, ha almeno un nonno italiano, il che, per il principio dello Ius Sanguinis a cui si ispira la nostra legge, li rende di fatto cittadini italiani con diritto al passaporto. Negli anni più bui della crisi, avere un passaporto italiano significava poter sperare in una vita nuova, ovvero avere la possibilità di muoversi liberamente in tutta Europa e avere meno difficoltà ad essere ammessi negli Stati Uniti.
La prima volta sono arrivato in Argentina, in vacanza, con due amici
Il nonno che non ho mai conosciuto, ma di cui porto il nome, aveva passato qualche anno a Buenos Aires in cerca di avventura, molto prima che mio padre nascesse. In famiglia, sappiamo poco o nulla di quel suo viaggio, ma le diverse pagine di “Perotti” che trovai nell’elenco telefonico di Baires, mi diedero conferma che i nostri antenati una storia in quel posto l’avevano avuta davvero.
Dal 2006 in poi, ci sono tornato spesso e ho avuto la fortuna di osservare come in quegli anni la crisi avesse generato energia creativa. Intanto, la svalutazione della moneta locale aveva reso la città particolarmente “comoda” per gli Europei. Fino a qualche anno prima, andare in Argentina per un europeo costava quasi come andare negli Stati Uniti, poiché il governo aveva deciso che il peso dovesse essere scambiato alla pari con il dollaro. Questo rappresentava indubbiamente un ostacolo all’ingresso nel Paese.
Dopo la crisi le cose sono cambiate e, mentre chi poteva lasciava l’Argentina grazie al certificato di nascita del nonno emigrante, mi accorsi che molti stavano facendo il percorso inverso. Artisti, musicisti, attori, scrittori di diversi paesi, si trasferirono almeno per un periodo a Buenos Aires, dove vivere costa molto poco e ogni scorcio regala un’idea. Come Berlino dopo la caduta del muro, Baires diventa dopo il 2002, “the place to be”.
All’interno del Teatro Coliseo – di proprietà dello Stato italiano – nel 2013 ho conosciuto Morgana Marchesi, un’attrice italiana che teneva corsi di teatro in italiano, in una delle salette del retropalco.

Arrivata per trovare dei parenti che vivevano in città, dopo aver rinviato il volo di ritorno più e più volte, Morgana aveva deciso di restare in quello che mi descrisse come il paradiso del teatro indipendente. Gli spettacoli a Buenos Aires si svolgono ovunque, nei cortili dei condomini, nei palazzi abbandonati e anche negli appartamenti privati. Camminando per strada, è facile imbattersi in inviti a questo tipo di spettacoli. Il primo che mi capitò lo ricordo ancora. Sull’invito c’era l’indirizzo di un palazzo, il numero del piano e il nome sul campanello a cui citofonare per assistere.
La necessità ha spinto gli artisti ad aguzzare l’ingegno. Solo nella zona centrale della città esistono oltre 180 sale, se così le vogliamo definire, in cui si fa teatro indipendente. Teatro e danza “funzionano” a tutte le ore del giorno e della notte: dalle quattro di pomeriggio di domenica, alle tre di notte del sabato. Uno spettacolo “off” è considerato di successo se rimane in cartellone oltre due anni.
Se c’è una cosa che non manca da queste parti sono proprio le storie
Mentre gustavamo un asado – il piatto tipico con carne cotta alla brace – chiacchieravo con un amico di un amico dei mondiali del ’78, vinti dall’Argentina di Mario Kempes, durante la dittatura. Con il mondo sintonizzato sulle partite di calcio, la Giunta militare aveva deciso di trasformare il campionato mondiale nel proprio spot propagandistico. Dall’età, il mio interlocutore sembrava uno di quelli che, in quegli anni, poteva trovarsi all’università, perciò gli chiesi se avesse perso qualche amico.

