In questo duello letterario, organizzato da Valerio Magrelli al teatro Piccolo Eliseo di Roma per la serie dei Cultural Combat, gli sfidanti sono Virginia Woolf e James Joyce. Ma in realtà è soprattutto la Woolf ad essere tormentata dall’Ulisse di Joyce. Il suo giudizio oscillerà e cambierà nel corso di vent’anni. E’ “un supplizio”, un libro noioso e irritante, oppure il romanzo più grande dell’epoca, come sostiene Thomas Eliot?
L’articolo è diviso in due parti, questa è la 2a, mentre la 1a la trovate qui.
Virginia Woolf legge James Joyce
Di Joyce, la Woolf leggerà soltanto l’Ulisse .
“Non so come La stanza di Jacob si è fermato [la redazione del romanzo] e proprio in mezzo a una scena che mi divertiva tanto. Eliot, che è arrivato subito dopo un lungo periodo creativo, mi ha distrutto. Mi ha gettato un’ombra addosso. E la mente impegnata a narrare ha bisogno di tutta la propria audacia e confidenza. Lui non ha detto nulla, ma io riflettevo che quello che faccio io, forse lo sta facendo meglio il signor Joyce. Allora cominciai a chiedermi che cosa sto facendo, a sospettare, come al solito in questi casi, di non aver preparato il mio piano abbastanza chiaramente e così a ciondolare, sprecarmi, esitare e questo significa che uno è perduto”.
Questa pagina è veramente commovente e mi fa pensare a un romanzo splendido di Thomas Bernhard. Vi invito a leggerlo. E’ un investimento finanziario in cui andate sul sicuro. Come una spaventosa variante dei nostri Cultural Combat, Il soccombente di Bernhard narra le vicende di due pianisti che sono costretti a smettere di suonare davanti all’insostenibile paragone con la bravura di un loro compagno di studi che è Glenn Gould. Naturalmente Woolf non soccombe affatto nei confronti di Joyce, ma ne avverte con sofferenza il tremendo valore.
La Woolf è furibonda
Qui abbiamo ancora la Woolf incazzata, direi furibonda:
“Ho l’impressione che il povero giovane abbia soltanto una feccia di mente. La sua pagina pesa un decimo rispetto a quella di Henry James. Dicono che andando avanti acquisti un po’ di peso. E’ vero che a causa di Tom (ovvero Eliot) mi sono preparata ad uno sforzo gigantesco e guarda, il secchio è quasi vuoto”.
E però registra:
“Mentre scrivo tremo. La collera di Dio si abbatterà su di me”.
Quindi lei sa di dire qualcosa di scorretto.
“Poi passerò a Proust”.
In un’altra lettera inizia con le solite cinque sterline, quello che ha speso per acquistare il libro:
“Mi deve cinque sterline. Non ho mai letto stupidaggini simili. Quanto ai primi due capitoli glieli lasceremo passare, ma gli altri… sono un grattamento di foruncoli sul corpo del lustrascarpe al Claridge. Naturalmente può darsi che il genio esploda a pagina 652 ma ho i miei dubbi. E questo è ciò che riscuote l’adorazione di Eliot”.
Devo preparare la mia arringa pro e contro
Diari. 16 agosto 1922
“Dovrei essere immersa nella lettura dell’Ulisse, preparare la mia arringa pro e contro. Ne ho lette 200 pagine finora – neppure un terzo – e mi ha divertita, stimolata, affascinata, interessata per i primi due o tre capitoli. Sino alla fine della scena del cimitero. Poi sono rimasta confusa, annoiata, irritata e delusa da questo liceale a disagio che si gratta i foruncoli. E Tom, il grande Tom, lo mette sullo stesso piano di Guerra e pace! Per me è un libro ignorante, plebeo; il libro di un operaio autodidatta, e sappiamo tutti quanto sono disperanti, quanto egocentrici, assillanti, rozzi, declamatori e in sommo grado nauseanti. Se si può avere la carne cotta, perché mangiarla cruda?”
Ho terminato Ulisse
Mercoledì, 6 settembre 1922
“Ho terminato Ulisse e mi sembra un colpo mancato. Genio ne ha, direi, ma di marca inferiore. Il libro è diffuso. E’ torbido. E’ pretenzioso. E’ plebeo non solo nel senso ovvio, ma nel senso letterario. Uno scrittore di classe, voglio dire, rispetta troppo la scrittura per ammettere le trovate, le sorprese, le bravure. Mi ricorda continuamente un collegiale pieno di spirito e d’ingegno, ma così conscio di sé, così egocentrico che perde la testa, diventa stravagante, manierato, chiassoso, smanioso, desta pietà nelle persone per bene e in quelle severe semplice noia.
