Presentato oggi al Salone del Libro, Le venti giornate di Torino di Giorgio De Maria è un romanzo profetico che è stato riscoperto dopo quarant’anni, prima negli Stati Uniti e ora in Italia, da Frassinelli.
Per descrivere Le venti giornate di Torino. Inchiesta di fine secolo di Giorgio De Maria (1924-2009) – ai tempi piuttosto noto soprattutto come critico musicale – i recensori di oggi tirano in ballo i massimi (o forse solo più celebri) autori di opere fantastiche o distopiche, partendo da Lovecraft per arrivare a Kafka, passando per Buzzati e forse anche per Borges. In effetti, questo stupefacente romanzo, che uscì per la prima volta nel 1977 con Il Formichiere e ed è stato ristampato da Frassinelli nel 2017 dopo aver ottenuto un lusinghiero successo di critica e pubblico negli Usa, presenta non pochi elementi che lo accomunano ai maestri, a partire da un senso di angosciante irrealtà che però assomiglia in modo inquietante a certe ben conosciute realtà quotidiane. Senso che accompagna il lettore dalla prima all’ultima pagina.
L’io narrante e protagonista senza nome è un uomo colto e piuttosto tormentato che si ingegna a ricostruire i fatti e le ragioni di una serie di avvenimenti rimasti senza spiegazione, avvenuti a Torino nell’estate di dieci anni prima, caratterizzati da una sorta di epidemia di insonnia collettiva e da una serie di inspiegabili delitti compiuti con terrificanti modalità: le vittime venivano afferrate per le caviglie da qualcuno dotato di forza erculea e sbattute contro i monumenti fino a sfracellarle.
La biblioteca
La sua indagine lo porta a muoversi per una città resa spettrale da una generale attitudine alla diffidenza e all’isolamento, a prendere contatti con diverse personalità di rilievo, come avvocati o intellettuali, alcuni dei quali faranno una brutta fine prima che il racconto abbia termine, e a frequentare quanto resta di una “Biblioteca” che in realtà è un luogo in cui le persone comuni depositavano, sotto il pagamento di una modesta cauzione, i propri diari, che poi qualunque utente poteva leggere in forma anonima, sempre pagando una piccola somma per farlo, salvo poi risalire all’identità dell’autore in un secondo tempo, attraverso una particolare procedura.

Questa trovata della Biblioteca ha fatto parlare molti lettori moderni di anticipazione dei social network, ovviamente in forma non digitale. Da notare che, nel momento in cui si svolge il racconto, la Biblioteca è già stata chiusa e il suo materiale in gran parte distrutto, tant’è che il protagonista può consultarne solo dei frammenti.
Alcuni recensori hanno notato come in diversi punti De Maria inserisca dei riferimenti apparentemente gettati lì per caso, ma troppo precisi per esserlo davvero, alla realtà del suo tempo. Un esempio riguarda i giovani che costituiscono il personale che cura la Biblioteca, il cui aspetto si avvicina in modo fin troppo evidente a quello con cui si connotavano, alla metà degli anni ’70, i militanti dell’estrema destra.
La conclusione del romanzo non lascia molta possibilità di sollievo al lettore. Non si può certo spoilerarla come se niente fosse, ma è evidente come sia proprio lì la maggiore evidenza dell’influenza di autori come Borges o Buzzati, che sicuramente De Maria aveva letto con la massima attenzione.
Una caratteristica delle opere distopiche è di invecchiare a un ritmo diverso da quello con cui invecchiano gli altri romanzi
Talvolta diventando obsolete in men che non si dica, talaltra diventando sempre più attuali man mano che il tempo va avanti. Questo romanzo, nonostante il lessico e il frasario siano tipici del tempo in cui fu concepito e ne rendano quindi la scrittura decisamente (ma piacevolmente, per chi ha un po’ di nostalgia) datata, sembra molto più moderno di parecchie distopie senza troppa fantasia che sono state scritte dopo. Di sicuro apre un significativo spiraglio sulla percezione dell’incertezza del futuro in un tempo in cui sembrava che stesse per accadere chissà cosa: e infatti, in seguito, di cose ne sono accadute veramente tante, ma diverse da quelle che tutti si aspettavano. E se la meditata, razionale previsione di allora può apparire un’estranea distopia a chi la rilegga con gli occhi di oggi, la distopia di allora assomiglia fin troppo alla realtà che oggi ci ritroviamo intorno.