Effetto Lucifero. Tra Stanford e Marina Abramovic

L’essere umano, come ci insegna la storia, è la creatura vivente più intelligente sul pianeta Terra. È grazie all’essere umano che la vita e il progresso vanno avanti eppure, dopo anni e anni di studi, ancora non si è riusciti del tutto a decifrare l’enorme complessità del cervello umano.

Cosa rende l’umano superiore alle altre specie? Sicuramente il pensiero e il ragionamento. Grazie alla sua capacità di riflettere, infatti, l’uomo è portato a non fare del male, a socializzare, a non cadere nei più bassi istinti. Ma è davvero sempre così?

Negli anni ’70 ci sono stati almeno due eventi nati in ambito artistico che hanno volutamente messo alla prova questi istinti e hanno portato l’essere umano al limite della curiosità e della bestialità. L’esperimento carcerario di Stanford e la performance Rhythm 0 di Marina Abramovic.

L’esperimento carcerario di Stanford in un film del 2015

Il primo fu un esperimento di psicologia sociale, ideato dal professor Philip Zimbardo e tenutosi presso l’Università di Stanford nel 1971. Zimbardo, ispirato dalle idee di Gustave Le Bon sul comportamento sociale e la collettività, voleva mettere alla prova la teoria della deindividuazione. Cosa vuol dire? Voleva verificare se un essere umano, inserito in un gruppo specifico, tendesse a perdere la propria personalità e ad omologarsi alla folla, annullando così ogni senso di responsabilità.

Così, in un seminterrato del dipartimento di psicologia dell’università, fece allestire una finta prigione e pubblicò un annuncio su un giornale, dove si richiedevano volontari per una ricerca. Risposero in 75. Di questi ne vennero selezionati 24, di sesso maschile, ceto medio e, soprattutto, dal comportamento equilibrato. Il gruppo venne diviso a metà: 12 di loro avrebbero interpretato il ruolo delle guardie, gli altri 12 quello dei detenuti. Tutto era perfettamente organizzato: i detenuti portavano una catena alla caviglia e avevano ricevuto un numero identificativo. Le guardie avevano ottenuto una divisa, un manganello, un paio di manette e un fischietto ciascuno. I detenuti dovevano attenersi a delle regole ben precise, le guardie dovevano solamente fare tutto ciò che ritenevano fosse utile a far osservare quelle regole.

Esperimento carcerario di Stanford – Immagini dell’epoca

Nessun ricercatore si aspettava di assistere a ciò che successe durante l’esperimento. I 24 ragazzi “equilibrati”, in soli due giorni si identificarono nel proprio ruolo a tal punto da provocare il caos. Le guardie abusarono subito del loro status e divennero sadiche e spietate, costringendo i detenuti a fare cose riprovevoli. I detenuti, da parte loro, inizialmente si mostrarono ostili, si ribellarono e tentarono anche di evadere, ma dopo cinque giorni, il loro atteggiamento divenne passivo e sconnesso dalla realtà. Erano vessati a tal punto dalle guardie da dimenticare che, in realtà, erano solo dei ragazzi. Tutto ciò portò all’interruzione dell’esperimento dopo soli 6 giorni, a fronte delle due settimane previste.

Questo evento fu ‒ ed è tuttora ‒ causa di infinite critiche e polemiche. C’è chi sostiene che il contesto del carcere non fosse specchio della quotidianità. Chi dice che le guardie fossero state, in un certo senso giustificate a comportarsi in quella determinata maniera o che, addirittura, non fossero del tutto autonome nelle loro scelte, ma fossero influenzate dal volere dei supervisori.

Tutto ciò venne definito da Zimbardo come effetto Lucifero,  espressione che è anche il titolo del libro che pubblicò nel 2007 per parlare di questo fenomeno. Dal libro nacquero una pièce teatrale omonima della Compagnia Oyes nel 2010 e un film nel 2015, The Stanford Prison Experiment, diretto da Kyle Patrick Alvarez.

Tre anni dopo quest’esperimento, in tutt’altro luogo e contesto, l’effetto Lucifero si ripete in una performance di Marina Abramovic. L’artista montenegrina è conosciuta per le sue particolari perfomance, in cui spinge la sua stessa energia e il suo corpo sempre oltre i limiti dell’immaginabile. Tuttavia, nel 1974, decise di mettere alla prova il pubblico. Così nacque Rhythm 0, performance allestita nello Studio Morra, a Napoli.

