Lia Levi, di famiglia piemontese, vive a Roma, dove ha diretto per trent’anni il mensile ebraico Shalom. Con il romanzo Questa sera è già domani (Edizioni E/O) è la vincitrice della quinta edizione del Premio Strega Giovani ed è finalista al Premio Strega 2018.
Il romanzo racconta la storia di una famiglia ebraica negli anni delle leggi razziali. I dubbi e i dilemmi tipici della vita quotidiana assumono, all’improvviso, i tratti drammatici di una vita al limite e di una umanità costretta a scappare. Una vicenda di disperazione e coraggio ispirata alla storia del marito, ma reinventata per scopi letterari.
Signora Levi, Questa sera è già domani, che è nella cinquina dei finalisti Strega, tratta il tema dell’Olocausto, già oggetto di tante opere. Eppure Lei è riuscita a dare un taglio originale e personale alla storia. Ci vuol raccontare cosa l’ha spinta ad affrontare nuovamente il te in questo momento della sua vita?
Non mi considero una scrittrice della Shoah. Naturalmente attingo alla mia esperienza di persona scampata, ma raccontare proprio l’Olocausto lo considererei una mancanza di rispetto visto che appartengo a quella categoria che è vissuta in quel periodo e si è salvata. I miei libri trattano sempre del pericolo incombente, della fuga e della salvezza. Questo tema l’ho sempre affrontato.
Il mio primo libro sapevo che doveva essere sulla mia esperienza da bambina salvata. Questo rappresentava il nodo emotivo della mia vita. Allora ero abbastanza piccola e venivo tenuta all’oscuro dalla mia famiglia su ciò che stava succedendo. Assorbivo tuttavia l’angoscia e non capivo quale fosse il male della nostra vita. All’epoca prendevo lezioni di francese perché la mia famiglia aveva deciso di trasferirsi in Francia e, non conoscendo altri bambini che studiavano francese come me, credevo che quello fosse il fatto da tenere nascosto. Quando ho iniziato a scrivere sentivo che dovevo rimuovere questo tappo emotivo poiché la mia interpretazione del mondo era di fatto sbagliata, un’interpretazione capovolta in cui lo Stato era il persecutore e non il protettore del cittadini.
Per i bambini ho scritto su altri temi, ma per gli adulti c’era una richiesta delle case editrici e un’aspettativa del pubblico che scrivessi storie ebraiche. Così ho usato la stessa atmosfera per altre storie di invenzione, parlando di matrimoni misti, la madre vedova di un marito suicida, ecc.
Questa sera è già domani, invece, è la storia di mio marito da bambino e ragazzo. Una storia drammatica e avventurosa, nel senso letterale del termine, ovvero che cela qualcosa di misterioso. Senza svelare il finale, il motivo che permetterà alla famiglia di salvarsi ha dell’incredibile, ma corrisponde alla realtà. A volte la realtà è più fantasiosa dell’invenzione.
Come ha proceduto per la sua stesura e a cosa dobbiamo il titolo?
I libri vanno lungamente pensati. I fatti sono il “cosa”, ma il libro è il “come raccontarli”. Dovevo assimilare episodi raccontati a voce, in modo frammentario. Non potevo angolare il libro solo dal punto di vista del ragazzo, perché nella storia si sono scontrati molti altri punti di vista. Un romanzo non è un insieme di fatti, deve avere una linea portante e io ho accentuato quella del rapporto madre-figlio. Nell’evento che li salverà la madre riscoprirà un’intelligenza del figlio, non quella di chi farà grandi cose nel mondo, ma di chi possiede un istinto intelligente. Di solito l’istinto è considerato l’opposto della ragione, io invece ho vissuto l’evento salvifico come una forza istintiva che contiene in sé anche la ragione.
Il titolo da un lato si riferisce al finale, perché la salvezza avviene di sera e li attende il domani. Tuttavia, il titolo si rifà anche alle feste ebraiche, che cito nel romanzo, che tradizionalmente cominciano la veglia con la cerimonia del venerdì sera in cui si accoglie già il sabato. I protagonisti, in fin dei conti, hanno accolto il sabato e quindi anche il proprio ebraismo.
Nel libro mi ha colpita una frase pronunciata da una donna ebrea che, vedendo ciò che accadeva in Germania, si consolava pensando che in Italia le leggi non fossero mai prese troppo sul serio e che gli italiani non sarebbero mai arrivati a tanto. Invece gli italiani non si sono poi dimostrati così diversi e migliori degli altri in fin dei conti? Oppure sì?
Era un ragionamento troppo ottimistico. E’ vero che in Italia spesso le leggi non sono prese alla lettera, ma, stranamente, quelle razziali sono state applicate con tenacia e pignoleria. Ho un documento della mia pagella scolastica, sia pure della scuola ebraica, che recita: “Scolara Levi Lia, razza ebraica”, un marchio vero e proprio. I campi di sterminio, tranne in un caso isolato, in effetti non erano in Italia, ma gli italiani hanno comunque collaborato, ed è vero che nel periodo della Repubblica di Salò erano proprio gli italiani ad arrestare gli ebrei e a consegnarli ai tedeschi.
Cosa pensa del film di Benigni La vita è bella?
