Occidentali visti dall’Oriente – Bangkok di Lawrence Osborne

Occidentali visti dall'Oriente. Cronache Letterarie
Leisure di Agnese Kurzemniece

Le cinque e mezza di un’altra giornata proficua nei grandi annali dell’insensatezza. Il tramonto sta per andare in scena con tutta la sua eleganza, mentre le ombre si coricano a dismisura. Questo è il momento più bello della giornata, quando è troppo tardi per recuperare il tempo perduto, quando la luce è più morbida e ci si concede un drink, si perdonano i propri vizi, si scrivono lettere invisibili e ci si accompagna fuori da questa giornata, vissuta nel sollievo di non avere alcuno scopo.

Anche oggi trascorro il tardo pomeriggio ai bordi della spiaggia osservando la specie umana in assetto balneare mentre migra dall’acqua alla terra (gli occidentali, pochini), e dalla terra all’acqua (gli orientali, tantissimi), e intanto cerco con l’occhio remoto l’orizzonte lontano che è dentro di me.

Bangkok Days di Lawrence OsborneAnch’io appartengo a quella scuola di pensiero che cerca di ottenere il massimo con il minimo sforzo, per tre buoni motivi. Prima di tutto perché il massimo che ottengo è di solito un buon risultato, e comunque mi soddisfa. Poi, perché il minimo sforzo ti permette di avere molto tempo libero. Infine, ho notato che le volte in cui mi sono sforzato di più, ho ottenuto di meno e comunque non abbastanza da giustificare lo sforzo (l’audacia non è uno dei miei difetti…).

Dopo una passeggiata nei dintorni, mi siedo su una sedia in legno, davanti a un Mojito dall’orrendo gusto salmastro ma servito con un tale garbo da sembrare quasi buono.
Prendendo un po’ in giro la realtà che mi circonda, apro il libro che ho in mano e mi immergo nella lettura di Bangkok Days di Lawrence Osborne, pubblicato in Italia da Adelphi con il  titolo Bangkok (leggi anche qui). Secondo me lui è uno dei migliori scrittori contemporanei di quel filone di “occidentali inclini a perdersi nel primo Oriente a disposizione”, che ha avuto tra i propri interpreti un grande autore come Graham Greene, del quale Osborne è degnissimo erede.

La storia è ambientata a Bangkok dove, scrive Osborne:

Si arriva quando si sente che nessuno ci amerà più, quando si getta la spugna, e a pensarci bene la città è solo questo, il protocollo di una caduta”.

Ma posso dire che le sue riflessioni e le sue narrazioni potrebbero avere come sfondo qualunque paese del Sud-est asiatico, Vietnam incluso. Anzi, soprattutto in Vietnam.

Il libro parla degli:

“Occidentali alla deriva che si perdono in una città misteriosa e avvolgente. Sono inafferrabili, incomprensibili; cinici e romanticamente devoti a un’idea di bellezza che copre tutto, fallimenti, difficoltà e solitudine. Pensano di poter controllare la loro presenza e il loro presente a Bangkok, ma la città non si cura di loro, li illude e poi li fa semplicemente scomparire”.
[…]
“L’Asia è un posto accogliente per uno che non ha mai combinato nulla, e che probabilmente non andrebbe a migliorare. È il rifugio ideale per uno senza una carriera, senza prospettive, senza un soldo. Il posto perfetto per uno sderenato, l’habitat naturale per un latitante che si sveglia la mattina con un’unica idea fissa, andarsene in giro e vedere cosa riesce a trovare, e che ama passeggiare senza scopo, per il gusto di farlo. Più che un uomo, ormai quasi un ruminante, una capra”.

Alzo gli occhi dal testo e non vedo capre, non vedo ruminanti, ma vedo un mare di acqua salata, un cielo immenso che m’illumina d’immenso, un romanzesco tramonto che trascina con sé il giorno che cerca di rimanere aggrappato al crepuscolo e un vento che muove l’aria esattamente come dovrebbe essere mossa. Sarà un caso, ma mi par proprio che qui, ora, in questa precisa intersecazione di tempo e luogo, si incontrano due realtà che sembrano escludersi a vicenda: la vita e l’eterno!
Facendo dell’immobilità la mia meta, da qui osservo il piacevole teatrino dell’universo, usando come sfondo l’arco blu dell’oceano che incontra l’oltremare del cielo immenso.

Lawrence Osborne, autore di Bangkok
Lawrence Osborne, autore di Bangkok

C’è chi gioca con il proprio cane lanciando instancabilmente palle o bastoni. Noi esseri umani siamo affascinati dai cani e dal loro mondo di espressioni emotive perché alla fine sono molto simili a noi: affezionati, facilmente delusi, smaniosi di svago ma spesso rassegnati alla noia, grati per ogni gentilezza e per ogni minima attenzione. Un gatto, invece, occhieggia con sufficienza alla pochezza della realtà che lo circonda, mentre attende nel parcheggio cosmico dove le anime sostano tra una incarnazione e l’altra.

C’è chi curvo su se stesso, con la barba accuratamente trascurata, cerca con dita sottili di estrarre note legate alla chitarra. Ci sono persone, come me, “che sbavano per passare il tempo a inzupparsi di nozioni che forse non useranno mai, ma che li aiutano a capire fino in fondo la dolcezza insensata della vita”.
E c’è chi, invece, semplicemente resta spaparanzato sulla sabbia, che è poi la maggioranza dei partecipanti a questo istintivo appuntamento di massa quotidiano.