E si spera che gli anni lo guariscano, ma poiché Joyce ne ha quaranta sembra poco probabile. Non l’ho letto con estrema attenzione e una sola volta ed è molto oscuro, sicché non dubito di averne misconosciuto i pregi più di quanto sia onesto. Sento che miriadi di minuscole pallottole picchiettano e tamburellano il lettore, ma un colpo mortale in piena faccia non lo ricevi, come da Tolstoj per esempio, ma è del tutto assurdo compararlo a Tolstoj”.
Una intelligentissima recensione
Giovedì, 7 settembre 1922
“Dopo che avevo scritto questo, Leonard mi ha messo tra le mani un’intelligentissima recensione di Ulisse sulla Nation americana che, per la prima volta, analizza il significato e certo lo rende assai più impressionante di quanto lo giudicassi. Eppure penso che vi sia una virtù e non so quale verità duratura, nelle prime impressioni; e non rinnego la mia. Devo rileggere alcuni capitoli. Probabilmente la bellezza definitiva di uno scritto non è mai sentita dai contemporanei, ma essi dovrebbero, credo, esserne turbati e io non lo sono stata. Ma ancora una volta m’ero irrigidita di proposito. Ancora una volta le lodi di Tom mi avevano troppo stimolata”.
Giovedì, 26 settembre 1922
“Ci fu un gran parlare di Ulisse. Tom disse: “E’ uno scrittore puramente letterario. Io dissi che era virile, un caprone, ma non mi aspettavo che Tom fosse d’accordo. Invece lo fu. E disse che aveva lasciato fuori molte cose importanti. Il libro sarebbe stato una pietra miliare perché aveva distrutto tutto il secolo XIX. Aveva lasciato lo stesso Joyce senza più nulla da scrivere. Mostrava la futilità di tutti gli stili inglesi. Lui trovava bellissima la scrittura di certe parti”.
Sono una snob
Qui c’è un punto cruciale. Virginia Woolf definisce la scrittura di Joyce plebea, operaia, ma – ed ecco uno degli aspetti della sua grandezza – dicendo questo non esiterà a confessare il proprio snobismo. Mi fa venire in mente un capitolo de Le confessioni di Rousseau – durante l’Illuminismo, alla fine Settecento – che fece un enorme scandalo e scalpore alla sua epoca perché l’autore confessò un furto che aveva compiuto da bambino. Nel saggio intitolato Sono una snob, io credo Woolf sia ancora più coraggiosa.
“L’essenza dello snobismo è il desidero di fare colpo sugli altri. Lo snob è un individuo dal cervello inconsistente, dal cervello di gallina, così poco soddisfatto della propria posizione che per darle consistenza non fa che sventolare in faccia agli altri titoli e onorificenze affinché gli altri si convincano e convincano lui stesso, di quello di cui in realtà non è convinto, che è anche lui una persona importante. E’ un sintomo che riconosco in me”.
A questo punto ci sarebbero della pagine molto belle in cui, parlando di Joyce, Woolf dice: “Poveretto, tra i giovani indubbiamente è il più interessante di tutti”. Dice “i giovani” ed era un suo perfetto coetaneo: “Ma il problema è che viviamo in un’epoca decadente e senza capolavori”. Il 1922, l’anno che lei giudicava in maniera così negativa è quello che vede l’uscita de La stanza di Jacob di Woolf, di La terra desolata di Eliot, dell’Ulisse di Joyce, senza contare che nel frattempo giravano per l’Europa personaggi come Kafka, Proust e tanti altri. Commenterà Ezra Pound:
“It is after all a great literary period”.
Questo per dire quanto erroneo fosse lo sguardo della Woolf sul proprio tempo. Interessante il commento di James Heffernan, uno dei suoi massimi critici:
“Woolf non sembra risolversi tra una nascente ammirazione e una testarda avversione per l’indecenza. Allo stesso tempo però, lei stessa sentiva che quella indecenza rappresentava l’esito completo del realismo psicologico”.
Scrive Virginia Woolf:
“Gran parte sembra dipendere dalla fibra emozionale della mente e potrebbe essere vero che il subconscio dimori nell’indecenza”.
Se il subconscio dimora nell’indecenza, questo ci aiuterebbe ad assolvere Joyce. Qui ricordo che stiamo parlando di due contemporanei di Freud.