Con una calma che ancora oggi mi sconcerta, rispose che nel ’78 lui faceva il servizio militare e, se gli capitava di andare all’Università, era solo perché aveva ricevuto l’ordine di rastrellare studenti. Li portava in una stanza e li lasciava ammanettati al termosifone per 24 ore. Dopo questo trattamento, disse, gli studenti venivano rilasciati. La verità è che, purtroppo, non a tutti andava così “bene”. Si ritiene che tra il 1978 ed 1983, sotto il regime della Giunta Militare siano scomparse oltre 30 mila persone. Il mio interlocutore, insomma, non so quanto consapevolmente, era stato uno dei cattivi. O, meglio, uno di quelli che dai cattivi era costretto a prendere ordini. Nel 1999 è un regista italiano, Marco Bechis, ad affrontare questo drammatico fenomeno in un film noto in Italia come Garage Olimpo e in argentina tristemente conosciuto come El Olimpo (vedi qui il trailer).
Il calcio a Buenos Aires è una sorta di religione. Mario Basti, il direttore di Tribuna Italiana, uno dei giornali in lingua italiana editi in Argentina, in un’altra di quelle chiacchierate davanti al cibo, mi raccontò una storia su Papa Bergoglio che descrive perfettamente il modo in cui il calcio viene vissuto da queste parti.

Pochi giorni dopo essere stato eletto Papa, durante una sua uscita a Piazza San Pietro, Francesco, grande tifoso del San Lorenzo, incontrò un fedele con la maglia del Boca Junior. Durante la benedizione, Papa Bergoglio fece, con le mani, un bel sei in aria, a ricordagli una famosa sestina che i suoi avevano rifilato agli xeneizes. Xeneizes sta per “genovesi”, ed è il nome con cui vengono chiamati gli abitanti de la Boca, il quartiere dove a fine Ottocento si trovavano le baracche degli italiani.
Nel 1882 “i genovesi” si autoproclamarono Repubblica Indipendente de la Boca. Issarono la bandiera di Genova e costituirono un territorio indipendente dall’Argentina. Inviarono una lettera formale ad Umberto I di Savoia che, però, non prese molto seriamente la cosa. Fu necessario l’intervento diretto del Presidente argentino di allora per risolvere la questione. Ancora oggi la Republica de la Boca è presente in numerosi murales.

E siccome qui è difficile restare neutrale, calcisticamente parlando, mi innamorai di questa storia e divenni anche io tifoso del Boca. Comprai la maglietta numero 10 che fu di Maradona. Eh sì, ero quasi riuscito a non citarlo fino ad ora, ma è impossibile. Per tornare al concetto di calcio come religione, qui Diego è visto come un essere sovrannaturale.

A lui gli argentini hanno dedicato la Iglesia Maradoniana, la Chiesa maradoniana, che al posto del Creatore, ha come Dio, il dio del pallone. La parodia religiosa nacque il 30 ottobre 1998, il giorno del trentottesimo compleanno di Maradona. Due giornalisti argentini, Hernán Amez e Alejandro Verón, iniziarono per scherzo a festeggiare il giorno della nascita di Diego Maradona come se fosse il giorno di Natale. Ai due si aggiunsero sempre più persone che oggi addirittura contano gli anni in D.D. ovvero Despues de Diego, Dopo Diego.
Il 2018 D.C. è per loro il 68 D.D.
Il tango è molto più che una danza…
Nominato Diego, non mi resta che chiudere col Tango, l’interpretazione meglio riuscita della malinconia. Ce n’è uno elegante che si celebra nei teatri ad uso e consumo dei turisti. E poi c’è quello della strada.
La gente balla con le scarpe da tennis ed i calzini di spugna, ma il tango, a vederlo, è elegante lo stesso. Non sono uno a cui interessi la danza, praticamente sono negato, ma se c’è un unico motivo per cui mi dispiace esserlo, questo è proprio il tango: un ibrido di tutte le musiche portate in Argentina degli emigrati. La miscela di tradizioni etniche e culturali è stata l’ingrediente magico di un processo creativo che, attraverso la musica, descrive non solo questa città, ma tutto il popolo argentino. Il tango si canta in Lunfardo, la lingua dei quartieri più poveri, fortemente influenzata dal francese e dall’italiano.
A guardarlo da fuori, il Tango è molto più di una danza, è un rito magico da fare in due che va oltre la sfera sessuale. Io non saprei davvero da dove iniziare per impararlo, ma ogni volta che vedo i ballerini all’opera penso che non sia mai troppo tardi.