Restano pienamente appagati da quel nulla che accade attorno a loro. I vietnamiti, e gli orientali in generale, amano il ripetersi delle cose e non conoscono quel sentimento figlio dell’importanza di sé che è la noia. Qui tutti attendono serenamente che non succeda nulla.
Quanta pazienza in quella che sembra la più grande sala d’attesa del mondo. Il niente ha il suo fascino per un italiano che viene dal paese del troppo, luogo pieno di primattori in un copione che prevede solo comparse.
Un po’ più in là, vedo in acqua un gruppetto di occidentali che decisamente ricordano quelli descritti da Osborne in Bangkok che ho in mano.

“Gli uomini hanno i tatuaggi tesi sulla pelle dolorosamente bianca. Le ragazze sono enormemente grasse, arroganti e rumorose, più o meno con la stessa quantità di tatuaggi su varie parti del corpo. Se la spassano tra le onde azzurre come elefanti marini, mentre gli asiatici al ristorante lì vicino, eleganti nelle loro impeccabili camicie bianche, li guardano con una sorta di stupore disperato e la muta certezza che il declino di quelle bestie si rivela nei codici oscuri dei loro tatuaggi e nel peso del loro adipe addominale. Non sono più gli snelli aggressori e padroni dell’altroieri. I bianchi sono gente straordinaria, amano partire a lancia in resta per salvare tutti: bombardamenti a tappeto, missionari, organizzazioni non governative. Ma ormai l’equazione Occidente uguale a eleganza e a potenza è scaduta da almeno due generazioni. Quando va bene sono individui mediocri, ordinari, vittime di una rassegnazione bovina”.

Il mare intanto cancella le orme sulla sabbia, la marea nasconde. È come se non fosse mai passato nessuno, è come se nessuno fosse mai esistito.
Sono qui seduto da solo ma, come scrive Lawrence Osborne, “sento di far parte di un tutto, e che in Oriente la solitudine dell’occidentale non ha niente a che vedere con l’isolamento. Del resto, è difficile sentirsi soli fra gente come i buddhisti, che alla solitudine non credono”.

“Qui nessuno sembra riconoscermi, ma del resto essere riconosciuti è un privilegio dei giovani, o dei ricchi. A un certo punto della vita ci si ritrova completamente anonimi, e gli altri ci guardano come fossimo trasparenti. È un passaggio difficile da mandare giù, almeno finché non si capisce che quella perdita di visibilità è solo una piccola anteprima dell’estinzione che verrà, e si finisce per accettarla. D’ora in poi, niente proroghe. Però l’Asia è un luogo che qualche proroga la offre, anche se breve”.

Scrive ancora Osborne:

“Appena muoio sarò dimenticato. Qui ti dissolvi, è come se non fossi mai esistito. Il che ti incoraggia a vivere il più possibile nel presente. A non pensare a niente. E una volta morto potrei farmi riportare al mio paese natale e marcire in santa pace insieme ai miei antenati. È una terra spessa, molto umida, perfetta per una rapida decomposizione. C’è anche una tomba di famiglia. Magari ogni tanto il vicario potrebbe passare a darmi un’occhiata. Oppure potrei farmi cremare qui, e non lasciarmi nulla alle spalle. Tempo un giorno e mi avranno dimenticato. Però un giorno può essere molto lungo”.

Koh Lipe, piccola isola nella provincia di Satun, in Tailandia

Invece i giorni in Oriente sono corti, inverosimilmente corti. Passano velocemente, e con essi le settimane, i mesi, forse pure gli anni. Non riesco a immaginare il domani che in un attimo è già diventato ieri, e nemmeno riesco a dire arrivederci che ci siamo già rivisti e dimenticati.
C’è una ragione se Iddio ha predisposto la successione dei giorni e messo un limite al loro numero: rendere ciascuno di essi prezioso.

Io purtroppo non sono mai stato molto religioso. Più che credere o non credere, ho dei dubbi: il dubbio è il mio Credo. Ma con ciò non voglio contestare alcun ruolo ultraterreno. Dopo quel fattaccio della mela e del serpente, e relative conseguenze, meglio evitare di contraddire chi di dovere…
Sta di fatto che col tempo sono diventato un abile artigiano del dubbio, ne produco molti e tutti di ottima qualità, massicci e destinati a durare.

E nel dubbio io cambio sempre idea.
Anzi, no!

Paul Valenti

Paul Valenti

Piemontese di nascita e, malgrado le raccomandazioni di chi mi diceva “Gira pure il mondo ma non uscire mai dall’Italia”, dal 1995 residente in Vietnam, confine ultimo dell’intangibile logica orientale, dove ho avviato alcuni ristoranti italiani, consuete zattere di sopravvivenza per italici in cerca di fortuna o in fuga da se stessi.

2 commenti

  1. Simpatica recensione. Si percepisce tutta la ridicola, per non dire grottesca figura di noi occidentali davanti a quelle nazioni, che sono chiamate le tigri del lontano oriente. Siamo obesi, pieni di tatuaggi, alla ricerca del nuovo divertimento…. e, soprattutto, portatori di un “ego” smisurato, per l’appunto ridicolo, grottesco….

    • Grazie per il commento, Vincenzo. In effetti, mi capita a volte di cogliere lo sgomento degli asiatici di fronte a comportamenti o modelli estetici di certi occidentali che, per turismo o per lavoro, frequentano questo continente. Il processo di emulazione dell’Occidente, tipico di molti Paesi definiti del Terzo Mondo come il Viet Nam, deve a volte fare i conti proprio con l’inadeguatezza degli esempi stessi da emulare.

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