Ma l’amore torna indietro
Ti prende alle spalle, criminale
Per toglierti la tua vita certa e matura
In cambio della quale ti lascia la sua acerba e amara.
Non difenderti, è il prezzo che devi pagare,
Vanne orgoglioso.
L’amore torna sui tuoi passi
Ti prenderà il cuore e lo stringerà forte
Ascolta quel dolore
È l’unica cosa che rimarrà di te.
Rilesse quelle parole lentamente, le conosceva già. Le rilesse ricordando la stanza in penombra nella quale le aveva scritte, almeno dieci anni prima. Ripiegò il biglietto e lo ripose nel portafoglio.
Ciccio arrivò nel cortile verso le cinque, quando tutti erano già lì e avevano cominciato a giocare a pallone. Era il più grande, il più grosso di tutti e si atteggiava anche al più cattivo. Lo temevano, solo per questo non si opponevano alla sua presenza. Forse Michele no, non lo temeva, ma Michele lo adorava. Sedette sul muretto basso, dove erano anche tutte le ragazzine che guardavano la partita. Michele e Gennaro si avvicinarono a lui e lo salutarono come si saluta un capo, erano i suoi luogotenenti. Ma Ciccio sapeva che erano diversi anche loro, da lui. Il padre di Ciccio era un venditore ambulante che per svagarsi si ubriacava e picchiava lui e i suoi fratelli, a volte anche la madre, mentre quelli, anche Michele e Gennaro, erano figli di impiegati, avvocati, professionisti, dottori. Lui provava un misto di odio e di invidia nei confronti di tutti, tranne che nei confronti di Maddalena: Maddalena l’amava. Aveva gli occhi nocciola, ma scuri e grandi. I capelli lisci tagliati a caschetto, che si muovevano leggeri ad ogni suo volgere del capo, con una frangetta che si posava strategicamente a coprirle una parte del viso tondo e liscio, che diventava subito più bello, perché ti dava l’impressione di poterlo scoprire. Maddalena lo odiava, probabilmente. Si accorgeva di lui solo quando faceva il bullo con gli altri ragazzi, così a lui non era rimasta scelta che fare il bullo: almeno l’avrebbe visto, l’avrebbe ricordato. Ciccio era un ragazzino abbastanza brutto e soprattutto grasso, anche se muscoloso, grazie al lavoro di carico e scarico del furgone del padre che doveva eseguire quattro volte al giorno. Aveva giurato a se stesso che sarebbe diventato avvocato. Una volta aveva visto l’avvocato dello zio e aveva deciso che sarebbe diventato come lui.
Sorrise a questo pensiero, perché l’avvocato dello zio aveva modo di incontrarlo quasi ogni giorno. Si era compiuto come un miracolo, con la trasmigrazione di decine di chili di grasso da lui all’avvocato: ora lui era abbastanza magro, con una barba strategica che confondeva i lineamenti del suo viso, l’avvocato era diventato una mongolfiera ambulante che spesso vedeva agitarsi a Palazzo di Città. Ciccio era diventato davvero avvocato, ma aveva deciso di scegliere il lavoro nella pubblica amministrazione. La professione di avvocato doveva sottostare a compromessi che nella sua città potevano diventare pericolosi e lui, anche per la promiscuità della sua famiglia con ambienti malavitosi, aveva deciso di sottrarsene. Aveva avuto fortuna, o forse se la era guadagnata, la fortuna. Aveva studiato sodo ed era stato assunto come dirigente di un ufficio del Ministero del Lavoro.
Quella mattina era arrivato in ufficio e la segretaria gli aveva comunicato che la dottoressa Alibrandi sarebbe arrivata più tardi, perché era imbottigliata nel traffico vicino Casoria. Già, che poteva saperne lei del traffico di Napoli. Si mise a sbrigare il suo lavoro, il materiale per la dottoressa lo aveva preparato già da due giorni. Ciccio era meticoloso e gli piaceva essere sempre in grado di dare una risposta appropriata. Era come se lui non avesse la possibilità di sbagliare, che se fosse successo sarebbe precipitato nel girone dell’inferno dal quale era riuscito a venire fuori.
Stava giocando con le figurine dei calciatori allo schiaffo, quando uno dei bambini che giocava a pallone gli rovinò addosso.
“Scusa, Ciccio. M’ha spingiut’ chella cap’emmerda.”
Massimo si fece ancora più piccolo, se possibile. Giocava bene a pallone, Massimo, sarebbe diventato un calciatore, probabilmente. Ciccio si alzò da terra e lo guardò schifato, con odio.
“O vì c’hai fatt’? m’hai scpurcat’ tutt’a magliett. Fetent.”
“Scusa Ciccio, m’hanno spinto. Chillu llà.”
“Mò mi ‘accattà na maglietta nova.”
Nel frattempo, a debita distanza, si era creato un cerchio che racchiudeva la vittima e il carnefice. Tutti erano convinti che Massimo si sarebbe preso qualche ceffone, forse un pugno o due, poi sarebbe finita lì. Avrebbero smesso di giocare e tutti sarebbero tornati a casa. Non era la prima volta che rovinava il pomeriggio a tutti. Del resto, pensava Ciccio, a me hanno rovinato tutti la vita.
Luigi si fece avanti e arrivò sino al centro del cerchio, vicino a Ciccio e Massimo.
“Dai, lascialo stare, non l’ha fatta apposta.”
Era evidente a Ciccio che quello che Luigi gli stava chiedendo non era di lasciar perdere solo Massimo – lui questo l’avrebbe pure fatto – ma di lasciar perdere tutti loro, di smetterla di tormentarli ogni volta che riusciva a liberarsi dalle incombenze che il padre gli riservava. Si voltò lentamente, imitando i tanti che vedeva davanti casa sua quando si azzuffavano, lo guardò con gli occhi serrati dall’odio e dalla disperazione, perché già allora Ciccio non aveva voglia di recitare quella parte.
