Basata sul romanzo distopico di Philip Dick La svastica sul sole del 1962, The Man in the High Castle mette in scena un passato alternativo in cui a vincere la seconda guerra mondiale sono le Potenze dell’Asse, Germania e Giappone. Il mondo ha quindi un diverso assetto geografico e nuove regole politiche. La serie è fuori di testa. Ma anche la sigla non scherza.
The Man in the High Castle è una serie tv del 2015. Ne sono andate in onda, ad oggi, 3 stagioni ed una quarta è già in cantiere. Prodotta da Amazon, si inserisce in quel filone, di cui in parte avevo parlato anche qui, delle trasposizioni tv di opere di carattere distopico. Produzione costosissima – la seconda stagione ha superato i 100 milioni di dollari – la serie, liberamente ispirata all’omonimo romanzo di Philip Dick, è sicuramente da intenditori. A metà tra un racconto d’azione ed una spy story dal risvolto intimistico, la serie, come il romanzo, induce a riflettere sulla pericolosità dei risvolti storici della presa di potere di alcune ideologie forti. Di questa atmosfera, a metà tra l’angosciante, il cupo ed il misterioso, è imbevuta la sigla, che trovo molto coinvolgente.
Scheda tecnica
Studio: Elastic
Director: Patrick Clair
Producer: Jamie McBriety
Lead Animator & Compositor: Raoul Marks
Designers: Paul Kim, Kevin Heo, Sam Cividanis
CG Modeler: Jose Limon
Executive Producer: Jennifer Sofio Hall
Music: “Edelweiss” cantata da Jeanette Olsson
La sigla di The Man in the High Castle si apre con una sequenza di immagini riprodotte come se fossero proiettate da una vecchia macchina da presa a pellicola. Segue una mappa del Nord America molto diversa da quella a cui siamo abituati noi oggi. La nazione è spaccata e in balia di due padroni: la Germania nazista ed il Giappone. Attraverso il linguaggio classico della cinematografia di guerra, che comprende l’uso di video di combattimenti e la rappresentazione di simbologie ben riconoscibili, siamo introdotti visivamente all’assetto del mondo nuovo.
Il tono della rappresentazione è particolarmente poetico e affascinante. L’effetto è, in gran parte, dovuto all’uso di Edelweiss, cantata in inglese da una voce femminile quasi sussurrante. Anche senza conoscere il contenuto della serie, l’emozione chiave trasmessa dai titoli di testa è quella di una certa nostalgia. E’ la nostalgia di chi subisce una condanna e lotta ogni giorno per mantenere la propria identità.
Ciò che rende particolarmente attraente la sigla è sicuramente la sua sfida visiva. La serie, infatti, è ambientata nel passato, ma un passato che non è mai esistito. Ricostruire e sintetizzare nei titoli di testa questo immaginario non è facile. Da un lato dobbiamo far capire che ci siamo riferendo ad un’altra epoca rispetto alla nostra. Dall’altro dobbiamo convincere che questo passato sia veramente esistito ed abbia avuto delle conseguenze politiche e geografiche precise e devastanti.
Non è un caso che la casa di produzione, per tale arduo compito, si affidi all’esperienza dell‘Elastic per la realizzazione ed alla bravura del suo direttore artistico, Patrick Clair. Il pubblico di questa rubrica dovrebbe ormai riconoscere questi nomi facilmente. Uno studio importante e un direttore artistico che ha dimostrato sul campo molte volte la propria abilità nella costruzione di immaginari visivi alternativi (dalla sigla di Westworld a quella di Game of Thrones, solo per citare le più famose realizzate dallo studio).
L’idea brillante di Patrick per questa sigla consiste nell’utilizzare la tecnica delle proiezioni per rendere al meglio il contrasto tra il nostro mondo e una sua storia alternativa. La tecnica permette di far convivere all’interno della stessa immagine più scenari e, quindi, più significati. Un procedimento simile alla doppia esposizione utilizzata per la sigla di True Detective (sempre la sua), ma molto più adatto alla simulazione di un found footage: al ritrovamento, cioè, di finto materiale d’epoca.
Chiaramente, al di là della tecnica, fondamentale per la riuscita della costruzione dell’immaginario visivo di una sigla così difficile è la scelta dei contenuti da proiettare. Qui lo studio dei creativi si focalizza sui simboli. Simboli che inequivocabilmente associamo alla cultura americana contemporanea e che, in qualche modo, possono risultare facilmente contaminabili con altri simboli appartenenti a ideologie che la storia ha sopraffatto. La scelta di focalizzarsi sulla rappresentazione solo di alcuni monumenti e luoghi simbolici americani è, quindi, determinante per la perfetta riuscita dell’operazione.
Dalla Statua della Libertà al Monte Rushmore, a Hollywood. E’ così che, per esempio, la proiezione di paracadutisti lungo i volti dei 4 Presidenti ci restituiscono, come lacrime, la tristezza di uno scenario fortunatamente non realistico. Sì perché non basta la tecnica, non bastano i contenuti. Quello che si vuole restituire con la sigla è la negatività di uno scenario come quello prospettato da Dick e quindi la tristezza a cui si sarebbe andati incontro. La vittoria del nazismo avrebbe impoverito il mondo intero, che Patrick ci racconta, infatti, completamente grigio, in tutte le sue sfumature.
In questo senso, forse la sigla è più coerente con le atmosfere descritte dal testo di Dick, che con la serie stessa. Il romanzo infatti è molto orientato all’indagine psicologica dei personaggi che spesso risultano per questo statici. La serie, invece, stravolge l’intimismo proprio del romanzo, per introdurre un dinamismo tipico di scenari di spionaggio e violenza.
Al di là della vicinanza al genere letterario, sicuramente il lavoro dello studio creativo per la realizzazione di questa sigla è degno di nota. Le scelte stilistiche ci permettono di guardare al genere dei titoli di testa sempre con maggiore attenzione.
Soprattutto se facciamo della creatività il nostro mestiere ed abbiamo bisogno di ispirazioni particolarmente intelligenti.
Ermeneutica ineccepibile! Chapeau!
Grazie!