Le istruzioni erano semplici: nelle sei ore di performance, l’artista sarebbe rimasta totalmente impassibile, mentre il pubblico era invitato a compiere delle azioni. La Abramovic fece allestire un tavolo sul quale erano riposti 72 oggetti, che gli spettatori potevano usare su di lei a piacimento. C’erano oggetti di piacere, come piume, scarpe e rose, e oggetti di dolore, quali catene, lamette e anche una pistola con una pallottola all’interno.

Rhythm 0 – Alcuni oggetti a disposizione del pubblico

La Abramovic decise di organizzare questa performance spinta dalle critiche dell’epoca, che la accusavano di egocentrismo e masochismo, in quanto, nelle precedenti opere, era sempre lei, in prima persona, a farsi del male e spingersi oltre il limite della sopportazione umana. Così, decise di creare un’opera con cui dimostrare quanto il pubblico, invitato ad agire dalle istruzioni dell’artista e dagli stessi oggetti presenti, potesse spingersi oltre.

Marina Abramovic Rhythm 0

Perciò disse: “Io sono un oggetto, potete fare con me tutto quello che volete. Mi prendo ogni responabilità per sei ore”. Se nella prima metà della performance tutto andò molto a rilento e il pubblico, timidamente, si limitava ad accarezzarla, a girarle la testa o ad alzarle le braccia, durante la seconda metà lo scenario cambiò totalmente. Si formano due gruppi distinti di pubblico: uno volto alla violenza, i cui membri le tagliarono i vestiti e la pelle con le lamette, le succhiarono il sangue dalle ferite, la punsero con le spine delle rose e compirono azioni tendenti anche alla violenza sessuale. Il secondo gruppo, invece, era propenso a proteggerla dal primo. Quando la pistola carica venne messa nelle mani di Marina e puntata alla sua testa, col dito poggiato sul grilletto, scoppiò una rissa tra le due fazioni  ed uno dei membri del gruppo di protezione prese la pistola dalle mani di Marina e la gettò dalla finestra.

Dopo le sei ore previste, alle due del mattino, i responsabili della galleria annunciarono la fine della performance. Non appena Marina ricominciò a muoversi, il pubblico scappò dallo studio, incapace di confrontarsi con l’artista come persona e con le sue stesse azioni.

https://youtu.be/YuRv-5OsiZs

Quella sera, la Abramovic dimostrò al mondo intero che il pubblico, spinto da un sadico senso di curiosità, avrebbe potuto anche ucciderla. Gli spettatori dello Studio Morra avevano dimenticato completamente che, di fronte a loro, c’era un essere umano.

Questi due eventi dimostrano, l’uno in un modo diverso dall’altro, che la macchina umana è tanto complessa quanto fragile.

Ci vuole davvero poco a trasformare l’umano, essere senziente e dotato di pensiero, in un animale istintivo e spietato. A volte basta semplicemente dire loro: “fate quello che volete”. Non avete i brividi anche voi?

Ludovica Labanchi

Ludovica Labanchi

Classe 1993, è laureata al DAMS e si sta specializzando in Teatro, Cinema, Danza e Arti Digitali presso la Sapienza di Roma. Adora l’arte e tutto ciò che la riguarda, ma il suo cuore appartiene al teatro.

Un commento

  1. L’esperimento carcerario di Standford è interessante, ma la performance di Marina Abramovic fu molto più importante. L’esperimento di Standford confermò quello che già si pensava da tempo. L’uomo, se ricopre un determinato ruolo, tende ad identificarsi totalmente con esso, senza più applicare alcun giudizio critico. La performance della Abramovic, invece, fu una dimostrazione molto concreta che una parte delle persone tende a farti del male, a ferirti e a maltrattarti per il puro piacere di farlo. Probabilmente una parte degli esseri umani è così frustrata e insoddisfatta delle proprie vite, che l’unico modo, che ha trovato, per dare sfogo a questa rabbia e frustrazione consiste nell’aggredire e nel fare del male al prossimo o a chi ritiene più debole e sfortunato di lui.

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