“E tu. Chi sì?”
“Dai, Ciccio. Sono Luigi. Ti ho detto, non l’ha fatta apposta, l’hanno spinto: lascialo, dai.”
Ora Luigi forse si pentiva di essersi intromesso perché l’attenzione di Ciccio si era spostata su di lui e Massimo era già dimenticato. Infatti quello approfittò per sfilarsi lentamente e, appena dietro al cerchio di bambini, corse via velocissimo.
“Taggia ritt’ tu. Chi sì.”
Mentre pronunciava quelle parole Ciccio, con lentezza studiata sfilò la fionda dalla tasca posteriore e mise nella pezzolina di pelle un ciottolo di mare, grosso e levigato. Guardando alternativamente la fionda e la faccia di Luigi, come un duellante in un film western, alzò la fionda e la puntò contro il viso del ragazzo che stava pagando il suo atto di coraggio. La fionda, da strumento di gioco nelle mani di un bambino, divenne arma micidiale nelle mani di un disperato.
“È mio fratello, forse non hai sentito. Ma del resto tu lo conosci bene, conosci tutti noi.
Vieni qui, ogni giorno, con il solo scopo di far vedere quanto sei forte. Ok, sei forte, non hai bisogno di usare quella.”
A Maddalena tremava la voce, ma solo un poco. Il suo piglio, al contrario, pareva fermissimo. Si mosse e fu davanti a lui, a coprire il fratello.
“E avanti, dai. Fai vedere che sei forte. Sei il più forte. Tira.”
Ciccio era smarrito, ma non lo dette a vedere. Michele e Gennaro cominciarono a manifestare segni di ansia e irrequietezza.
“Guard’accà. Sti quattr’ latrine mannan’annanz’e ffemmen.”
Disse Ciccio rivolto a Gennaro. Nel frattempo, però, aveva abbassato la fionda. Aveva timore di poter essere arrossito, non era mai stato così vicino a Maddalena. Lei sapeva che lui l’amava? L’aveva capito? Si approfittava di lui per quello? No, forse no. Aveva paura, Maddalena.
“Buongiorno, dottoressa.”
La dottoressa Alibrandi salutò lui con una stretta della mano e prese posto dall’altra parte della scrivania. Allora Ciccio sedette. Aveva lo stesso taglio di capelli e anche il viso non era cambiato. Solo leggermente più lungo e poi adesso portava gli occhiali, che comunque le stavano bene.
Gli presentò tutto il materiale che lei chiedeva, con precisione le fornì tutti i dati di cui aveva bisogno.
“Beh, dottor Marinelli. Non le nascondo che sono un po’ sorpresa, ma piacevolmente sorpresa. È ovvio. Sembra di stare a Bolzano, non a Napoli.”
Le dava fastidio il luogo comune sui napoletani faciloni e approssimativi, così la sorpresa di trovare nella sua città una persona preparata e precisa l’aveva stupita. Le piaceva, quell’uomo. Non fisicamente, sebbene non fosse male, ma le piacevano i suoi modi.
“Lei pure è napoletana, dottoressa. Quindi non deve considerarmi un’eccezione.”
“Si sente che sono napoletana, sì? Il mio accento è rimasto, forse un poco mascherato.”
“Sì, si sente. E poi, lo sapevo già.”
“Ah sì?” rispose lei un poco insospettita.
“Sa, la mia segretaria mi ha avvisato dell’ispezione e poi ha aggiunto che però lei era di Napoli. Forse per farmi preoccupare di meno. Ma io non sono preoccupato, mi sono preparato da molto tempo, a quest’incontro. Sono contento che sia avvenuto.”
“Si vede, che si era preparato per tempo. I miei complimenti, ancora.”
Le parole di lui erano parse a Maddalena leggermente sibilline, ma non vi aveva fatto caso. Era contenta di essere tornata nella sua città, anche se per poco, era contenta di avere incontrato una persona che smentiva i luoghi comuni sui napoletani. E poi, l’accento, i modi, gli sembrò una persona familiare.
“Dottoressa …” disse Ciccio mentre lei stava raccogliendo tutta la documentazione, già in piedi e pronta ad andare via.
“Mi dica, dottor Marinelli.”
Sperò che non rovinasse tutto con la richiesta di una raccomandazione o facendo il cascamorto, o in qualche altro modo maldestro.
“Avevo ancora un’altra cosa per lei, ma non la trovo.”
“Cosa?”
“Mah, se la trovo le mando un plico. Ma erano considerazioni mie, la documentazione è completa.”
“Ah, peccato. Me le mandi pure, ci tengo. La saluto.”
“Saluti.”
Quando Maddalena uscì Ciccio prese con lentezza il portafoglio e tirò fuori quel biglietto gualcito dove erano scritte quelle parole. Lo guardò come se volesse vedere oltre l’inchiostro e la carta. Poi cominciò a piegarlo e ad ogni piega fece seguire uno strappo, finché il foglietto non diventò un numeroso gruzzolo di quadratini piccoli piccoli. Li buttò nel cestino a fianco della scrivania e aprì il cassetto davanti a lui. Prese una sigaretta dal pacchetto che aveva lasciato lì quattro anni prima, la guardò, sembrava un poco umida, chiamò la segretaria e chiese “Francesca, per favore mi presterebbe il suo accendino?”
aaa
Tea Scarsella, che ha realizzato l’illustrazione, è una studentessa di Grafica e Comunicazione Visiva. Disegno, pittura e fotografia sono gli strumenti con cui ama raccontare immagini.