Dall’ambiente ebraico, specie dagli ex-deportati, il film era stato molto criticato perché scherzava su un tema delicato e tragico. Io l’ho trovato buono, pur con qualche riserva, ma mi è piaciuto la poesia del film. Non l’ho trovato scherzoso, ma poetico. L’ho difeso, tanto che Benigni mi telefonò a casa e la notizia apparve anche sul giornale. Per me è prevalso il lato positivo.
Il particolare momento storico in cui viviamo sembra dominato da una sfiducia dei più giovani verso il sistema ed un disinteresse alla storia che sta dando loro un futuro incerto. Eppure il suo romanzo ha avuto un grande successo proprio tra di loro. Personalmente trovo che sia un bellissimo segnale. Lei se lo aspettava? Come se lo spiega?
Non me lo aspettavo assolutamente e sono stata molto meravigliata quando mi hanno chiamata. Però ho notato anche che il tema storico della maturità è stato scelto dal 18 per cento degli studenti. Un tema storico che prevedeva l’accesso alla storia attraverso la letteratura. Inoltre, sto incontrando anche molti giovani che partecipano alle mie presentazioni. Spesso, a fine evento, tanti giovani vengono a pormi domande. Noi vediamo tutto come grandi masse, invece ci sono giovani interessati, che chiedono la chiave di interpretazione. Hanno voglia di conoscere il passato in cui era più chiaro cio’ che era male e bene. Paradossalmente era più facile una volta. Oggi tutto è più difficile da distinguere: non ci sono più partiti politici, quindi è importante avere un faro guida. Ero pessimista anch’io, ma ho colto questo segnale positivo.
Rimanendo in tema di giovani, Lei ha all’attivo un lungo elenco di libri per bambini e anche il suo romanzo Una bambina e basta (Premio Elsa Morante opera prima 1994) è diventato un classico per ragazzi pur non essendo stato pensato per loro. Qual è il Suo rapporto con i ragazzi, come pensa ci si debba rivolgere loro per aprire un dialogo e formare una generazione in grado essere al passo con i tempi?
È necessario fare una premessa. Non avevo mai pensato di scrivere per ragazzi. Poi Una bambina e basta grazie al passaparola si è rivelato adatto per le scuole e da lì sono cominciati i primi incontri. Sono state le case editrici per ragazzi a cercarmi, poiché si rimproverava alle scuole di non consigliare agli studenti sufficienti autori italiani e quindi ne erano in cerca. Non era la mia vocazione scrivere per ragazzi, ma, come tutte le cose buone, è capitato per caso.
Per rivolgersi ai ragazzi è importantissimo definire la fascia di età a cui ci si rivolge, mentre per gli adulti non c’è questo discorso. I bambini non vanno turbati, il linguaggio va adattato, semplificato ma non trascurato: sarebbe altrimenti una mancanza di rispetto. Per i più piccoli, secondo me, ci deve essere sempre il lieto fine, in contrapposizione ai libri dei miei tempi che erano fatti per piangere, come Senza famiglia, o Incompreso. Questa formula adesso non va più bene. Con i bambini scatta immediatamente il processo di identificazione. Una volta, un bambino egiziano la cui famiglia aveva a che fare con il corpo diplomatico, dunque non profugo, mi chiese a proposito del mio libro: “Ma come ha fatto a conoscere la mia storia?” Questo fatto mi è sempre rimasto impresso poiché a volte non si tratta di identificazione con i fatti, bensì con gli stati d’animo. Rivolgendosi a ragazzi più grandi ci si può avvicinare progressivamente alla realtà. Questa formula penso non sia voluta, ma viene spontanea.
Quali pensa siano dei temi da trattare per avere la loro attenzione in questo momento? Per farli riflettere sul loro futuro e sul futuro del loro Paese?
Innanzitutto non bisogna essere didascalici, non fare la morale, né farla attraverso i propri personaggi. Come ha risposto Primo Levi al commento che gli rimproverava di essere troppo calmo: “Io sono un testimone, i giudici siete voi”. Occorre dare riferimenti reali, la vita com’è. Bisogna aiutare i giovani attraverso dei processi di identificazione. Loro sentono l’ingiustizia e in questo modo sono sensibilizzati.
Infatti i suoi personaggi sono vari e veri, buoni e cattivi, sebbene tutte vittime…
Certo, le vittime non devono essere necessariamente buone, ma non per questo devono essere ammazzate!
Progetti in corso? Cosa la vede impegnata in questo momento?
Attualmente sono molto coinvolta dalla fase di promozione di questo romanzo. Oltre allo Strega, tante scuole mi hanno già chiamato per l’autunno. Finché sono nella fase di promozione di un libro, non posso pensare ad un altro. Architettando altri personaggi, mi sembrerebbe di tradire i miei personaggi. Durante la promozione si continua ad essere con i personaggi. D’estate, periodo in cui sto più ferma, mi dedicherò alla stesura di un breve libro per bambini con un riferimento ad uno strumento musicale, richiestomi dall’Accademia di Santa Cecilia, che poi provvederà a corredarlo di cd. Ma per adulti pensare ad altri personaggi mi sembrerebbe proprio di tradire quelli del mio romanzo. Questa sera è già domani è finalista anche al Premio Alassio quindi presto sarò ad Alassio.