La morte di Joyce
La Woolf termina con la pagina sulla morte di Joyce. Questo è un brano proprio struggente che precede di due mesi il suicidio della scrittrice.
Mercoledì, 15 gennaio 1941
“Poi è morto Joyce. Joyce, più giovane di me di una quindicina di giorni. Ricordo miss Weaver con i guanti di lana, che mi portava Ulisse dattiloscritto, al nostro tavolo da tè di Hogarth House. L’aveva mandata Roger, credo. Volevamo dedicare le nostre vite a stamparlo? Le pagine oscene apparivano incongrue, lei molto zitella, abbandonata. E quelle pagine vorticose di oscenità. Lo misi nel cassetto della scrivania intarsiata. Un giorno venne Katherine Mansfield e lo tirai fuori. Lei cominciò a leggere satireggiando, poi di colpo disse: “Ma c’è qualcosa qui”.
Una scena che dovrebbe figurare, suppongo, nella storia della letteratura. Lui era di questa parti ma non lo vidi mai. Poi ricordo Tom, nella stanza di Ottoline a Garsington, che diceva – allora era già stampato – come si può scrivere ancora dopo aver compiuto il prodigio immenso di quell’ultimo capitolo? Era, per la prima volta a mia conoscenza, rapito, entusiasmato. Comprai il volume ricoperto di carta azzurra e lo lessi qui, l’estate credo, con spasimi di stupefazione, di scoperta, e poi di nuovo con lunghi squarci di tedio intenso. Questo risale a un mondo preistorico”.
The two wolves – I due lupi
Tutto questo tempo per parlare delle opinioni di Woolf su Joyce. E’ vero che Joyce non disse nulla della Woolf, ma Enrico Terrinoni – traduttore dell’Ulisse, insieme a Fabio Pedone, e del Finnegans Wake – mi ha fatto avere un libro intitolato Parallaxes, Virginia Woolf incontra James Joyce, che è uscito tre anni fa a Cambridge. Vi voglio segnalare i passi che secondo Terrinoni sono stati scritti da Joyce a mo’ di presa in giro della Woolf nel Finnegans Wake:
“The wiles of willy wooly woolf!”
Nel gioco di parola, nello scioglilingua, emerge un lupo, che più o meno chiaramente rinvia a lei. Quello di Joyce è un millefoglie, dove ogni parola avrebbe bisogno di un carotaggio. E poi ancora:
“The two wolves”.
Qui “i lupi” sono addirittura al plurale. Joyce, il cui libro non fu pubblicato da Hogarth House, fa evidentemente riferimento ai coniugi Leonard e Virginia parlandone al plurale come fossero lupi.
Terrinoni cita altri esempi, altre occorrenze che rimandano a Virginia.
Sembrerebbe ingratitudine, anche se è vero che Joyce non sapeva cosa la Woolf stava scrivendo di lui. Non solo stava scrivendo, ma nel ’27 venne diffusa una petizione internazionale contro l’edizione pirata americana dell’Ulisse. E chi la firmò? Croce, Hemingway, Eliot, Einstein e appunto Virginia Woolf.
Per finire un inciso che per me è una pepita d’oro, tratto da Lettere a un giovane poeta di Virginia Woolf:
“Perché leggere, lo sai, è un po’ come aprire una porta e lasciarsi invadere da orde di barbari che ti aggrediscono da ogni parte e ti ritrovi tempestata di calci e pugni, sbatacchiata, graffiata, denudata, lanciata in aria fino a perdere conoscenza e poi di nuovo riacciuffata, accecata, presa a pugni. Sensazioni piacevolissime per chi legge (non c’è niente di peggio che aprire la porta e trovare che fuori non c’è nessuno)”.
Ecco io credo che per Woolf la lettura di Ulisse, nel ventennio che va dal ’18 al ’41, più di vent’anni, ebbe lo stesso preciso effetto. Dietro la sua porta c’era qualcuno che l’aspettava e quel qualcuno, quel barbaro, si chiamava Joyce.
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Bibliografia
Per chi volesse tentare quella spedizione in Nepal che è la lettura dell’Ulisse secondo Valerio Magrelli (vedi la prima parte), tre sono le edizioni del romanzo.
- L’edizione dell’Ulisse di Enrico Terrinoni, edita da Newton Compton nel 2012.
- Più recente è l’Ulisse tradotto da Gianni Celati per Einaudi nel 2013. Bellissima edizione ma senza note.
- La prima edizione, con traduzione di Giulio De Angelis, edita da Mondadori nel 1971, si presenta in 2 volumi: uno l’Ulisse, l’altro le note.