Il respiro della notte di Richard Mason


Alla fine non molto differente da quella di Mark Haddon è la vicenda letteraria di Richard Mason, affermatosi clamorosamente a soli 22 anni con Anime alla deriva (1999) e rimasto legato al successo, forse troppo precoce, di quel libro. Noi (2004) era altrettanto interessante – se non migliore sul piano narratologico – ma non incontrò un eguale favore. Le stanze illuminate (2008) e Alla ricerca del piacere (2011) non hanno lasciato traccia. Accolto entusiasticamente dalla critica militante, Il respiro della notte (del 2017) non delude quanti hanno amato la sua opera d’esordio.

il respiro della notte

Con indubbia scaltrezza, Mason tocca infatti le medesime corde emotive, coinvolge sentimenti forti come amore, odio, amicizia, tradimento, sesso, somministrato in percentuali massicce e punte di ingenuità a tratti comica…
Mason non è Roth e scadere nel gratuito può essere questione di un attimo. Ma il motivo per cui pare opportuno astenersi da lodi sperticate è, paradossalmente, proprio questo: l’autore non sembra aver imboccato alcuna strada nuova, preferendo percorrere la vecchia.
Con quel tanto di esperienza in più che questi 18 anni regalano al suo indubbio talento, era lecito attendersi esiti diversi, non semplicemente un prodotto perfettamente confezionato secondo i criteri dell’ottima letteratura di intrattenimento.

 

La trama è frutto di una personale esperienza vissuta nel villaggio di Gwadana in Sudafrica

Lo scrittore è nato a Johannesburg da genitori militanti anti-apartheid, trasferitisi successivamente in Inghilterra. Popolata dall’etnia bantù degli Xhosa, Gwadana è il luogo che, intorno al 1914, vide il massiccio afflusso di (pseudo)aristocratici europei, per lo più russi e olandesi. Una terra dal potenziale economico smisurato, lontana dai venti di guerra del Vecchio continente, garante di privilegi incalcolabili a seguito del “Native Land Act”, che prevedeva l’abolizione dei diritti di proprietà per i non bianchi in ⅔ del paese, mentre si era avviata una strategica tregua tra Afrikaaner e Inglesi, dopo i due conflitti anglo-boeri di fine ‘800.

In un romanzo che teme, per natura e vocazione, l’etichetta di “opera di denuncia”, i riferimenti storici – come quello al ”Native National Congress” per la tutela dei diritti degli indigeni, o allo sfruttamento dei “cafri” nelle miniere dell’Africa sud-orientale ad opera degli “Strani” (definizione spregiativa dei bianchi europei) – sono appena accennati e marginali. L’autore sceglie invece la descrizione un po’ patinata degli status symbol dei ricchi immigrati cui appartengono due dei quattro protagonisti.

Protagonisti una coppia di ricchi immigrati e una coppia di indigeni

Così fra bauli Louis Vuitton, Packard decappottabili, foie gras e aragoste, chauffeur, boudoir malva e hotel finto stile elisabettiano, si muovono Piet Barol – olandese dai “magnifici occhi azzurri”, figlio di madre francese, mobiliere-ebanista di Capetown in grave crisi economica, talentuoso e pigro, accattivante, fascinoso cialtrone infantile ma, a suo modo, profondamente onesto… – e la sua ambiziosa moglie Stacey: con un passato demi-mondaine da riscattare, spregiudicata e cinica affarista che non accetta il declino finanziario. Lui è narrativamente il vincitore, non solo per le lettrici; lei è pronta a tutto, anche ad incassare le viscerali antipatie che lettori/lettrici le riserveranno.

Parallela a questa coppia c’è quella indigena, altrettanto antitetica, dei giovani amici desiderosi di mettere le mani sugli alberi della foresta per avere il legno pregiato e sotto costo per gli arredamenti delle ville snob di Johannesburg. Ntsina, “il ragazzo che ride”, figlio degli Altipiani “erede delle colline e dei vasti cieli”, nato sotto la protezione di una potente magia bianca “che fa crescere le cose”, è stato allevato dalla nonna Noshake ai culti misterici tribali ed è depositario dei valori ancestrali della tradizione xhosa.

Invece il colto Luvo, educato a coltivare le virtù dell’autonomia e dell’erudizione (Goethe, Tiziano, Renoir e “l’arte bianca” conosciuti nella Missione tedesca), ostile alla menzogna, è fermamente convinto che l’Universo non sia stato generato da “Tempo e Nulla” ma dall’atto di un Dio/Uomo “figlio di un falegname e di una vergine”, con la stessa consapevolezza che gli fa credere necessario un impegno politico responsabile e attivo a favore dell’emancipazione civile delle minoranze bantù.

Per entrambi un bildungsroman potenzialmente ricco di spunti, se non fosse che i loro caratteri vengono delineati in modo convenzionale (a tratti pure scontato) senza che la scrittura ne scavi a fondo stati d’animo e psicologia. Risultano perciò unicamente funzionali al vivace meccanismo narrativo, vero punto di forza dell’intreccio grazie agli innumerevoli spannung (climax) disseminati con maestria sino al pirotecnico finale.

A far da cornice ne Il respiro della notte c’è la comunità di Gwadana con i suoi rituali, l’elenco pittoresco e sterminato di divinità antropomorfe e ruffiane, le gerarchie ataviche, gli incantesimi di reincarnazione, le possessioni e gli esorcismi. Pulsioni che sembrano in tutto e per tutto quelle del “villaggio globale” convivono insieme alla foresta, nelle cui secolari e ambite querce vivono – temuti e venerati come gli Spiriti del Bosco Vecchio di Buzzati (ma con molta meno magia) – gli Antenati, destinati più prosaicamente ad aleggiare fra il mobilio esotico di una lussuosa camera da letto in perfetto stile giungla africana.

Sembra non mancare nulla, tanto meno il meticoloso repertorio di animali – pitoni e sciacalli, leopardi (in disarmo) e impala, formiche da horror movie e ragni, inferiori per numero solo ai (troppi) babbuini, spesso umanizzati e coprotagonisti – se non proprio quel respiro interiore, evocato nel titolo.

Richard Mason

Ad imporsi fra tutte, la figura della sangoma Nosakhe, custode della Conoscenza, nipote del Grande Fondatore di Gwadana, sciamana, indovina, fattucchiera con il dono dell’evocazione… e anti-inglese. Lei è il vero coro trasversale di questa narrazione nella quale non mancano spunti ironici – come nel caso della piccola, malformata Noni, che deve assolutamente manifestare doti di preveggenza per non essere uccisa (e se la cava con furbizia), o del finto stregone Fezile, sorta di istrione alcolizzato e spiantato, esperto nelle “trance pubbliche” a pagamento.

Mai comunque è compromessa la cifra complessiva (melo)drammatica del libro. Quanto a parlare di “opera originale e sofisticata di una delle voci più interessanti della letteratura inglese del ‘900”, forse è il caso di andarci cauti…

Marco Camerini

Marco Camerini

Formatosi alla scuola storico-critica di Walter Binni – di cui è stato allievo e con il quale ha collaborato negli anni conclusivi del suo magistero accademico alla Sapienza di Roma – è stato a lungo docente di Lingua e Letteratura italiana presso i Licei. Gli interessi della sua attività critica e saggistica sono rivolti alla lirica novecentesca e alla narrativa contemporanea, in particolare anglo-americana.

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