Insomma, per l’autore della Variante di Luneburg, Il diavolo nel cassetto (Einaudi, 2018) esiste. Senza nessun pittoresco e convenzionale armamentario, né datate cortine di zolfo e risibili rituali, ma creato a nostra immagine e somiglianza, si incarna nella quotidianità.
Figlio abbandonato di coppie “pie e morigerate”, proverbialmente povero o erede di famiglie blasonate, sin da piccolo mente a oltranza ed è crudele verso gli animali (la sua è dissezione sadica e gratuita, non gioco infantile…).
Crescendo ritorce i pensieri contro la persona che li ha formulati, trascina tutti in una “ridda di odio, orgoglio, esaltazione e dolore”, manifesta natura istrionesca che si traduce in “riso sgangherato e gesto teatrale” mentre i suoi tratti fisici dominanti sono costituiti da “capelli tinti [di nero, ovviamente], labbra purpuree e affilate, incisivi grossi, voce rotonda, impostata, senza asperità”: qui sì cadiamo un po’ nello stereotipo, ma le tradizioni popolari e iconografiche vanno in qualche modo onorate.
Venuti meno i sontuosi, scenografici palcoscenici romantici, per non parlare di quelli medioevali, in tempi di hi tech e indici finanziari, quale luogo migliore per attecchire e diffondersi della società letteraria, autoreferenziale, vanagloriosa, invidiosa, in cui si esercita la più sfrenata e grottesca delle competizioni?
Il diavolo nella società letteraria
Pronti a “cucinare a fuoco lento”, come cuochi onnipotenti, le proprie idee, gli scrittori sono gelosi delle loro ricette e disposti a vendere la propria anima (Satana è un acquirente formidabile) con lo scopo di soddisfare “un’orda di crapuloni-lettori dal palato troppo spesso assai poco fine”.
Mentre si intensificano i bilanci provvisori sulla funzione attuale del romanzo in Italia, Il diavolo nel cassetto si presenta anzitutto come una divertente e divertita parodia sulla sterminata galassia dell’odierna produzione narrativa, dislocata da Maurensig – alla fine fuori dal tempo (una sola indicazione, ’91… è troppo poco) – a Dichtersruhe, “non luogo” apparentemente edenico di un Cantone svizzero.
Qui tutti – dal norcino al fornaio, dal borgomastro al consigliere comunale sino al parroco dal manzoniano nome Cristoforo – scrivono, nel ricordo di un memorabile e mai accertato soggiorno di Goethe (scrittore caro al Demonio): lo fanno con sincerità, candore, latenti ambizioni e scarsissimi esiti, se si esclude il riconoscimento conseguito da Marta che, figlia menomata di un parto difficile, “guarda gli uomini con implacabile stupore” (una prerogativa del vero scrittore per Maurensig? sarebbe in ottima compagnia) e dipinge con i colori dell’Anima e della Poesia.
All’ironico, nemmeno troppo mascherato, appello non manca proprio nulla e nessuno: dai sermoni tenuti in chiesa dal giovane vice-Parroco, parodia delle scuole di scrittura creativa tanto in voga, ai caratteri/vizi/vezzi dell’attuale narrativa militante.
“Più alto è il numero delle persone che si dedicano a questa attività, più essa decade. Frustrante la paura dell’indifferenza […] bisogna mostrarsi, far circolare il proprio nome e la propria immagine, la parola scritta è il mezzo ideale per coltivare la folle speranza di imprimersi sulla lastra metafisica dell’universo”.
Si va dalla frenesia dei premi letterari (l’esclusione da quello indetto nel paese provoca ritorsioni violente e parossistiche degne delle pagine di Cecità di Saramago), alla figura centrale dell’editore, il cui ruolo spetta di diritto a Lucifero in persona che si materializza per soddisfare le aspirazioni di ciascuno. Il Prezzo è alto e, del resto, ben noto.
Divertissement colto e raffinato – con godibili rimandi retrò alla letteratura gotica tardo-romantica e al fantastico di Von Chamisso, a Hoffmann, all’ultimo Schnitzler del Diario di Redegonda – il libro è anche un apologo pungente e attualissimo. Una intrigante struttura metatestuale consente a Maurensig di prendere ulteriormente le distanze da quello che è anche il suo ambiente.
Così, in un incipit calviniano privo di coordinate spazio-temporali, la voce narrante di un affermato e indefinito romanziere – narratore di I grado e probabile doppio dell’autore – ha un tono sospeso fra nostalgia memoriale e paternalismo un po’ supponente di chi dispensa consigli a giovani talenti. Questo scrittore riscopre un manoscritto, Il diavolo nel cassetto, di autore anonimo cui attribuisce il nome Friederich, di cui riporta fedelmente interi passi, introducendo così un narratore di II grado: un appassionato di letteratura, ovviamente. Che questo si riveli poi il resoconto della confessione di un sacerdote moltiplica i livelli della narrazione, per la gioia dei semiologi strutturalisti: noi, giunti al III grado, smettiamo di tenere il conto…
In ogni caso il romanzo non è esclusivamente un excursus parodistico sulla nostrana Repubblica della Lettere, ma una riflessione sul senso di colpa mai rimosso che sopravvive nell’inconscio collettivo per il male commesso, anche da “insospettabili”: il diavolo pare saperlo assai bene e, con un sorprendente coup de théâtre conclusivo, gioca tutte le sue carte finendo con l’accattivarsi la simpatia, se non il consenso, del lettore.